Malak Mattar è una ragazza minuta, graziosa, vivace, con due occhi neri intensissimi, già sopravvissuta, a soli 22 anni, alle quattro guerre che ci sono state a Gaza. Tuttavia questo suo status di “sopravvissuta” l’infastidisce, perché da quando ha 14 anni dipinge senza sosta: ha già realizzato circa cinquecento tele e vuole farsi largo nel mondo come artista e non solo come sopravvissuta di un territorio in guerra.
Grazie ai social network – che hanno tolto almeno virtualmente l’embargo che vige nella Striscia – è riuscita a farsi conoscere all’estero ed espone in gallerie di tutto il mondo. Una sua mostra itinerante, arrivata anche in Italia, ci ha permesso di scoprire un’arte espressionista al femminile, molto intima.
L’ossessione di Mattar per donne alte, colorate e protettrici, spesso chine in un abbraccio, è qualcosa che lei stessa non riesce a spiegare fino in fondo: “Quando comincio una tela, provo a dipingere uomini, ma poi mi scappa la mano e si trasformano in donne”, spiega durante il nostro incontro a Roma, dove è stata ospitata da Assopacepalestina.
Questo ha anche a che vedere con il fatto che è nata “in gabbia”, spiega ancora. Nella più grande prigione a cielo aperto al mondo, Gaza, Mattar non si sentirebbe mai di dipingere piante o fiori, perché la natura che la circonda è vista come nemica: “Io vivo sul mare, ma il mare è angosciante, ricorda gli attacchi navali e il fatto che siamo chiusi qua”. La seconda gabbia che teme è quella di una società conservatrice, quella di Gaza, che non le ha offerto finora la possibilità di conoscere davvero gli uomini: “Credo che dipingo solo donne perché sono anche gli esseri umani che conosco meglio: mia nonna, mia madre sono dei modelli per me, anche le mie compagne di classe. Ho avuto così pochi rapporti veri con gli uomini, mi sono un po’ sconosciuti”.
Avendo vissuto attraverso una lunga serie di guerre, è stata anche depressa, come molti a Gaza: “È un posto dove le persone sembrano più vecchie che altrove, un posto che sembra andare a ritroso: il mondo va avanti mentre noi torniamo sempre e inesorabilmente indietro”.
Dipingere è stato chiaramente un modo per uscire dal trauma: giovanissima, ha visto morire davanti a sé la sua vicina, uccisa da un raid aereo: “Quando la mia vicina è morta, lei che era così dolce, così carina, non aveva mai fatto male a nessuno, ho pensato che dovevo morire anch’io, visto che neanch’io avevo fatto qualcosa di sbagliato”. La pittura permette di dare un senso a questa assurdità che è la Striscia di Gaza. Lei non dipinge i palazzi distrutti o i tanti morti che le sono rimasti impressi. Per uscire dall’assurdità dipinge invece delle figure pacifiche, avvolgenti, donne che diventano case, nonne che diventano tende dove potersi nascondere, figure umane che sono le sue uniche vere case.
E se ci tiene tanto a essere vista in primis come artista – anche se è molto attiva nel difendere i diritti della Palestina – è anche perché ha lottato molto per arrivarci e per trovare un suo “paese”, una sua identità: “A Gaza nessuno è di Gaza! Mia nonna ci è arrivata nel 1948 da rifugiata con nove figli e senza più niente. Da bambina mi correggevano quando dicevo che ero di Gaza”, l’arte almeno non ha bisogno di passaporti.
La sua carriera internazionale, oggi di tutto rispetto, sembra una favola da social network. Comincia a dipingere a 15 anni per curarsi dalla depressione e dall’angoscia, pubblica le sue opere su Twitter, Instagram, e diventa un’artista riconosciuta a livello internazionale senza mai essere uscita dalla Striscia. Con il tempo Malak ha ricevuto messaggi di incoraggiamento dal mondo intero: “È stata davvero una cosa folle, incredibile. Non potevo crederci ogni volta che mi scriveva qualcuno. Non parlavo bene inglese e provavo a rispondere alle persone usando il traduttore di Google” (al momento su Instagram ha circa 34.600 followers).
Quando ha cominciato a essere invitata a esporre in tutto il mondo, la realtà di Gaza le ha provato che le favole sono diverse dalla realtà, visto che non ha mai avuto il diritto di accompagnare i suoi quadri: “Andavo all’ufficio postale per inviare le mie tele, e mi sentivo talmente strana pensando che loro erano più libere di me. Loro potevano viaggiare”. Per questo una sua tela s’intitola Nel mio cuore c’è un festival, dedicata a un appuntamento mancato.
La sua battaglia ha avuto dei frutti. Ora vive a Istanbul. Dopo avere lottato con la famiglia che non la voleva lasciare viaggiare da sola, dopo essere arrivata seconda al concorso generale scolastico palestinese riuscendo così a convincere i genitori, dopo le umiliazioni subite alla frontiera egiziana, Mattar è riuscita a lasciare Gaza grazie a una borsa di studio in Turchia.
Anche qui però non si sente pienamente felice: non riesce a distogliere lo sguardo dai fenomeni d’oppressione, dalla situazione drammatica dei rifugiati siriani. È difficile liberarsi dalla gabbia interiorizzata dell’occupazione, da Gaza. Ma la sua voglia di dipingere permane nella sua purezza.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it