Con l’ultima svalutazione (la terza in 12 mesi) il valore della lira egiziana si è dimezzato rispetto all’anno precedente. Il paese è indebitato all’inverosimile: sotto il presidente Abdel Fattah al Sisi, i debiti esteri dell’Egitto sono triplicati salendo a 170 miliardi di dollari. Nel dicembre scorso il regime ha sottoscritto un ulteriore prestito di tre miliardi con il Fondo monetario internazionale (Fmi). Aumentano i dubbi sulla capacità del governo di gestire quest’ultima crisi.
In un discorso tenuto il 23 gennaio, il presidente Al Sisi ha riconosciuto, fatto raro, che trenta milioni di egiziani sotto la soglia di povertà stanno affrontando una “tremenda lotta quotidiana”. La crisi del covid e la guerra in Ucraina hanno fatto precipitare il paese, già fortemente indebitato, verso l’abisso finanziario. Per la stampa araba il presidente potrebbe perdere i suoi sostegni esterni: l’Fmi ha criticato apertamente la gestione dell’economia, in particolare il ruolo troppo forte dell’esercito, mentre i paesi del golfo Persico non sono più così pronti a fornire assegni in bianco. Per l’economista ex capo della Banca mondiale per il Medio Oriente, Rabah Arezki, il paese è “sull’orlo di un baratro finanziario ed economico”.
Non esiste più la classe media
Per i 106 milioni di egiziani la situazione è diventata insostenibile. In un reportage video della Bbc Arabic, Om Mohamed dal Cairo spiega che con l’aumento dei prezzi “non esiste più la classe media, solo le persone della classe alta sono in grado di vivere in questo momento”. Nel reportage un altro padre di famiglia spiega di aver dovuto rinunciare alla carne, anche al pollo, perché il suo prezzo è triplicato in un mese. Il governo ha consigliato di mangiarne le zampe per ricavare proteine, scatenando l’ira sui social network.
Haitham el Tabei, della Abwab el Kheir foundation, distribuisce pasti in quartieri popolari del Cairo e riporta: “Le richieste di aiuto negli ultimi tre mesi sono raddoppiate rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sono tutte persone che hanno una fonte di reddito, ma non basta più per mantenersi”.
Da qualche giorno, l’influente commentatore televisivo Amrou Adib ha cominciato a parlare della crisi economica su una tv finanziata dall’Arabia Saudita con meno pazienza di un anno fa. E durante un suo discorso alla festa della polizia, Al Sisi ha abbandonato il suo tema preferito – “l’Egitto sta bene” – e ha finalmente riconosciuto la catastrofe economica assicurando che “lo stato non abbandonerà le persone a basso reddito”. Il governo, che sovvenziona il pane per oltre 70 milioni di cittadini, ha cominciato a gennaio a fornire pagnotte a prezzo calmierato a coloro che non sono in possesso di tessere di razionamento.
Le ragioni della crisi
Anche se il presidente ha cominciato a riconoscere la drammaticità della situazione, rifiuta tuttavia il fatto che la crisi sia strettamente egiziana, difendendo i grandi progetti sviluppati dallo stato. A suo dire l’Egitto è vittima della crisi economica globale: prima l’emergenza del coronavirus e il conseguente crollo dei proventi del turismo e poi la guerra in Ucraina.
Nei fatti, la guerra ha avuto un grande effetto sul più grande importatore di grano al mondo. Russi e ucraini, inoltre, rappresentavano prima della guerra un terzo dei turisti in Egitto.
Tuttavia, per la maggioranza degli osservatori, come l’economista Rabah Arezki, il paese è “rimasto intrappolato in un ciclo di prestiti che è diventato insostenibile”. Il suo debito quest’anno è pari all’85,6 per cento della sua economia, secondo l’Fmi.
Critica ai progetti di Al Sisi
Oltre la crisi economica e finanziaria, la stampa araba discute la perdita di fiducia in Al Sisi da parte delle istituzioni internazionali, in primis dell’Fmi, ma anche dei leader della controrivoluzione, quei paesi del Golfo che sono i principali sostenitori finanziari del paese.
Molte delle critiche sono indirizzate ai “progetti di gloria” di Al Sisi, come lo spostamento nel deserto della capitale amministrativa, costato 45 miliardi di dollari e unicamente indirizzato alle classi ricche egiziane, o il treno senza conducente costato 23 miliardi di dollari. Nel 2015, Al Sisi ha pianificato l’espansione del canale di Suez per otto miliardi di dollari. Le entrate previste dovevano raggiungere 100 miliardi di dollari all’anno mentre hanno raggiunto solo 5,7 miliardi all’anno nel 2018 secondo il Middle East Monitor.
La critica emersa dal rapporto dell’Fmi riguarda anche il fatto che questi grandi progetti consentono alle imprese statali e militari di dominare l’economia. In questa maniera hanno colpito il settore privato, scoraggiato gli investimenti esteri e reso il paese più dipendente dal credito estero per la sua sopravvivenza.
Verso la bancarotta
Il sito arabo di approfondimento Daraj paragona Al Sisi a uno degli ultimi viceré d’Egitto, Ismail, che portò il paese alla bancarotta e fuggì in Europa conducendo il paese a 78 anni di occupazione inglese. “Ogni volta che Ismail voleva soldi, li prendeva in prestito a interessi esorbitanti” e alla fine “l’enorme inflazione del debito estero lo portò a essere rimosso dal potere lasciando l’Egitto sotto il controllo europeo”.
Per Daraj, un altro punto in comune tra i due leader è il loro gusto per i palazzi lussuosi. Un’immagine satellitare comparsa su Google Earth nel 2019 ha svelato un nuovo palazzo presidenziale nella nuova capitale amministrativa El Alamein, con una superficie di 50mila metri quadrati, vale a dire dieci volte la Casa Bianca. Sulla pagina ufficiale Egypt Projects Map si può vedere il palazzo, progettato in uno stile simile al palazzo di Ras El-Tin ad Alessandria, con un obelisco risalente al re Ramses II installato nel giardino.
Gli attori esterni
In questo contesto, il destino del paese dipende dai suoi creditori.
L’economista Ibrahim Nawar s’interroga su Daraj e dubita che la soluzione sia richiedere nuovi prestiti internazionali: “Il tasso di interesse sul nuovo prestito sarà nell’ordine del 4 per cento annuo, circa cinque volte superiore al tasso di interesse di base”. Questo perché il paese è fortemente indebitato, e quindi l’Fmi applica tassi più alti. Inoltre, secondo Nawar, “l’efficacia delle riforme richieste dall’Fmi per alleviare la povertà è da tempo messa in discussione”.
Khalil al Anani, sul sito Middle East online, vicino al Qatar, afferma che i leader del Golfo sembrano perdere fiducia nel presidente che hanno finanziato per anni. I paesi della regione hanno fornito garanzie a istituzioni finanziarie internazionali come il Fondo monetario internazionale per sostenere l’economia egiziana e dal 2013 sono i principali sostenitori finanziari della banca centrale egiziana. Alcuni segni di impazienza del golfo si fanno sentire. A Davos il ministro delle finanze dell’Arabia Saudita Mohamed al Jadaan non ha nascosto il suo rifiuto di continuare a dare “assegni in bianco”.
I leader della controrivoluzione, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, spaventati dalle primavere arabe, avevano dal 2013 sostenuto il regime di Al Sisi nella sua repressione dei movimenti democratici in Egitto, nell’eliminazione dei Fratelli musulmani, considerati terroristi da Riyadh e Abu Dhabi, e infine per il suo posizionamento contro l’Iran. Ora, chiede Al Anani, “questi interessi comuni tra il regime di Al Sisi e i paesi del golfo esistono ancora?”.
Il Medio Oriente è cambiato e le ragioni per sostenere il regime del Cairo sono meno evidenti. “La storia si ripeterà e Al Sisi avrà lo stesso destino di Ismail, dopo che entrambi hanno fatto indebitare l’Egitto? Oppure saprà scrivere un destino diverso e troverà una via d’uscita dalla crisi economica?”, si chiede Daraj.
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