Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2012 sul numero 980 di Internazionale.
I giocatori del tavolo 25 litigano subito sulla scelta delle pedine. Doug Herold, un immobiliarista di 44 anni, sceglie la candela. Il giocatore davanti a lui, Billy, un esperto di intelligenza artificiale con lo sguardo da squalo, beve un sorso dalla lattina di Coors e prende la pera. Il fungo tocca a Eric, un avvocato con il pizzetto che si occupa di danni ambientali e ogni tanto si distrae dal gioco e parla al BlackBerry per “poter mettere in conto a qualcuno queste ore”. La mela la prende un pallido tecnico dei computer di nome Trevis, arrivato in macchina da Canton, nell’Ohio, per fare un favore alla National kidney foundation, sponsor del venticinquesimo torneo di Monopoli. Il campionato si svolge ogni anno nell’atrio della Us Steel tower a Pittsburgh. Oltre ai partecipanti – 112 persone divise in 28 tavoli da quattro – ci sono la mascotte della squadra di football dei Pittsburgh Steelers, Steely McBeam, che saltella tra i tavoli con una gigantesca trave di gommapiuma sotto il braccio, tre giudici con l’abito a righe e il fischietto al collo, e un uomo dall’aria assonnata con una lunga toga e un martelletto enorme, che in realtà è un giudice del tribunale civile della contea di Allegheny che si è offerto volontario “per garantire il rispetto delle regole”.
La sera prima ho chiesto a Doug, il vincitore dell’anno precedente, qual era stata la sua strategia. “Be’, l’anno scorso sono riuscito ad accaparrarmi Boardwalk e Parc place, e prima o poi ci passano tutti”, mi ha spiegato, attribuendo il suo successo alla fortuna. “Quello che devi fare è assicurarti un monopolio, uno qualsiasi, appena possibile”. Gli ho anche chiesto se conosceva la storia segreta del gioco e ha risposto di no.
Secondo la versione ufficiale raccontata dalla Hasbro, titolare del marchio, il Monopoli fu inventato nel 1933 da un radiatorista disoccupato e dog sitter a ore di Filadelfia, Charles Darrow. Darrow voleva inventare un gioco ispirato all’acquisto e alla vendita di terreni, e diede alle varie proprietà dei nomi presi in prestito da Atlantic City, la città di mare dove andava in vacanza da bambino. Brevettato nel 1935 da lui e dalla Parker Brothers che lo realizzò, nei primi due anni di produzione il gioco vendette più di due milioni di copie, rendendo ricco Darrow e probabilmente salvando dal fallimento la Parker Brothers. In seguito è diventato il gioco da tavolo brevettato più venduto nel mondo. Da quando esiste, Monopoli è stato giocato da almeno un miliardo di persone in 111 paesi e 43 lingue, e sono stati fabbricati circa sei miliardi di casette verdi.
Per i tabelloni sono stati usati i nomi delle strade di quasi tutte le grandi città statunitensi, e sono state create edizioni ispirate a noti finanzieri (Berkshire Hathaway Monopoly), squadre sportive (Chicago -Bears Monopoly), programmi televisivi (The Simpson Monopoly), automobili (Corvette Monopoly) e macchine agricole (John Deere Monopoly).
Tuttavia, la letteratura ufficiale non ha mai citato le vere origini del gioco. Trent’anni prima che Darrow lo brevettasse, nel 1903, un’attrice del Maryland di nome Lizzie Magie aveva creato un proto-Monopoli come strumento per diffondere la filosofia di Henry George, uno scrittore dell’ottocento convinto che nessun individuo potesse rivendicare la “proprietà” della terra. Nel suo libro Progress and poverty (1879) George definiva il concetto di proprietà fondiaria “sbagliato e pericoloso” e sosteneva che a possedere la terra dovesse essere la società come “soggetto collettivo”.
Lizzie Magie aveva chiamato la sua invenzione The landlord’s game e quando fu commercializzata, nel 1906, somigliava molto al Monopoli che conosciamo oggi. C’era un percorso che girava intorno a un tabellone quadrato diviso in isolati, ognuno dei quali aveva un nome, un prezzo di acquisto e uno di affitto. Si giocava con i dadi e con finte banconote e i partecipanti spostavano le pedine lungo il percorso. C’erano stazioni e servizi pubblici, e una tassa sul lusso di 75 dollari. C’erano anche le carte delle Probabilità, con citazioni attribuite a Thomas Jefferson (“La terra appartiene in usufrutto a tutti gli esseri viventi”), John Ruskin (“Molti cominciano a chiedersi come chi possiede la terra ne sia entrato in possesso”) e Andrew Carnegie (“La più grande sorpresa della mia vita è stato scoprire che l’uomo che lavora non è quello che diventa ricco”).
In quella prima edizione, le proprietà più costose da comprare, e le più convenienti da possedere, erano strade famose di New York come Broadway, Fifth avenue e Wall street. Al posto del “Via” c’era un riquadro con la scritta “Lavorare la madre terra produce salario”. Il meccanismo era quello del Monopoli: tutti i partecipanti si indebitavano e prima o poi fallivano, tranne uno, il supermonopolista, che alla fine vinceva. Ma i giocatori potevano prendere un’iniziativa che non è prevista dalle regole del Monopoli di oggi: decidere di collaborare. Non avrebbero pagato l’affitto a un singolo proprietario, ma avrebbero messo la somma in una cassa comune e, come scrisse Magie, “tutti si sarebbero garantiti la prosperità”.
Dopo che Lizzie Magie realizzò il suo primo tabellone su una vecchia tavola di compensato, The landlord’s game fu giocato per quasi trent’anni in varie forme e sotto diversi nomi: Monopoly, Finance, Auction. Era particolarmente amato dai quaccheri di Atlantic City e di Filadelfia, ma anche dai professori di economia e dagli studenti universitari attirati dall’ideologia socialista. Condiviso liberamente e di dominio pubblico come gli scacchi e la dama, era di proprietà di chiunque imparasse a giocarlo.
Negli Stati Uniti si tengono ogni anno migliaia di tornei di Monopoli, nelle contee, nelle scuole, nelle chiese, nelle aziende, nei seminterrati, nelle sale riunioni, nelle mense, nelle biblioteche pubbliche e online. Ogni quattro o cinque anni ci sono i due grandi tornei ufficiali, il campionato americano e il campionato mondiale, sponsorizzati dalla Hasbro, che mette in palio due premi di 20.580 dollari. Non ho fatto in tempo a vedere gli ultimi campionati, perché sono stati entrambi nel 2009, ma sono riuscito ad andare a quello della Us Steel. Ho pensato subito che l’ambientazione fosse perfetta, dato che la società è stata creata da due grandi monopolisti come Andrew Carnegie e J.P. Morgan, e che il secondo ha ispirato l’abbigliamento della mascotte del Monopoli, il ricco Zio Pennybags: frac, cilindro e monocolo.
Le regole di Adam Smith
Il maestro delle cerimonie richiama all’ordine i presenti gridando nel microfono: “Avete a disposizione novanta minuti da questo momento”. Gli uomini del tavolo 25 lanciano subito i dadi e appena finito il primo giro cominciano a comprare terreni freneticamente. Doug si accaparra Pacific avenue (un costoso investimento da 300 dollari), due terreni gialli e diverse proprietà di minor valore. Il portafoglio di Trevis ora comprende due stazioni e Marvin gardens, la proprietà più costosa delle gialle. Billy conquista l’elegantissimo Boardwalk (400 dollari), mentre Eric compra Tennesse avenue e St. James place (a 180 dollari l’uno). Queste due sono le proprietà più ambite dai concorrenti, perché costano relativamente poco e ci si finisce sopra spesso, insieme ai terreni che sono vicino alla prigione, dove è probabile che i giocatori passino molto tempo.
A sedici minuti dall’inizio, Doug fa una proposta a Billy (“La propensione allo scambio e al baratto”, scrive Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni, “è comune a tutti gli uomini e non si riscontra in nessuna altra razza di animali”). I terreni cominciano a scarseggiare e il loro valore di mercato aumenta, andando spesso ben oltre il valore nominale. “Questo”, dice Doug sollevando uno dei suoi gialli, “in cambio di quello”, e indica una delle proprietà economiche di Billy, “più 300 dollari”.
Billy non abbocca. “No, me li dai tu trecento dollari”.
“Io do a te trecento dollari?”.
“I soldi contano di più”.
Anche Eric e Trevis cominciano a contrattare, con Billy e Doug che intervengono quando sentono minacciati i loro interessi. Il tono delle voci sale. Offerte, controfferte, rifiuti, rialzi. “Così continueremo a girare raccogliendo solo spiccioli”, commenta Doug con un gran sospiro.
“L’affare deve avere senso anche per me”, dice Trevis.
“Quest’uomo mi prende per la gola”, replica Doug.
In quella che sembra palesemente una congiura, Billy dice a Eric che se stringessero un accordo e riuscissero a costruire, nessuno dei due dovrebbe pagare quando finisce su uno dei terreni: creerebbero una sorta di duopolio a spese di Doug e Trevis.
Mentre Eric riflette sulla proposta, Doug alza le spalle, ma Trevis è scandalizzato: “Non potete farlo, è contro le regole”.
“Quali regole?”, fa Billy. “Stabilisco io il prezzo”.
“Sciocchezze!”.
“Arbitro!”.
Arriva di corsa un arbitro con il fischietto al collo (il giudice con il martelletto è scomparso) che cerca di stabilire chi ha ragione mentre i giocatori continuano a litigare, poi alla fine dice: “Non potete farlo”.
Qualche settimana prima del torneo ho parlato con Richard Marinaccio, il campione nazionale del 2009. “Quelli che giocano intorno al tavolo della cucina” – cioè quasi tutti – “pensano che lo scopo del gioco sia accumulare soldi”, mi ha detto. “Ma il vero obiettivo è far fallire gli avversari in meno tempo possibile. Avere quel tanto che basta perché gli altri non abbiano più nulla”.
Secondo questa teoria, l’idea alla base del Monopoli non è stimolare la creatività dei giocatori, l’apertura dei mercati, l’espansione del commercio e la creazione della ricchezza grazie al duro lavoro e alla difesa illuminata dei propri interessi, cioè le virtù che Adam Smith considerava le mani invisibili che avrebbero prodotto una società ricca e dinamica. No, l’obiettivo dei giocatori del Monopoli è congelare il mercato. Non devono fare altro che stare lì ad aspettare che qualcuno si fermi per caso sui loro terreni. Smith definiva questi personaggi che vivevano di rendita, e che ai suoi tempi erano rappresentati dall’aristocrazia terriera inglese, i grandi parassiti del sistema capitalistico. Non producevano nulla, non innovavano e non creavano nulla e si arricchivano dissanguando quelli che dovevano pagargli l’affitto. La fase iniziale del Monopoli, quella del libero scambio, che è poi la più entusiasmante, in realtà ha come scopo quello di mettere fine al libero mercato e alla concorrenza per sostituirla con il pagamento dell’affitto.
Nuovi ricchi
Henry George non aveva studiato economia. A 16 anni era stato assunto come mozzo e aveva lasciato Filadelfia a bordo del mercantile Hindoo, diretto verso l’Australia e l’India. In viaggio aveva assistito a un tentativo di ammutinamento a causa delle terribili condizioni di lavoro dei marinai. A vent’anni, ormai trapiantato in California, lavorava come apprendista tipografo, pesatore di riso e bracciante a ore. Poco dopo si sposò, ma rimase senza lavoro a causa della crisi dell’occupazione che colpì la costa occidentale. Nell’inverno del 1865 sua moglie era incinta e moriva di fame. “Non perdete tempo a lavarlo”, disse il dottore a George quando a gennaio nacque il bambino. “Dategli da mangiare”. La povertà lo portò a interessarsi di economia, a riflettere sul perché fosse tanto diffusa in un paese così ricco di risorse. A sua volta, questo lo spinse a rivolgersi ai giornali, che immaginava potessero pagarlo per le sue idee. E alla fine il giornalismo lo portò a New York.
Quello che sconcertava George era che dovunque venissero introdotti mezzi di produzione più avanzati – dovunque fiorissero industrie e si accumulassero capitali – c’erano sempre più persone povere che vivevano in condizioni disperate. Per lui era un paradosso incomprensibile. “È l’enigma che la Sfinge del Fato pone alla nostra civiltà e se non troveremo la risposta saremo annientati”, scriveva. “Finché tutta la ricchezza creata dal progresso moderno servirà solo a costruire grandi patrimoni quel progresso non sarà reale e non potrà essere duraturo”. Nel 1879 pubblicò il libro che lo avrebbe reso famoso, Progress and poverty, che forniva una risposta radicale all’enigma: il motivo per cui il progresso portava una maggiore povertà era il monopolio sulla terra.
Negli Stati Uniti, con il progredire della civiltà, l’aumento della popolazione e l’inurbamento, i terreni avevano cominciato a scarseggiare, il loro prezzo era salito e la maggioranza che doveva viverci e lavorarci era costretta a pagare quel prezzo alla minoranza che li possedeva. Per la classe lavoratrice, la conseguenza era la schiavitù dell’affitto. “Per vedere esseri umani che vivono nelle condizioni più abiette e disperate”, scriveva George, “non bisogna andare nelle sconfinate praterie e nelle capanne di legno costruite nei boschi, dove l’uomo comincia la sua lotta con la natura e la terra non vale ancora nulla, ma nelle grandi città, dove la proprietà di un piccolo appezzamento di terreno costituisce una fortuna”.
Da quei piccoli appezzamenti, soprattutto a New York, erano nate le dinastie dei nuovi ricchi americani: gli Astor, i Beekman, i Phipps, gli Stuyvesant, i Roosevelt e, più tardi, i Tishman, i Rudin, i Rose, i Minskoff, i Durst e i fratelli Fisher e Tisch. Secondo George, l’accumulo di terreni in mani private era il prodotto di un sistema di proprietà “artificiale e infondato quanto il diritto divino dei re”. “Sia dal punto di vista storico sia da quello etico”, scriveva, “la proprietà privata della terra è un furto. Ha sempre avuto origine dalle guerre e dalle conquiste”. Quello era, in realtà, il peccato originale della civiltà occidentale. George osservava che molte civiltà premoderne non riconoscevano il diritto di proprietà sulla terra. Un uomo possedeva solo l’arco e le frecce che aveva costruito con le sue mani, non la terra sulla quale cacciava. Un simile diritto non esisteva nemmeno nel Vecchio testamento, che “trattava la terra come un dono del Creatore alle sue creature”. Dopotutto, Mosè aveva istituito il giubileo: ogni cinquant’anni la terra veniva ridistribuita e i debiti contratti su di essa venivano cancellati, una tradizione alla quale avevano messo fine i romani. Negli annali del mondo precapitalistico, George aveva riscontrato ovunque “il conflitto tra l’idea che tutti hanno gli stessi diritti sulla terra e la tendenza a monopolizzarla trasformandola in proprietà privata”.
Ma nell’ottocento il “preconcetto” della “proprietà individuale della terra”, rafforzato dal complesso insieme di diritti e titoli concessi dallo stato, era diventato la base del sistema legale statunitense. Secondo George, non poteva e non doveva essere eliminato. La confisca delle terre e la nazionalizzazione avrebbero portato alla tirannia. “Lasciamo che gli individui che oggi ne godono mantengano, se vogliono, il possesso di quelle che amano chiamare le loro terre”. George non pensava che fosse necessario abolire il diritto di comprare e vendere una proprietà o di lasciarla in eredità ai propri discendenti. Sosteneva piuttosto che la società avrebbe dovuto lasciare ai possidenti “il guscio” delle loro terre e prenderne “il frutto”. Scriveva: “Non è necessario confiscare le terre, basterebbe confiscarne la rendita. In questo modo lo stato diventerebbe in pratica padrone di tutte le terre senza esserlo formalmente”.
Quello che contava era la rendita. In linea con l’economia classica di Adam Smith, George definiva rendita il reddito da capitale derivato unicamente dall’aumento di valore della terra, e quindi distinto dal lavoro investito su di essa sotto forma di migliorie, costruzione di case, uffici e fabbriche o coltivazione di campi. A valorizzare la terra era la mano invisibile del lavoro di una comunità. La capanna diventava preziosa quando veniva scoperta una miniera nella zona, costruita una strada che la collegava alla miniera, aperto un negozio che vendeva provviste per i minatori, quando venivano costruite altre case, arrivava la ferrovia e nasceva una città. Il terreno su cui sorgeva la capanna derivava il suo valore da quello che la società ci aveva costruito intorno. Quindi quell’aumento di valore spettava alla società, e secondo George doveva essere calcolato e tassato a prezzo di mercato. Questa “tassa unica” sulla terra e sulle risorse naturali era un modo per riformare il capitalismo, che George pensava di dover salvare dall’autodistruzione, e “aprire la strada alla realizzazione del nobile sogno socialista”.
Abbasso le sanguisughe
I ricchi proprietari terrieri dell’epoca accusarono il georgismo di essere la teoria più folle ed estremista dei suoi tempi, e consideravano l’idea della tassa unica più pericolosa di tutti gli scritti di Karl Marx messi insieme. La chiesa cattolica definì il pensiero di George “degno di condanna”. Tuttavia, a cinque anni dalla pubblicazione di Progress and poverty centinaia di migliaia di statunitensi sarebbero arrivati a credere nel vangelo della tassa unica. A New York, il prete populista Edward McGlynn definiva George “un profeta, un messaggero di Dio”. Mark Twain e il filosofo John Dewey erano georgisti. Lev Tolstoj sosteneva che George aveva “inaugurato una nuova era”. “Il metodo per risolvere il problema della terra è stato elaborato da Henry George a un tale livello di perfezione che, con l’organizzazione dello stato e il sistema di tassazione obbligatoria attuali, è impossibile concepire una soluzione migliore, più giusta, pratica e pacifica”, scriveva Tolstoj. “L’unica cosa che placherebbe il popolo in questo momento sarebbe l’introduzione del sistema di Henry George”.
Nel 1886 lo United labor party (Ulp), appena uscito dalle battaglie della prima Festa del lavoro, scelse George come candidato per la carica di sindaco di New York. La campagna elettorale fu estremamente radicale per l’epoca: dovunque le ferrovie, i telegrafi, i telefoni, e le forniture di gas, elettricità e acqua potevano funzionare in modo più efficiente in un’economia di scala, come “monopoli naturali”, sarebbero stati di proprietà pubblica. A New York i trasporti sarebbero stati gratuiti e l’amministrazione comunale si sarebbe fatta carico dei servizi sociali. George avrebbe messo fine al lavoro minorile e imposto la giornata lavorativa di otto ore. Il suo programma sarebbe stato finanziato dalla tassa sul valore della terra. Anche se nessuno dei grandi giornali lo appoggiò, furono fondati circoli a suo nome in 24 distretti della città. Gli iscritti finanziarono la campagna elettorale contribuendo ognuno con 25 centesimi. La coalizione che si formò intorno all’Ulp superava le divisioni di classe, etnia e religione che dominavano a New York. Tre giorni prima delle elezioni, i suoi sostenitori si raccolsero a migliaia nella zona sud di Manhattan portando striscioni con la scritta: “I lavoratori onesti contro i proprietari terrieri ladri”, e a Tompkins square, sotto la pioggia battente, intonarono slogan come “Abbasso le sanguisughe”. Ma George fu sconfitto, e ci furono anche sospetti di brogli.
Biddle pensa che il primo tabellone possa valere un milione di dollari
Henry George tornò al giornalismo, tenne conferenze, scrisse altri cinque libri e si dedicò alla diffusione del vangelo della tassa unica. Ebbe anche il merito di ispirare tutta una generazione di riformatori progressisti. Ma dimostrava poco interesse per tutte le riforme che non fossero la tassa unica. Fedele alle teorie di Adam Smith fino alla fine, attaccò i socialisti e i sindacalisti che erano i suoi maggiori sostenitori e, come scrisse un suo critico, si mise alla testa di un gruppo di sostenitori della tassa unica caratterizzati da “uno spirito insopportabilmente dogmatico e dottrinario”. Non accettò mai che il reddito da capitale provenisse da investimenti che non fossero sulla terra, e di conseguenza fu accusato di non voler prendere atto del crescente potere del capitalismo finanziario, che creava ricchezza grazie al valore attribuito dalla società a titoli e azioni.
Alla sua morte, nel 1897, quando centomila newyorchesi fecero la fila per rendere onore alla sua salma, la “grande idea” di George, come avrebbe scritto con rimpianto Tolstoj nel 1908, aveva già imboccato la lunga strada dell’oblio.
Il passatempo di Arden
Circa un mese prima del torneo di Pitts-burgh, uno studioso dilettante del Monopoli e collezionista di giochi di nome Richard Biddle mi ha invitato a visitare la cittadina di Arden, nel Delaware, per dare un’occhiata al primo Landlord’s game mai fabbricato. Arden era stata fondata come esperimento georgista nel 1900, quattro anni dopo il fallito tentativo di applicare il sistema della tassa unica in tutto lo stato. Era stata concepita come una comunità autosufficiente che si estendeva su 500 ettari di terreno boscoso e aveva attirato artisti, poeti, attori, anarchici e liberi pensatori. Anche lo scrittore Upton Sinclair aveva un cottage lì, che aveva chiamato Jungalow. Agli abitanti di Arden era vietato “possedere” i loro terreni, ma potevano prendere in affitto per 99 anni appezzamenti di proprietà comune. Non aveva importanza se ci costruivano sopra una villa o una capanna, pagavano l’imposta solo sul valore della terra, a volte a un tasso molto alto. Con quei soldi si costruivano strade, parchi, giardini e si garantivano i servizi.
Lizzie Magie aveva visitato il villaggio poco dopo che era stato fondato e aveva portato con sé una copia in tela cerata del suo Landlord’s game, che presto sarebbe diventato uno dei passatempi dei residenti. Mentre era lì, aveva costruito un tabellone di legno con l’aiuto di un falegname del posto. Biddle mi ha parlato con grande solennità di quel primo tabellone. Pensa che possa valere un milione di dollari.
Ci siamo incontrati al parco del villaggio e abbiamo percorso qualche isolato per andare a trovare il proprietario del tabellone, un ex operaio dell’industria automobilistica di ottant’anni di nome Ronald Jarrell, che ci aspettava sulla porta del suo cottage e appariva piuttosto nervoso. La mattina era andato a prelevare il prezioso artefatto dalla sua cassetta di sicurezza in banca e lo aveva esposto in salotto su un tavolino da caffè accanto a una collezione di porcellane antiche, statuette di giada e vecchie bambole. I suoi tre barboncini abbaiavano tanto da rendere difficile la conversazione.
“Nell’estate del 1903 arrivò qui una donna …”.
“Lizzie Magie”, ha detto Biddle.
“Non ricordo il nome, ma aveva avuto l’idea di un gioco”.
Suo nonno, un falegname georgista di nome Robert Woolery, si era stancato di giocare a dama all’emporio e cercava un nuovo passatempo. Dopo aver visto il disegno di Magie sulla tela cerata, decise di costruire quel tabellone.
Biddle lo ha preso in mano annuendo. Era dipinto a mano, intagliato sul retro di una tavola di compensato e puzzava come una scarpa vecchia. Prima di andare da Jarrell avevo letto le regole di Magie del 1904, che però erano state scritte diversi mesi prima di costruire il tabellone. Stranamente, non prevedevano la possibilità di formare monopoli sui terreni, né parlavano di far pagare di più ai giocatori che ci capitavano sopra dopo che erano state costruite le case e gli alberghi. E non c’era nulla che facesse pensare a Henry George e alla tassa sul valore della terra. Se il gioco era stato progettato per insegnare il georgismo, sembra che Magie lo avesse concepito nel modo sbagliato. Due anni dopo, quando fu pubblicato ufficialmente, le regole erano cambiate: fu introdotto il concetto di monopolio, ma esisteva anche l’alternativa georgista della cooperazione.
Ho chiesto a Biddle quale fosse secondo lui il motivo di quella discrepanza. “Lo chieda alla monopolista di Monopoli”, mi ha risposto.
“E chi sarebbe?”.
“Patrice McFarland. Forse lei saprà darle una risposta, perché ora è lei che possiede i diari di Lizzie Magie. E molte altre cose importanti. Ma non parla con nessuno”.
Patrice McFarland è una ex organizzatrice di mostre del museo dello stato di New York che nel 1992 ha avuto 25mila dollari da un’organizzazione georgista, la Robert Schalkenbach foundation, per scrivere una biografia di Magie. Negli anni successivi, oltre ai diari di Magie, ha comprato una serie di prototipi del Landlord’s game fabbricati a mano ad Arden e in altri posti. Ma non ha mai scritto il libro e, secondo Biddle, non ha mai voluto condividere con nessuno le informazioni e i documenti che ha raccolto. “È una che gioca duro”, ha detto. “Una volta mi sono scontrato con lei in un’asta su eBay per una versione del gioco del 1939. L’ho pagata diecimila dollari”. Ho provato varie volte a contattare McFarland ma non mi ha mai risposto.
Nel cottage di Jarrell c’era anche Mike Curtis, un abitante di Arden che vent’anni prima aveva giocato con The landlord’s game di Magie del 1906. La variante georgista a cui aveva giocato Curtis si chiamava Single tax, e le regole andavano ben oltre l’obbligo di pagare semplicemente l’affitto al Tesoro. Insegnavano anche a condividere la proprietà dei beni pubblici. Quando il patrimonio del Tesoro raggiungeva i cinquanta dollari, il giocatore che possedeva la società elettrica era costretto a venderla, e da quel momento in poi chi ci finiva sopra non doveva più pagare perché era di proprietà comune. La stessa cosa succedeva con l’azienda tramviaria, poi con le ferrovie e anche con la prigione, che diventava una scuola e alla fine produceva altro salario. Fatto questo, ogni volta che nel Tesoro si accumulava un deposito di cinquanta dollari, lo stipendio dei giocatori aumentava di dieci dollari. A Single tax, che più tardi Magie avrebbe chiamato Prosperity game, vinceva il giocatore che pur avendo meno soldi degli altri aveva raddoppiato il capitale di partenza. “The landlord’s game”, diceva Magie, “aiuta a capire perché l’amministrazione del nostro paese non funziona e il Prosperity game fa vedere come si può ricominciare da capo e raddrizzare le cose”. Curtis ha ammesso che il gioco non gli era piaciuto molto, “dopo un po’ diventava piuttosto noioso”.
L’antimonopoli
Nell’estate del 1971 Ralph Anspach, un professore di economia in pensione e inventore di giochi che vive a San Francisco, subì una sonora sconfitta a Monopoli nel salotto di casa sua – il figlio di otto anni lo fece fallire – e si trovò a riflettere sulla vendibilità di un gioco da tavolo esplicitamente antimonopolistico. “Il mio gioco dovrebbe cominciare dove finisce il Monopoli”, ha scritto nel suo libro di memorie, The billion dollar monopoly swindle, “quando il tabellone è stato tutto comprato”. Lo scopo del gioco doveva essere spezzare i monopoli. Nel primo anno di produzione, il 1973, il gioco creato da Anspach, Antimonopoly, vendette 200mila copie, e a Natale del 1974 raggiunse quasi il milione. La Parker Brothers non ne fu molto contenta. Minacciò di fare causa ad Anspach per violazione dei diritti d’autore. Ma lui l’anticipò sostenendo di poter dimostrare che il brevetto dell’autore non era valido.
Una delle prime cose che scoprì Anspach mentre si preparava a difendere il suo caso fu l’esistenza del Landlord’s game. Ma non riusciva a spiegarsi come l’invenzione di Magie, che promuoveva la socializzazione delle terre e la condivisione della ricchezza, fosse diventata una proprietà privata che faceva guadagnare miliardi di dollari alla Parker Brothers. La chiave del mistero, in realtà, era un professore di economia socialista di nome Scott Nearing, che aveva insegnato alla Wharton school of finance dal 1906 al 1915. Anspach parlò con lui nel 1974, quando aveva 91 anni. Il professore gli disse che aveva imparato il gioco intorno al 1910, quando viveva ad Arden, e lo aveva insegnato ai suoi studenti della Wharton perché capissero “quanto fosse antisociale il concetto di monopolio” e, in particolare, quello di “monopolio sulla terra”. A quanto sembra, gli studenti lo avevano insegnato ai loro amici. Era stato proprio in quel periodo che il gioco aveva assunto il nome di monopoly, a lettere minuscole come dama, scacchi e domino. Negli anni successivi si era molto diffuso, nelle città di origine degli studenti di Nearing e nelle altre università. Ma presto aveva perso le sue connotazioni antimonopolistiche, perché i giocatori erano arrivati alla conclusione che l’idea di mandare in rovina gli avversari era più divertente della ridistribuzione georgista di Magie.
Nel 1913 monopoly era arrivato ad Altoona, in Pennsylvania, e quattro anni dopo sarebbe arrivato a Filadelfia. L’economista Rexford Tugwell, un futuro membro del gruppo di consiglieri privati di Franklin Delano Roosevelt, ricordava di averci giocato nel 1915. Negli anni venti era ormai popolare tra gli studenti dell’università della Pennsylvania, della Columbia, di Harvard, Haverford, Princeton e Swarthmore. All’inizio della grande depressione il gioco arrivò a Indianapolis, dove l’imparò anche un’insegnante quacchera di nome Ruth Hoskins, che poco dopo sarebbe andata ad Atlantic City e lo avrebbe insegnato ad altri due quaccheri, Eugene e Jesse Raiford.
I fratelli si appassionarono al gioco e decisero di migliorarlo. Insieme ad altri quaccheri, trasformarono le pedine in oggetti per la casa: fermacravatte, mollette, chiavi, ditali. Cambiarono i nomi e il valore dei terreni basandosi su quelli di Atlantic City. I quartieri poveri della città diventarono le proprietà più economiche e le zone chic quelle più costose. Secondo le regole riportate da Ruth Hoskins, quando i giocatori ci capitavano sopra le proprietà dovevano essere messe all’asta, Jesse Raiford, invece, scrisse il prezzo sul tabellone.
I Raiford insegnarono il gioco a un amico, Charles Todd, che a sua volta lo insegnò al suo presunto inventore, Charles Darrow. A un certo punto del 1932, Darrow copiò lo schema del tabellone, le regole, i nomi dei luoghi, il loro valore e le carte delle Probabilità e creò la sua versione del gioco. L’unica novità fu che si vantò di esserne l’inventore. Ed entrò nel pantheon degli eroi del commercio americani.
Non c’è più bisogno di contrattare, non serve più che il mercato sia dinamico
Anspach si rese conto del paradosso. Prima di diventare monopolio di una sola persona e di una società privata, il gioco era stato “inventato” da molte persone, non solo da Magie e dai Raiford, ma anche dall’ignoto giocatore che gli aveva dato il nome e dallo sconosciuto di Arden che forse aveva aiutato Magie a modificarne le regole. Il gioco che oggi sottolinea la spietatezza umana e in cui la vittoria è determinata dal fallimento degli altri era stato in realtà frutto di una collaborazione. Nessuna delle informazioni che Anspach scoprì gli fu utile quando nel 1976 andò in tribunale. Le vedove di Eugene e Jesse Raiford e altre sette persone testimoniarono di aver giocato a monopoly vent’anni prima che Darrow lo commercializzasse. Anspach chiamò a deporre anche Robert Barton, l’ex presidente della Parker Brothers. Barton, che aveva aiutato Darrow a ottenere il brevetto per la sua “invenzione”, ammise sotto giuramento di essere perfettamente a conoscenza della storia del gioco e del fatto che Darrow non lo avesse inventato. Ma il giudice fu inamovibile. Respinse la querela di Anspach e ordinò che tutte le copie di Antimonopoly non vendute venissero distrutte. Settemila copie furono portate in una discarica nelle campagne del Minnesota e interrate sotto la supervisione dei dirigenti della Parker Brothers.
Vince chi si ferma
A 40 minuti dall’inizio, al tavolo 25 la partita è bloccata o, a seconda dei punti di vista, procede benissimo, perché nessuno ha il monopolio e nessuno può aumentare l’affitto. Perciò Billy lo paga a Eric, che lo paga a Doug, che lo paga a Billy, che lo paga a Trevis, che lo paga a Eric, che con un tiro di dadi sfortunato finisce in prigione. Poi Doug Herold finisce sulla sua terza proprietà verde e questo gli permette di costituire un monopolio. Ha abbastanza soldi per costruire diverse case e, uno dopo l’altro, gli altri giocatori cadono vittime delle sue estorsioni. Billy e Trevis sono costretti a vendere delle proprietà per recuperare contanti, concedendo a Doug altri tre monopoli. “Vede”, dice rivolgendosi a me, “ora non devo più preoccuparmi di questi testoni”. Non c’è più bisogno di contrattare, non serve più che il mercato sia dinamico. Ha lavorato, costruito le case, investito nei terreni, ora non deve più correre rischi né fare investimenti. Eppure continua inesorabilmente ad accumulare ricchezza. Quando, dopo novanta minuti, la partita finisce, Doug possiede cinque monopoli e 10.293 dollari in contanti, più di metà del capitale della banca. È il vincitore non solo del tavolo 25, ma del torneo della Us Steel per il secondo anno consecutivo.
Ho invitato al torneo anche Richard Biddle, e quando Doug comincia a vincere, Biddle si allontana per dare un’occhiata agli altri tavoli. Ogni tanto lo vedo sbirciare sopra la spalla dei giocatori con un’espressione perplessa. Non gli piace quello che è diventata l’invenzione di Lizzie Magie. “Mio fratello mi ha insegnato a giocare quando avevo cinque anni”, mi dice. “È stato fondamentale per farmi capire quanto è importante mentire, imbrogliare e rubare”. Gli avevo chiesto di portare con sé la sua copia del Landlord’s game, e ce l’ha nello zaino. All’inizio della serata, la tira fuori per mostrarla a chiunque riesce ad abbordare. “Questo è il vero Monopoli”, dice, e poi cerca di spiegare quello che aveva in mente Lizzie Magie quando lo aveva creato. I giocatori annuiscono educatamente con un sorriso congelato sul viso. “Molto interessante, grazie”, dicono. E se ne vanno.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2012 sul numero 980 di Internazionale. Era apparso sulla rivista Harper’s Magazine.
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