Il preoccupante ritorno del mascolinismo
È un movimento diffuso e ostinato. Una realtà scomoda, a sette anni dalla rivoluzione del #MeToo. Mentre sempre più donne giovani aderiscono a valori progressisti, gli uomini della stessa età tendono ad abbracciare idee conservatrici. Basandosi su dati raccolti in più di venti paesi, il Financial Times ha evidenziato la crescita, da sei anni a questa parte, di un “divario ideologico” di circa trenta punti tra le ragazze e i ragazzi della generazione Z, in particolare sulle questioni di genere.
Anche la Francia è toccata da questo fenomeno preoccupante. A gennaio del 2024, l’Haut conseil à l’égalité entre les femmes et les hommes, un istituto nazionale che si occupa di parità di genere, ha lanciato l’allarme. I risultati della sua indagine annuale sul sessismo mostrano “un divario sempre più polarizzato”, commentano gli autori del rapporto. “Più l’impegno a favore delle donne si esprime nel dibattito pubblico, più la resistenza si organizza”. In particolare preoccupa la crescita di “riflessi mascolinisti e comportamenti machisti […] tra i giovani uomini: il 28 per cento dei ragazzi tra i 25 e i 34 anni ritiene che “gli uomini siano fatti per occupare posti di controllo più delle donne” (contro il 9 per cento di chi ha tra i 50 e i 64 anni). E secondo il 52 per cento di loro, “c’è un accanimento contro gli uomini”.
Le femministe conoscono bene il fenomeno del backlash (contraccolpo), termine usato dalla giornalista statunitense Susan Faludi per descrivere l’affermarsi di un contromovimento dopo un’avanzata del femminismo. Da quando è cominciato il #MeToo, molti uomini s’interrogano sulla propria identità maschile e rimettono in discussione il modello dominante in cui sono cresciuti. Ma al tempo stesso nel dibattito pubblico si è affermato un antifemminismo senza filtri.
In pochi anni si sono moltiplicati video e “podcast bros”, in cui degli uomini parlano di muscoli, sport e seduzione, ma anche – in modo spesso degradante e caricaturale – di donne, accusate di aver preso troppo potere. Insegnano metodi di seduzione virili ispirati al “maschio alpha” (stereotipo di una mascolinità dominante), che dovrebbero permettere ai giovani uomini di riconquistare il loro posto nella società.
Questi discorsi attirano una “comunità molto organizzata e solidale di uomini che agiscono insieme”, osserva l’antropologa Mélanie Gourarier, che gli ha dedicato la sua tesi di dottorato, Alpha mâles. Séduire les femmes pour s’apprécier entre hommes (Seuil 2017) . La campagna d’odio online che nel 2022 ha colpito l’attrice statunitense Amber Heard durante la sua battaglia legale contro l’ex compagno, l’attore Johnny Depp, ha rivelato il peso mediatico di questi gruppi.
Grazie agli algoritmi, le rappresentazioni che circolano all’interno di questa maschiosfera si stanno diffondendo nella società, in particolare tra i più giovani. La giornalista Pauline Ferrari, autrice del saggio Formés à la haine (JC Lattès 2023), ha creato su TikTok il profilo di un adolescente un po’ fragile e depresso: dopo un quarto d’ora, il suo feed era pieno di contenuti aggressivi contro le donne.
La parola mascolinismo è presente nel dibattito pubblico dall’inizio degli anni duemila. Indica quelle manifestazioni di resistenza al femminismo secondo cui le donne ormai dominano gli uomini, i quali devono quindi difendere i loro diritti e ristabilire la loro identità maschile. Questo “contromovimento, incentrato sulla vittimizzazione degli uomini”, come lo definiscono la ricercatrice quebecchese Mélissa Blais e il suo collega Francis Dupuis-Déri, può prendere diverse forme, più o meno gravi. “Spesso si usano degli eufemismi, per esempio dicendo che il femminismo si è spinto troppo oltre, che gli uomini non possono più dire né fare nulla, che bisogna riequilibrare la situazione”, spiega Dupuis-Déri, autore del saggio La crise de la masculinité. Autopsie d’un mythe tenace (Remue-Ménage 2018).
Secondo Mélanie Gourarier, il concetto di mascolinismo si estende a “ogni gruppo organizzato intorno alla difesa della ‘causa degli uomini’ e nello scontro con il femminismo e le donne”. E avverte: “Sarebbe un errore considerarlo un fenomeno limitato ad alcuni ambienti. Rappresenta un pensiero predominante, i cui valori sono molto diffusi nella società”.
Il mascolinismo “si inserisce a pieno titolo nel retaggio di un antifemminismo la cui origine è antica quanto quella del movimento femminista, se non addirittura precedente”, sostiene la storica Christina Bard, tra le curatrici del libro Antiféminismes et masculinismes d’hier et d’aujourd’hui (Puf 2019). Il termine è stato inventato alla fine dell’ottocento dalle pioniere del movimento femminista, insieme alla parola femminismo. La giornalista Hubertine Auclert (1848-1914) lo usava per descrivere “l’egoismo maschile che spinge gli uomini ad agire in difesa dei proprio interessi”, spiega Denis Carlier, che sta completando una tesi di dottorato in scienze politiche su questo tema.
Significati contraddittori
Nel corso del novecento il significato del termine cambia. Spesso considerato un neologismo, assume significati diversi e a volte contraddittori. Questi cambiamenti riflettono i diversi fronti delle battaglie politiche.
Ancora oggi non esiste una definizione unanime in ambito universitario. La filosofa Geneviève Fraisse preferisce parlare di “resistenza al femminismo”, espressione più politica: “Il mascolinismo rimanda a un’identità e difende, in nome dei diritti degli uomini, una struttura non fondata sull’uguaglianza, mentre il femminismo pone fin da subito la questione politica della libertà e dell’uguaglianza, punti di riferimento della democrazia”. Secondo Dupuis-Déri, “il termine mantiene ancora oggi un significato molteplice, peraltro diverso in francese e in inglese, dove indica l’ideologia patriarcale”.
Anche se la definizione cambia da una lingua all’altra, poggia su una tesi comune, quella di una “crisi della mascolinità” che sarebbe causata dalla femminilizzazione della società e dall’indebolimento delle differenze tra i sessi. “È un discorso che viene regolarmente tirato fuori per spiegare tutto e il contrario di tutto, in ogni paese”, osserva Dupuis-Déri. “Le difficoltà dei bambini e dei ragazzi a scuola, quelle degli uomini sposati, il rifiuto dei tribunali di concedere la custodia dei figli ai padri divorziati e perfino fenomeni complessi come l’immigrazione, le sommosse, il terrorismo o la guerra”.
Femminicidi e vittimismi
Dagli anni settanta, in Francia, questa crisi è evocata dal movimento di difesa dei padri divorziati. Questi ultimi denunciano la presunta ingiustizia di un sistema giudiziario che affida più volentieri i figli e le figlie alle madri. Come ricorda la ricercatrice Gwénola Sueur, “nel 1969 nasce una prima associazione a Grenoble, la Didhem” (Difesa degli interessi degli uomini divorziati e dei loro figli minorenni). L’associazione è creata pochi mesi dopo il caso di Cestas, sulle cui conseguenze Sueur sta scrivendo una tesi di dottorato.
Nel villaggio di Cestas, nel dipartimento della Gironda, un capocantiere di 38 anni si barrica nella sua fattoria dopo aver rapito i figli. Chiede che la moglie, da cui è divorziato da tre anni, torni da lui, “perché crepi e creperà”. In seguito al rifiuto dell’ex moglie, uccide un gendarme durante l’assedio, poi ammazza due dei figli e si suicida. Insultata dalla folle, la madre dovrà essere protetta dalle forze dell’ordine per potersi raccogliere in preghiera sulla loro tomba.
Nei mesi seguenti, il caso di Cestas ispira numerosi femminicidi, suicidi di uomini e minacce. “Diventa il simbolo di quello che alcuni giornali chiamano il ‘dramma’ dei padri di fronte all’aumento dei divorzi”, commenta Sueur. “Una copertura mediatica che permette al movimento di portare avanti un discorso vittimistico”.
Secondo Christine Bard, il movimento presenta una “perfetta sincronia con l’avvento della seconda ondata dei movimenti femministi”, e costituisce “l’origine di una controffensiva al movimento di emancipazione delle donne, che accelera negli anni sessanta”. Nel giro di poco tempo in Francia si registra un accesso massiccio delle donne agli studi superiori e al mondo del lavoro. Nel 1967, con la legalizzazione della pillola contraccettiva, si riappropriano del controllo del loro corpo.
Nel diritto di famiglia, alcune riforme portano all’introduzione dell’autorità parentale congiunta (1970) e, poco dopo, al divorzio per mutuo consenso (1975). “In questo contesto, in cui le mentalità cambiano, in cui l’uguaglianza diventa un principio legittimo di riforma del diritto, gli uomini perdono il controllo delle donne e alcuni di loro vi si oppongono”, spiega la storica. “L’omicida di Cestas considera di avere un diritto di vita e morte sulla moglie e i figli”.
Prime tracce
Oltreoceano, questa stessa “crisi” è citata dopo il massacro di quattordici donne, allieve o impiegate dell’École polytechnique de Montréal, in Québec, il 6 dicembre 1989. In una lettera l’assassino dichiara di odiare le donne e accusa le femministe di avergli “rovinato la vita”, perché provano a “mantenere i vantaggi delle donne […] accaparrandosi quelli degli uomini”.
Anche se l’attentato sconvolge l’opinione pubblica, ben presto “la tesi di una sofferenza maschile è ampiamente ripresa dai mezzi d’informazione. Editorialisti e psicologi spiegano che gli uomini vivono una situazione difficile perché le femministe hanno conquistato molto spazio”, spiega Dupuis-Déri. Il massacro suscita inoltre un fascino morboso in alcuni uomini, che sui forum online condividono le loro sfortunate esperienze con le donne. Si definiscono “celibi involontari” o incels (contrazione dell’espressione inglese involuntary celibate), una condizione di cui sarebbero responsabili le donne e il femminismo.
Ricostruendo la genesi di questa tesi vittimistica, Dupuis-Déri ha scoperto con stupore che la retorica della crisi della mascolinità attraversa la storia. “Sotto tutti i regimi politici ed economici, in tutti i contesti culturali e religiosi, e quali che fossero i diritti delle donne e della famiglia, ritroviamo in epoche diverse lo stesso discorso sulla sofferenza degli uomini che si considerano dominati dalle donne”, spiega. “Perfino nell’antica Roma”.
Le prima tracce risalgono infatti all’antichità. In Grecia un testo di Aristotele accusa con violenza le donne di aver istituito una ginecocrazia (un presunto regime in cui le donne esercitano il potere) e le considera responsabili, a causa della loro avidità, del fallimento del progetto politico di Sparta. Qualche anno dopo, a Roma, il politico Catone si dice preoccupato da una manifestazione di donne che reclamano il diritto di guidare i carri. Per lui si tratta di un segno dell’onnipotenza delle mogli. In entrambi i casi, le donne dell’epoca non avevano nessun diritto politico.
Preoccupazione ricorrente
La retorica della “crisi della mascolinità” costella anche la storia della letteratura, in particolare quella del cinquecento e del seicento, con testi che mettono spesso in scena uomini sposati vessati dalle mogli, per quanto dipendenti dal marito. A partire dalla rivoluzione francese il concetto di cittadinanza riaccende i discorsi contrari all’emancipazione delle donne.
“L’idea del pericolo di una ‘confusione dei sessi’ causata dalla democrazia e dall’uguaglianza prende piede tra i repubblicani”, spiega Geneviève Fraisse, che nel suo libro del 1989 Muse de la raison. Démocratie et exclusion des femmes en France (ripubblicato da Gallimard nel 2019) ricostruisce l’esclusione delle donne dal progetto democratico della rivoluzione. “All’inizio dell’ottocento, per esempio, lo scrittore Étienne Pivert de Senancour sostiene che l’uguaglianza mette in pericolo l’esistenza stessa dell’amore, perché senza differenze i sessi si confonderanno. Fatto interessante, questo stesso timore è riemerso quasi identico all’inizio del ventunesimo secolo tra i sostenitori della Manif pour tous (gruppi di pressione contro il matrimonio dello stesso sesso, ndr) in reazione alle rivendicazioni queer e trans”.
L’uomo sarebbe quindi in perpetua crisi? Ne è convinta Mélanie Gourarier, secondo cui “in una prospettiva storica, la paura dell’indebolimento del maschio è un pozzo senza fondo”. Se questa preoccupazione è ricorrente è perché ha una funzione sociale e politica. “La mascolinità trae la propria forza e capacità di riprodursi dalla minaccia della sua perdita”, spiega Gourarier. Ripetere che la mascolinità rischia di sparire per colpa delle donne e dell’annullamento delle differenze tra i sessi permette di riaffermarla senza sosta, come se fosse un discorso normativo, con lo scopo di “ristabilire la differenziazione e l’asimmetria tra uomini e donne” e contestare allo stesso tempo il progetto di uguaglianza.
“Ogni volta che qualcuno dice che le donne dominano gli uomini, sta dicendo anche che questi ultimi devono riconquistare la loro posizione dominante e che le donne devono tornare ai compiti che spettano loro, compiti legati alla sfera privata, alla dolcezza, alla cura degli altri e al silenzio”, conferma Dupuis-Déri, che definisce questa retorica un “mito tenace al servizio di una strategia di resistenza all’emancipazione delle donne”.
Fermamente essenzialista, il pensiero mascolinista difende una concezione statica della mascolinità, ridotta a una “mascolinità egemonica”, come la definisce la sociologa australiana Raewyn Connell, cioè in posizione dominante non solo rispetto alle donne ma anche nel gruppo stesso degli uomini. Così facendo, ignora le numerose ricerche scientifiche che negli ultimi anni hanno rivoluzionato i quadri teorici dello studio sociale degli uomini. Insistendo sull’esistenza di mascolinità plurali, queste ricerche hanno contraddetto l’idea di una mascolinità universale che sarebbe collegata con i tradizionali attributi della virilità. La mascolinità e la virilità non hanno mai smesso di riconfigurarsi nel tempo, come mostra il monumentale saggio Histoire de la virilité, curato da Georges Vigarello, Alain Corbin e Jean-Jacques Courtine (Seuil 2011).
Odio intersezionale
Non stupisce che oggi questa corrente reazionaria fiorisca nel terreno fertile dei movimenti conservatori e populisti, rafforzandoli. Analizzando la vittoria di Donald Trump alla elezioni presidenziali statunitensi del 2016, il giornalista afroamericano Rembert Browne ha spiegato sul New York Times Magazine come Trump sia riuscito a raccogliere il voto di quasi 59 milioni di elettori “rendendo l’odio intersezionale”, grazie a una retorica al tempo stesso antifemminista, omofoba e razzista.
In Francia, Christine Bard ha ricostruito la genealogia di quelle che chiama “intersezionalità degli odi”: “La retorica mascolinista si innesta spesso su una tesi più ampia relativa alla supremazia maschile, bianca ed eterosessuale, presente già nei movimenti fascisti tra le due guerre mondiali”, afferma Bard. “Per esempio, in alcuni discorsi antisemiti degli anni trenta, gli uomini ebrei sono presentati tra le cause della femminilizzazione della società e le donne ebree come le inventrici del femminismo”.
Un secolo dopo, come rilevato dall’ufficio europeo di polizia Europol in un rapporto del 2020, “l’antifemminismo è entrato a far parte della teoria complottista della ‘grande sostituzione’” adottata da “numerose correnti dell’estrema destra”. In Francia, Éric Zemmour ne ha fatto uno slogan della sua campagna alle presidenziali del 2022. Secondo questa tesi complottista e xenofoba, personaggi dell’élite mondiale sarebbero impegnati a favorire l’arrivo degli immigrati in Europa. Inoltre, come spiega il rapporto dell’Europol, “il femminismo sarebbe stato inventato per distogliere le donne dal loro ruolo naturale di madri. Sarebbe quindi responsabile del calo della natalità nei paesi occidentali, che permetterebbe agli immigrati di diventare più rapidamente la maggioranza”.
L’Europol, che prende molto sul serio questa convergenza di odi, elenca gli attentati nel cui movente s’intrecciano “antifemminismo, razzismo, autoritarismo e xenofobia”. Il terrorista Anders Breivik, autore del massacro di 76 giovani norvegesi nel 2011, ha rivendicato la superiorità della popolazione maschile bianca, occidentale e cristiana rispetto alla “femminilizzazione della cultura europea” e alla volontà di “castrare il maschio europeo”. Anche gli autori della strage di Christchurch in Nuova Zelanda (2019), di Halle (2019) e di Hanau (2020) in Germania hanno espresso “esplicitamente” la loro “frustrazione sessuale” e “opinioni misogine”.
La trappola degli archetipi
È possibile disinnescare questo meccanismo infernale? Nel suo saggio Le mythe de la virilité. Un piège pour les deux sexes (Robert Laffont 2017), la filosofa Olivia Gazalé spiega come le società contemporanee siano rimaste prigioniere di archetipi nati nell’antichità. Questi archetipi sono una trappola tanto per le donne, vittime di rappresentazioni che legittimano la dominazione maschile, quanto per gli uomini, “esortati a conformarsi a canoni virili coercitivi e discriminatori” e costretti continuamente a “dimostrare e confermare di essere effettivamente uomini”.
Uscire da questa trappola è possibile, a condizione di “non incolpare le donne e il femminismo”, sostiene Dupuis-Déri, che nel 2023 ha pubblicato il libro Les hommes e le féminisme. Faux amis, poseurs ou alliés? (Textuel). “Bisogna invece riconoscere l’esistenza di un intero sistema di norme disuguali ed essere disposti a contestarlo”.
Per riuscirci, avverte Christine Bard, “bisogna prima di tutto smetterla con le analisi psicologizzanti, che portano alla vittimizzazione. Certo, il mascolinismo si nutre delle angosce della modernità, delle ingiustizie economiche, ma quando gli uomini lo abbracciano, non lo fanno per paura. Sono mossi dall’odio, in particolare verso le donne che rivendicano l’uguaglianza. Sono convinti di avere il diritto di farlo e della loro superiorità”.
La soluzione passa dall’educazione, perché “usciremo da questo male profondo solo portando gli uomini a decostruire i loro pregiudizi e a costruire una coscienza femminista. Si tratta in parte di una questione di accesso alla conoscenza”, aggiunge Bard, che in quest’ottica sta contribuendo alla creazione di un museo dei femminismi all’università di Angers, la cui apertura è prevista per il 2027.
È un compito enorme. Un terzo delle persone intervistate dall’Haut conseil à l’égalité entre les femmes et les hommes pensa ancora che le disuguaglianze siano dovute a una differenza naturale. Questa ignoranza diffusa spiana la strada a una “vera e propria ‘educazione’ al sessismo […], non per forza consapevole”. L’istituto invita lo stato a condurre “un’azione pubblica forte, continua e generale”, in particolare nell’educazione, online e nel campo della giustizia. Un cantiere ancora tutto da aprire.
(Traduzione di Francesca Spinelli)