Questo articolo è stato pubblicato il 5 giugno 2020 nel numero 1361 di Internazionale.
Una rivolta è il linguaggio di chi non viene ascoltato”, spiegava Martin Luther King nel 1966 in un’intervista alla Cbs. Quel linguaggio oggi risuona in tutti gli Stati Uniti con una sollevazione che è cominciata a Minneapolis e si è diffusa in decine di città, dove sono state arrestate centinaia di persone, è stato imposto il coprifuoco e sono stati schierati i soldati della guardia nazionale. La causa scatenante sono state le immagini dell’uccisione di George Perry Floyd, un nero di 46 anni, da parte di un agente di polizia.
Sembra che Floyd avesse cercato di usare una banconota falsa in un negozio all’angolo tra la 38a strada e la Chicago avenue south. Floyd va ad aggiungersi alla lunga lista di persone uccise dalla polizia negli ultimi anni, che comprende Breonna Taylor, Freddie Gray, Philando Castile, Alton Sterling, Sandra Bland, Laquan McDonald e Tamir Rice.
Ma prima di diventare un nuovo simbolo dell’ingiustizia americana, George Floyd era nato a Fayetteville, in North Carolina, e si era trasferito a Houston con sua madre quando era molto piccolo. Era cresciuto nelle Cuney homes, le case popolari del Third ward, un quartiere nero della città. Waynel Sexton era stata la sua maestra in seconda elementare alla Frederick Douglass elementary school.
Dopo aver saputo della morte del suo ex alunno, Sexton ha postato su Facebook una foto del tema che Floyd scrisse in occasione del Black history month, il mese in cui si celebra la storia degli afroamericani: “Da grande voglio diventare un giudice della corte suprema. Quando la gente dirà ‘Vostro onore, ha rapinato una banca’, io gli dirò ‘Siediti’, e se non lo farà, chiederò alle guardie di portarlo via. Poi batterò il martello sulla mia scrivania e tutti staranno zitti”.
Sexton mi ha detto di essersi sentita triste e “inorridita” guardando il video della morte di Floyd. “Sono salita subito di sopra e ho cercato il suo compito. Conservo sempre qualche ricordo dei miei studenti. Durante il Black history month dicevo sempre ai bambini: “Adesso che abbiamo studiato tutte queste persone famose, che tipo di persona famosa sarete in futuro? Floyd era rimasto molto colpito dalla lezione sul giurista nero Thurgood Marshall”. Nel post su Facebook, sotto la foto del tema, la maestra ha scritto: “Com’è possibile che i suoi sogni si siano trasformati nell’incubo di essere assassinato da un agente di polizia? Mi si spezza il cuore”.
Giocare a basket
Al liceo Jack Yates di Houston, Floyd aveva raggiunto i due metri di altezza ed era diventato un buon giocatore di basket e di football americano. Alcuni dei migliori atleti della Yates sono poi finiti a giocare nelle più importanti leghe professionistiche di questi sport. In seguito Floyd aveva frequentato il South Florida community college, nella speranza di poter continuare a giocare a basket. Ma dopo un anno aveva mollato per provare alla Texas A&M university di Kingsville. Alla fine era tornato a casa a Houston, dove aveva cominciato a frequentare l’ambiente dell’hip hop. A metà degli anni novanta, con il nome di Big Floyd, aveva registrato il pezzo Sittin’ on top of the world nello studio di Robert Earl Davis Jr., meglio noto come DJ Screw, un maestro del genere “chopped and screwed”.
Con il passare del tempo, Floyd “si era messo in qualche guaio”, come ha raccontato il suo amico Meshah Hawkins al Texas Monthly. “Ha cominciato a fare le cose che facevano i ragazzi del quartiere”. Così erano arrivati gli arresti per furto e possesso di droga. Nel 2009 si era dichiarato colpevole di furto aggravato a mano armata, passando i successivi quattro anni alla Diboll Unit, una prigione privata del Texas. Dopo aver ottenuto la libertà condizionale, nel 2013, aveva lavorato in una chiesa chiamata Resurrection Houston, assistendo le persone che vivevano nelle case popolari dove era cresciuto. L’anno dopo si era trasferito a Minneapolis, e lì era stato assunto come guardia di sicurezza al club-ristorante Conga Latin bistro. Era considerato una persona socievole e un gran lavoratore.
Disgusto e rabbia
Tutto è cambiato con l’inizio della pandemia. I bar e i ristoranti sono stati costretti a chiudere, e Floyd, come milioni di altri americani, si è ritrovato senza lavoro. Il 25 maggio è stato arrestato con l’accusa di aver cercato di usare una banconota da 20 dollari falsa in un negozio della catena Cup Foods. Poco dopo l’arrivo degli agenti è stato gettato a terra e un poliziotto bianco, Derek Chauvin, gli ha piantato un ginocchio sul collo e ha continuato a premere a lungo mentre i suoi tre colleghi stavano a guardare. Nei video girati dai passanti si sente Floyd implorare pietà. Invoca la madre morta. Grida: “Mamma, sono spacciato!”. Cerca di attirare l’attenzione dei passanti dicendo “Mi stanno ammazzando. Non riesco a respirare”. È la stessa frase pronunciata molte volte sei anni fa da Eric Garner, un nero arrestato per aver cercato di vendere sigarette di contrabbando per strada e morto dopo che un poliziotto l’aveva immobilizzato prendendolo per il collo.
È impossibile guardare quei video senza provare disgusto e rabbia. Prima di tutto, si nota l’assoluta noncuranza degli agenti. Chauvin, che è stato accusato di omicidio, ha tenuto il ginocchio premuto sul collo di Floyd per 8 minuti e 46 secondi, compresi tre minuti in cui Floyd aveva già perso conoscenza. “È un essere umano!”, ha gridato un passante, ma Chauvin non si è spostato. L’altra cosa che rende devastante quel video è la sua familiarità, il fatto che ricorda, nella sua assoluta crudeltà, innumerevoli altri atti di violenza razzista commessi in passato.
Adesso, dopo vari giorni e notti di proteste in tutto il paese, in tanti invitano alla calma. Tra questi c’è Courtney Ross, la compagna di Floyd, che ha dichiarato ai giornalisti: “Non si può combattere il fuoco con il fuoco. Stanno bruciando tutto, lo vedo ogni giorno. La gente odia, odia, odia, è impazzita. George non vorrebbe questo”. Un’altra voce è quella di John Lewis, il deputato della Georgia che era con Martin Luther King nel movimento per i diritti civili. In un comunicato Lewis, che ha un cancro al pancreas all’ultimo stadio, si è rivolto ai manifestanti: “Qui ad Atlanta e in tutto il paese: vi vedo e vi sento. Conosco il vostro dolore, la rabbia, il senso di impotenza e la disperazione. È da troppo tempo che vi viene negata la giustizia. Insorgere, saccheggiare, bruciare non è la soluzione. Organizzatevi. Manifestate. Lottate. Votate”.

John Lewis ha più volte rischiato la vita per i diritti dei neri. È impossibile non rispettarlo e venerarlo. Ma la pazienza e la sopportazione davanti alla palese ingiustizia non è illimitata. Anche le elezioni libere hanno dei limiti. Il sindaco di Minneapolis Jacob Frey e il governatore del Minnesota Tim Walz sono rappresentanti progressisti del Partito democratico, ma alla fine non sono riusciti a difendere la vita di George Floyd.
Alicia Garza, che ha contribuito a fondare il movimento Black lives matter, rispetta profondamente Lewis, ma non è d’accordo con lui: “È sempre la stessa storia: si chiede la pace e la calma, ma alle persone sbagliate”, mi ha detto. “Perché parliamo di proteste e proprietà distrutte quando è stata tolta la vita a un uomo sotto i nostri occhi? Non ho intenzione di fare la predica ai manifestanti perché distruggono le proprietà. Possono essere ricostruite. I negozi riapriranno. È sicuro. Quello che non è certo e se noi avremo sicurezza e vera giustizia”.
Alexandria Ocasio-Cortez, la deputata democratica eletta a New York, invita a una visione complessiva della situazione. “Se invochiamo la fine dei disordini ma non denunciamo la brutalità della polizia, non pretendiamo l’assistenza sanitaria come diritto umano, non chiediamo la fine delle discriminazioni nel settore immobiliare, allora non facciamo che accettare che questa silenziosa oppressione continui”, ha detto.
Cinquant’anni persi
Diversi commentatori hanno fatto discutibili paragoni tra il momento attuale e il 1968, l’anno in cui Martin Luther King fu ucciso a Memphis e venne assassinato Robert Kennedy. In Vietnam ci furono l’offensiva del Têt e il massacro di My Lai. Quell’estate, durante la convention democratica di Chicago, il sindaco Richard Daley represse brutalmente le proteste contro la guerra. Richard Nixon vinse le elezioni. E, come qualcuno ricorderà, ci fu anche una pandemia di influenza: il virus H3N2 uccise almeno un milione di persone, compresi centomila statunitensi.
Quando si paragona il 1968 al 2020, la cosa più frustrante è pensare al tempo che è passato, alle occasioni sprecate, all’ipocrisia. Nel campo della giustizia penale la popolazione carceraria cominciò a crescere rapidamente durante la presidenza Reagan e avrebbe continuato ad aumentare per decenni, fino a metà dell’amministrazione Obama. Nel 2013 è nato il movimento Black lives matter, anche perché neanche il primo presidente nero, nonostante tutte le promesse, sembrava in grado di fare qualcosa contro il razzismo e gli abusi della polizia.
Adesso alla guida del paese c’è Donald Trump, un demagogo con istinti politici autoritari e una retorica volutamente divisiva. È irritante il fatto che Trump – le cui prime uscite razziste risalgono alla vicenda dei cinque ragazzi ingiustamente condannati per stupro a New York nel 1989 – sia stato votato da decine di milioni di americani che condividevano il suo fanatismo o erano disposti a tollerarlo. Durante la sua presidenza questa base di sostegno non si è ridotta in modo significativo. Quindi a novembre Trump potrebbe ottenere un secondo mandato. Questo spiega la rabbia e una sorta di affaticamento spirituale. “Oggi negli Stati Uniti basta guardarsi intorno per far piangere gli angeli e i profeti”, scriveva l’autore afroamericano James Baldwin nel 1978, e la stessa cosa si potrebbe dire oggi.
Le rivolte scoppiate dopo l’omicidio di Floyd sono arrivate in un momento di grande incertezza. La pandemia è un evento naturale, ma le dimensioni delle sue conseguenze in questo paese riflettono l’incompetenza e l’indifferenza dei leader politici, in particolare nei confronti degli afroamericani e dei poveri. I neri muoiono di covid-19 a un tasso che è tre volte superiore a quello dei bianchi.
Trump, che non potrà presentarsi alle elezioni sbandierando i suoi successi economici, baserà la sua campagna elettorale sul “mantenimento dell’ordine”, la sua versione egoistica e autoritaria della legalità. Nel 2016 Trump aveva scatenato il terrore nel paese disegnando una visione distopica di una “carneficina americana”, anche se la criminalità era in calo da anni. Il suo talento è dividere. Quindi chi è qui l’agitatore?
Nel settembre del 1967, circa sette mesi prima di essere ucciso, King tenne un discorso a Washington in cui si rivolgeva a una società “avvelenata nell’anima dal razzismo” e parlò di come sconfiggere quel male. Era il periodo delle rivolte a Detroit e in altre città.
King affrontò la questione non in termini di approvazione ma di comprensione. I disordini, disse, “possono essere deplorati… ma non sono insurrezioni. I manifestanti non cercano di conquistare territori né di acquisire il controllo delle istituzioni. Vogliono solo scuotere la comunità bianca. La loro è una forma distorta di protesta sociale”. Perfino i saccheggi, aggiunse, sono atti catartici, un modo per “scioccare” la comunità bianca “attaccando il diritto di proprietà”. Poi, per chiarire meglio quello che intendeva dire, King citò Victor Hugo: “Se un’anima è piena d’ombra, peccherà. Ma il colpevole non è chi ha fatto il peccato, bensì chi ha fatto l’ombra”.
Il 25 maggio 2020 George Floyd , un nero di 46 anni, è morto a Minneapolis dopo che Derek Chauvin, un poliziotto bianco, gli ha tenuto il ginocchio premuto sul collo per più di otto minuti. Chauvin aveva risposto alla chiamata di un negoziante che accusava Floyd di aver provato a fare un acquisto con una banconota falsa. I quattro agenti che hanno partecipato all’operazione sono stati immediatamente licenziati, e Chauvin è stato incriminato con l’accusa preterintenzionale.
Il 26 maggio a Minneapolis ci sono state le prime proteste di piazza contro la violenza della polizia, che nei giorni seguenti si sono estese a più di 140 città in tutto il paese. Spesso alla solidarietà per Floyd si accompagnano le richieste di punire gli abusi commessi dai poliziotti locali. Nella maggior parte dei casi le proteste sono state pacifiche, ma in alcune città sono stati dati alle fiamme degli edifici e saccheggiati dei negozi. A Minneapolis i dimostranti hanno incendiato un commissariato di polizia. Le autorità hanno risposto imponendo il coprifuoco, incoraggiando la repressione della polizia e schierando la guardia nazionale (formata da riservisti dell’esercito). Secondo i dati aggiornati al 3 giugno, i morti tra poliziotti e civili sono almeno 13, circa novemila le persone arrestate.
Il 1 giugno il presidente Donald Trump ha accusato i governatori statali di essere troppo deboli e ha minacciato di far intervenire l’esercito. Joe Biden, candidato democratico alle presidenziali di novembre, ha accusato Trump di fomentare l’odio per fini politici.
Tra il 28 maggio e il 1 giugno almeno 120 tra reporter, fotogiornalisti e operatori televisivi sono stati aggrediti dalla polizia statunitense in tutto il paese. In alcuni casi in modo accidentale, ma la maggior parte delle volte erano identificabili come stampa, e sono stati attaccati deliberatamente.
Questo articolo è stato pubblicato il 5 giugno 2020 nel numero 1361 di Internazionale.
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