Questo articolo è uscito il 24 dicembre 2009 nel numero 624 di Internazionale, a pagina 47. L’originale era uscito sul quotidiano olandese Nrc con il titolo Het gezicht van de armoede.

Qui nessuno porta gli occhiali. Né Jona, che ha nove anni e fatica a vedere le lettere del libro di scuola. Né il capo del villaggio, che non sa leggere. Né la vecchia donna che guarda il mondo attraverso la cataratta. Dove potrebbero procurarseli degli occhiali? Nella capitale, che solo otto degli abitanti del villaggio hanno visitato? Chi li pagherebbe, se i soldi non bastano neanche per il sapone e il sale?

Qui nessuno porta gli occhiali. Quelli da sole che Aron Thunde inforca la domenica non contano: dimostrano solo che la sua voglia di città non si è calmata, anche se dopo le medie non ha potuto iscriversi al corso di formazione per insegnanti. Ha promesso al padre di diventare “un bravo contadino”. Poco prima di sposarsi ha comprato un tavolo e delle sedie con il ricavato del raccolto di tabacco e ha soddisfatto un suo “grande desiderio”. Ma gli abitanti di questo villaggio non possono desiderare il superfluo. Aron se ne accorgerà quando sua moglie, con quel pancione, comincerà a sfornare un figlio dopo l’altro. Allora dovrà accontentarsi di riuscire a sfamare la famiglia. Qui nessuno porta gli occhiali.

Prendi nota: più di 2,7 miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno; 1,1 miliardo vive con meno di un dollaro al giorno (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo–Undp, Banca mondiale).

Il villaggio che cercavo doveva avere una serie di requisiti: non poteva trovarsi in una zona di guerra e non poteva essere stato colpito da un’onda anomala o da un’altra calamità. Non mi sarei occupato di condizioni estreme o di situazioni critiche, ma dell’esistenza “normale” di quasi la metà della popolazione mondiale. La povertà di tutti i giorni. La vita che è una lotta infinita.

Prendi nota: l’Africa è l’unico continente dove la povertà estrema è in aumento. Negli ultimi venticinque anni gli africani che devono vivere con meno di un dollaro al giorno sono raddoppiati, raggiungendo i 345 milioni (Undp).

In questo villaggio non si capita per caso, perché qui non c’è niente da cercare. La strada asfaltata più vicina è a 35 chilometri. Sulla strada s’incontrano decine di villaggi. Me lo racconta l’autista, ma non vedo case. I villaggi sono nascosti dietro l’erba alta.

La capitale del Malawi, Lilongwe è a meno di ottanta chilometri. Ma lo stato non arriva a questo villaggio. Perfino la polizia si muove da Kasiya, un centro vicino con qualche negozio, solo se e quando la gente di qui gli paga la benzina per venire. Cioè, mai. Il villaggio non si aspetta niente dal governo. The people’s choice (La volontà della gente) c’è scritto sulla base in cemento della pompa d’acqua del villaggio. Sono stati gli abitanti del villaggio a costruirla, ogni suo singolo pezzo è stato acquistato a spese del villaggio.

Prendi nota: il 60 per cento dei villaggi in Malawi si trova a più di due chilometri a piedi dalla più vicina strada asfaltata a lunga percorrenza. Il 19 per cento si trova a più di dieci chilometri (Jeffrey D. Sachs, La fine della povertà).

Sono già stato qui quando c’era la carestia, tre anni fa. Le donne mi facevano vedere come annodavano sempre più stretto il panno che portano attorno ai fianchi. Gli uomini mi hanno mostrato le tombe appena scavate nel bosco dove abitano gli spiriti degli antenati. In un villaggio di 45 famiglie, appena trecento abitanti, in due mesi erano morti diciannove adulti e tre bambini.

Anche allora ero venuto con il prete olandese Willem Kerkhof e con il catechista Epifano Chifumbi, nato in Malawi. Padre Kerkhof dice la messa forse una volta all’anno nella chiesa sulla collina. Chifumbi rappresenta la chiesa cattolica, qui e in tutti i villaggi che raggiunge in bici per incontrare i fedeli.

Prendi nota: il 76,1 per cento della popolazione in Malawi vive con meno di due dollari al giorno. Il 41,7 per cento con meno di un dollaro al giorno.

Una preziosa bicicletta

Tranne padre Kerkhof nessuno viene in macchina qui. Le auto sono troppo larghe per gli stretti sentieri che portano ai campi e agli altri villaggi. A Dickson non c’è neanche qualcuno con un carro da buoi per portare un sacco di mais, una balla di tabacco o un morto. Undici famiglie possiedono una bici con un portapacchi rinforzato per i carichi più pesanti. È il loro bene più prezioso.

La gente qui cammina. I bambini fanno tre chilometri e mezzo per andare alla scuola elementare di Kasonjola. I padri portano in braccio i figli malati all’ambulatorio di Kasiya, a quattro chilometri. E le madri arrivano fino all’emporio di Kasiya per comprare il sapone o la paraffina. Il villaggio tiene stretti i suoi abitanti come sabbie mobili. Ci sono due che sognano di aprire un negozio di alimentari a Kasiya. Il figlio del signor Thunde, Alfred, frequenta l’istituto tecnico a Lilongwe. Ma neppure quei pochi che terminano le scuole superiori riescono a trovare lavoro in città. La gente non ha soldi né conoscenze. Da trent’anni a oggi nessuno è riuscito a fare il balzo verso la città.

Prendi nota: l’85 per cento degli 11,2 milioni di abitanti del Malawi fa il contadino e vive in campagna.

“Voglio raccontare alla gente del mio paese come si vive in un villaggio come Dickson. Vengo qui per imparare. Spero che alla fine il villaggio ne trarrà beneficio”, dico nel mio discorso di benvenuto. Le donne siedono sulla sabbia riscaldata dal sole. Gli uomini si riparano all’ombra della “nostra” casa. Parlo con cautela, non voglio creare aspettative: non porto aiuti né organizzo campagne.

Con il fotografo Jan Banning vivremo come la gente di qui, in una casa rettangolare di fango, vicinissima alla pompa. Tetto e finestrella di sterpi e paglia. Il bagno è un recinto di canne quadrato con un’apertura. La mia testa sporge tutta fuori. Al centro ci sono delle pietre per starci in piedi quando ti lavi. La latrina è un altro recinto di canne che racchiude un buco per terra. La nostra abitazione non misura più di due metri e mezzo per tre e ha due stanze. Dentro è buio pesto anche di giorno. Facciamo finta di vivere come la gente di qui. Ma loro non dormono come noi su una branda per sfuggire agli insetti che brulicano per terra. Dormono come Chifumbi: su una stuoia di canne stesa a terra, avvolta in un panno o lenzuolo sottile per proteggersi dalle voraci formiche e dal freddo. Non hanno i biscotti integrali ricchi di vitamine da mangiare a colazione, non fanno colazione, non bevono acqua pulita da bottiglie sigillate.

La mattina e la sera due donne adulte, non sposate, fanno bollire acqua sufficiente per riempire un catino e poterci lavare. Lo fanno in una cucina rotonda di fango, nella casa dei vicini. E con la farina di mais che abbiamo portato preparano due volte al giorno quelle palle di pasta appiccicosa che qui sono la base e la sostanza di ogni buon pasto: le nsima, riempite di una salsa di verdura che compriamo da uno del villaggio. Una volta alla settimana ci gustiamo uno dei polli scheletrici allevati nel villaggio. Una dieta semplice, ma non tanto semplice come la loro: i più mangiano carne solo a Pasqua o Natale.

Prendi nota: il reddito annuo pro capite in Malawi è di 150 dollari, nei Paesi Bassi di 23.860 dollari. La speranza di vita media è di 37,8 anni in Malawi, di 78,3 anni nei Paesi Bassi.

Il capo del villaggio me l’ha indicato come l’uomo più ricco. Non glielo dico. Lo smentirebbe con un ampio sorriso.

Che significa ricco qui, dove non c’è neanche una casa con il tetto di lamiera? Nessuna famiglia ha una mucca, simbolo di benessere nei villaggi attorno.

La casa di quest’uomo, tre metri e mezzo per quattro, è identica alle altre. Certo, lui ha costruito attorno un granaio con mais sufficiente per un anno, un’incannucciata per asciugare il tabacco e un’altra per conservarlo. Ha avuto il suo bel raccolto di tabacco, cinque balle, circa mezza tonnellata, più di chiunque altro. Ha anche delle bestie: un maiale, una capra, sei oche, sette galline. E ha una bicicletta. All’interno la casa è spoglia come le altre. In una stanza da letto buia c’è una stuoia per dormire appoggiata alla parete. Coperte e vestiti sono appesi a una corda tesa da un angolo all’altro, per proteggerli dagli insetti. Ci sono più vestiti che nelle altre case. E sono meno scoloriti. In un angolo ci sono una pompa da bicicletta e un copertone di scorta. Hammard ha srotolato una stuoia per me sul pavimento del soggiorno. L’accesso alla stanza da letto è coperto da un telo colorato, unico ornamento. Al muro sono appese delle tazze in un sacchetto di plastica, un paio di scarpe e una cravatta. In seguito vedrò Hammard indossare con grande solennità quella cravatta la domenica, quando dirige il coro della chiesa.

La chiave della sopravvivenza
Hammard Andsen è diverso dalla maggior parte degli uomini del villaggio perché è ancora giovane, ha ventisette anni, deve badare solo a due bambini piccoli e a un fratello di sedici anni e infine perché ha finito le scuole superiori. “L’istruzione è la chiave per chi vuole sopravvivere”, dice convinto, anche se non ha potuto avere il tanto sospirato posto alla scuola di formazione per insegnanti. “In Malawi non andiamo a scuola per trovare lavoro. C’è troppa disoccupazione. Io almeno so come calcolare profitti e perdite. Molti contadini non lo sanno fare”. Fa il conto di quanto ha investito l’anno scorso nella coltivazione del tabacco: almeno 26mila kwacha in fertilizzanti, paga dei braccianti, pressa per il tabacco, trasporto su un carro da buoi, licenza. E quanto spera di ricavare dalla vendita del tabacco? Sarebbe contento di 50mila kwacha, per un guadagno di circa 24mila kwacha, circa 170 euro.

Sogna di poter aprire un alimentari a Kasiya. “Perché con l’agricoltura non si guadagna niente. La vita per un contadino è sempre più difficile”. Per mettersi in affari gli servono almeno centomila kwacha, meno di 700 euro. Forse ce la farà in un paio d’anni.

Nel frattempo seguirebbe volentieri un corso per corrispondenza del Cambridge international college, per prepararsi meglio. Nell’intercapedine tra il muro e il tetto ha infilato una sacca di plastica con varie carte. Da qui tira fuori un depliant che parla di impresa, economia e commercio. Duecento dollari per un corso di sei mesi. Gli brillano gli occhi. Non chiede nulla. Ma il messaggio è chiaro: anche l’uomo più ricco di Dickson ha bisogno di una mano.

Prendi nota: un contadino del Malawi vende il tabacco a 17 centesimi di dollaro al chilo, un contadino americano a quattro dollari e 15, grazie ai sussidi del suo governo (Agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti–Usaid).

Furbizia e tenacia
Se un bambino a Dickson impara a leggere, a scrivere e a far di conto è un vero miracolo. Non dipende dai nove insegnanti della scuola elementare di Kasonjola: loro fanno quel che possono per i 635 alunni. In una classe sola ci sono 101 bambini. La seconda non ha un’aula e fa lezione sulla sabbia sotto un albero.

In Malawi la scuola elementare è gratuita fino agli otto anni. I genitori però devono pagare 150 kwacha all’anno per ogni bambino, circa un euro – una somma già alta per parecchia gente qui – che serve alla manutenzione della scuola, per comprare un pallone, per comprare la paraffina per le lampade quando gli alunni più grandi la sera seguono le lezioni per l’esame di stato. Per diversi mesi all’anno non hanno neanche soldi sufficienti per comprare una penna per i bambini che spesso fanno le addizioni con il dito sulla sabbia.

Hammard Andisen, 27 anni, è considerato uno degli abitanti più di successo nel villaggio. Ha frequentato la scuola secondaria ed è proprietario di una mucca, una capra, qualche anatra e delle galline. Vorrebbe aprire un negozio nella vicina Kasiya, perché secondo lui vivere di agricoltura è insostenibile. (Jan Banning, Panos/Luz)

La maestra distribuisce dei libri in inglese. Sette bambini hanno un solo libro. La maestra legge. I bambini ripetono. La maestra legge. I bambini ripetono. Finché alcuni lo sanno a memoria, quel testo. Ma non ha niente a che vedere con l’imparare a leggere. Come fanno quelli che vedono il libro di lato o sottosopra? In ciascun gruppetto c’è solo un bambino che ha il libro dritto davanti a sé, che segue le parole con il dito e non si perde. Quelli sono i bambini che forse impareranno sul serio a leggere. Chi ci riesce merita una medaglia. Ci vogliono furbizia e tenacia per farcela.

Almeno la metà degli alunni, secondo la valutazione del direttore della scuola di Kasonjola, abbandona gli studi. Fanno tantissime assenze, specie nei mesi in cui non c’è più mais nelle case. Allora le classi sono quasi vuote. Durante la carestia di tre anni fa sono morti sette alunni: quattro bambini e tre bambine.

Prendi nota: in Malawi quasi il 39 per cento della popolazione è analfabeta (Banca mondiale).

Finché c’è luce nel villaggio si lavora senza tregua. Gli uomini si accaniscono a coltivare patate dolci e tapioca nei dimba, i bassi campicelli vicino all’acqua. O cercano lavoro a giornata. Le donne prendono l’acqua, raccolgono legna per il fuoco, cucinano. Fanno seccare le foglie di zucca, per farle durare a lungo. Raccolgono le noccioline, che sono ricche di vitamine. Mescolano le patate dolci con la cenere, per conservarle sotto terra.

In un villaggio africano parli con le persone all’aperto, ognuno dà la sua opinione. Ogni conversazione diventa un dibattito

Alle sei già scende la sera. In un’unica casa arde, per poco, una lampada. Dentro c’è il buio e regna lo sconforto. “Non credo che l’anno prossimo saremo ancora tutti qui”.

Prendi nota: il 14 per cento degli abitanti del Malawi in età riproduttiva è malato di aids, per un totale di un milione di persone su una popolazione di 11,2 milioni.

Il fotografo, Chifumbi e io ci mettiamo al lavoro. In un villaggio africano parli con le persone all’aperto, ognuno dà la sua opinione. Ogni conversazione diventa un dibattito. Se sei uomo ti rivolgi agli uomini. E non fai mai domande dirette, ma cerchi di ottenere informazioni in modo indiretto e circospetto. Io infrango tutte le regole e visito tutte le case delle 45 famiglie del villaggio. Per conoscerlo nei dettagli, e non in modo superficiale, non devo saltare neanche una casa. Parlo dentro le case. In genere con le donne.

Non risparmio le frasi di saluto in lingua chechewa che dopo un paio di settimane pronuncio più o meno correttamente. In ogni casa mi presento di nuovo. In ogni casa ripeto che sono tornato a Dickson per conoscere la vita della gente del villaggio. Poi resto sempre rispettoso nell’atteggiamento e nel tono.

Ignoro le formiche che mi coprono lentamente le gambe. Quando il capo del villaggio, sempre curioso, si mette ad ascoltare o i vicini si affacciano sulla porta, domando loro gentilmente di andarsene. Voglio sapere tutto, voglio vedere tutto. Quanti capi di vestiario sono appesi nella stanza? Che carte ci sono nella busta di plastica appesa al chiodo? Perché il tuo uomo ti ha abbandonato? Ci sono altri uomini che ti avvicinano? Quando non ci sarà più da mangiare, potrai continuare a dire di no?

A volte mi consulto con Chifumbi riguardo alla possibilità di fare una data domanda. Chifumbi è un interprete fantastico, una fonte inesauribile di notizie e un ottimo amico. Come africano non potrei fare una simile domanda. La può fare solo uno straniero che gode della fiducia della persona interrogata. Chifumbi a volte mi consiglia di porre una domanda in altro modo. Di solito dice: “Non volevi imparare? Non volevi sapere tutto? E allora devi chiedere così”. Chiedo ogni nome, ogni età, la causa di morte di ogni bambino.

Prendi nota: il 25 per cento dei bambini in Malawi è denutrito, il 49 per cento è troppo piccolo per la sua età (Undp).

Dickson è di nuovo minacciato dalla carestia, causata come tre anni fa dal tempo variabile e da una politica insensata. All’epoca il presidente Bakili Muluzi aveva negato che ci fosse un’emergenza fame finché i primi cadaveri non sono apparsi sulla Bbc. Il governo aveva appena venduto l’intera riserva nazionale di grano, 167mila tonnellate che potevano servire durante un’eventuale carestia. Non si sa chi ci abbia guadagnato da quella vendita, ma si stima che siano morte di fame 40mila persone.

Quest’anno il raccolto di mais, 1,3 milioni di tonnellate, ha battuto del 15 per cento il record negativo di tre anni fa. Servono due milioni di tonnellate per nutrire l’intera popolazione. Anche questa volta è stato il governo a determinare la carestia. Nel giugno dell’anno scorso, poco dopo la sua elezione, il nuovo presidente Bingu wa Mutharika aveva promesso che i fertilizzanti sarebbero stati garantiti dallo stato. I commercianti hanno aspettato a rifornirsi e i contadini a comprare. Alla fine di ottobre è risultato chiaro che nessun paese donatore era disposto a finanziare un sussidio per i fertilizzanti. All’inizio della stagione della semina, in novembre, è stato importato appena un terzo dei fertilizzanti usati di solito. I prezzi, altissimi, erano proibitivi per la maggior parte degli agricoltori. E non era detto che ci fossero fertilizzanti da comprare.

Il suolo impoverito del Malawi è totalmente dipendente dai fertilizzanti. Chiedi alla gente di qui di cosa ha bisogno per essere felice e nessuno dirà soldi. Risponderanno feteleza, che in chechewa significa fertilizzante. Senza fertilizzanti non si può sopravvivere con i prodotti della terra. In media una famiglia di Dickson non ne possiede più di un ettaro. Ma alcune non arrivano al mezzo ettaro. I terreni diventano più piccoli a ogni generazione, perché la terra è divisa tra i figli. Senza fertilizzanti il raccolto di mais è magro e la coltivazione del tabacco non porta risultati, chi non guadagna con il tabacco non ha soldi per comprare il mais e l’anno seguente dovrà lottare ogni giorno per tenere lontana la fame.

Alcuni hanno già perso questa partita. Non hanno riserve di mais o altro. Niente galline da vendere, nessuna bicicletta da cedere. Nella stagione della semina si allontaneranno sempre di più alla ricerca di un lavoro a giornata, che diventa sempre più raro e sempre meno pagato. I loro terreni andranno in rovina a causa di questa caccia al cibo giornaliera. Nei mesi che loro chiamano mesi magri – gennaio, febbraio e marzo – nessuno mangia nsima due volte al giorno. E quasi nessuno assume le 2.100 calorie al giorno che l’Organizzazione mondiale della sanità considera il fabbisogno minimo. Tutte le famiglie sono esposte a malattie da denutrizione.

Prendi nota: il prezzo dei fertilizzanti in Malawi è da quattro a sei volte più alto che sul mercato mondiale (Jeffrey D. Sachs, La fine della povertà).

Il freddo
Anderson Isimu, sessantacinque anni, è l’uomo più povero del villaggio. Una volta era il più ricco. Riparava motori di automobili e motori di mulini per macinare il mais. Possedeva anche lui un mulino. Un pezzo della macina serve ancora come sedile nella sua piccola casa. Aveva perfino un’auto. È l’unico a Dickson che sia riuscito a fare tanta strada. C’è ancora un cerchione appeso all’incannucciata rotta che circonda il suo bagno. Lo usa per sedersi quando si lava. Comprava il mais quando era appena stato raccolto e lo rivendeva appena cominciava a scarseggiare. Esportava pesci del lago Malawi in Zambia. I più poveri del villaggio potevano sempre contare su di lui. Se non avevano denaro, macinava gratis per loro. Se uno di loro moriva, pensava lui alla bara. Già da tempo soffriva di dolori atroci. Nel 1973 ha scoperto di avere la lebbra, che già allora era rara nel Malawi. Forse è stato uno degli ultimi a esserne stato colpito nel suo paese. Dopo un anno è stato dimesso dall’ospedale. Non sono riusciti a salvare i suoi piedi. Le sue mani si sono trasformate in artigli. Nel frattempo la maggior parte dei suoi averi è stata distrutta o rubata.

Da allora sua moglie Yosofina, cinquantotto anni, lavora i campi. Una figlia, che vive nel villaggio, gli cucina il cibo e un figlio, che vive a qualche centinaio di metri, a volte gli dà i soldi per il sapone. Sua figlia gli presta anche la radio che lui chiama il mio migliore amico. Il suo programma preferito sono le preghiere e i canti di Radio Maria. Se la spegne per un po’, tira fuori le batterie per evitare che si consumino. Raramente passano a fare due chiacchiere con lui. A volte qualcuno lo porta in bici fino in chiesa. Ma lo deve sapere in anticipo perché vuole comparire davanti al Signore sempre con abiti puliti. I suoi vestiti ormai consunti e sdruciti sono gli unici che ha. Quando li lava deve rimanere tutto il giorno a casa. Il vecchio piange, dice, quando non c’è mais in casa e sua moglie va in cerca di cibo, mentre lui non può fare nulla. Sua moglie è un fantasma. Come fa a procurarsi il cibo?

Anche a lei viene da piangere. “Non si lamenta mai”, dice con un filo di voce. Poi gli dà da mangiare. “Come a un animale. Ma lui è una persona”. A volte pensa che sia un castigo divino, vorrebbe lasciarlo. “Non lo farò mai. Mi ricordo che lui si è occupato di me. Rimango fino alla fine”.

Un ritratto degli abitanti di Dickson, dicembre 2005. (Jan Banning, Panos/Luz)

Lui mi fa vedere come dormono. Usano il minuscolo soggiorno come focolare. Il fuoco li tiene caldi per le prime ore. Non hanno stuoie per dormire. Lui si avvolge un sottile sacco di iuta attorno alle gambe e al busto, e si mette un sacco di iuta in testa. Sua moglie guarda dall’altra parte, si vergogna.

Quando si pensa all’Africa non si pensa mai al freddo. Ma qui la notte la temperatura scende a cinque gradi. Tutti intirizziti il vecchio e sua moglie si svegliano verso le tre. E a quel punto si alzano.

Prendi nota: l’Africa è l’unica parte del mondo dove il numero di casi di tubercolosi continua ad aumentare. Nel 2003 sono morte 1,3 milioni di persone di tubercolosi, quasi tutte in paesi in via di sviluppo (Oms).

La sera ceniamo come al solito in quattro: Chifumbi, il fotografo, il capo del villaggio e io, alla luce tremolante di una lampada a olio. Chifumbi e il capo del villaggio mangiano con le mani, il fotografo e io con forchetta e cucchiaio.

Quando Chifumbi comincia a parlare al capo del villaggio della vecchia coppia la tensione si può tagliare con il coltello. Perché nessuno fa niente mentre due abitanti muoiono di freddo? “Tutti qui sono poveri”, replica il capo. Ma Chifumbi non si arrende. Indica il panno colorato che copre il passaggio verso un’altra stanza. “Un ornamento”, dice. “Quel panno può servire a riscaldare una persona”.

“Qui tutti sono poveri”, ammette Chifumbi. “Ma alcuni hanno più di altri. E chiunque può intrecciare una stuoia. Chiunque può riparare il bagno dei due vecchi”. Poi chiede: “Come potete aspettarvi che degli estranei vengano qui ad aiutarvi se neanche tra voi vi aiutate?”. Il villaggio perde la sua innocenza. Chifumbi ha deciso che rinuncerà al panno in cui si avvolge la notte per darlo al vecchio. Io do una delle mie coperte. C’interroghiamo sull’opportunità di questi regali. Avevamo deciso di non interferire nella vita del villaggio. Ma a volte non puoi mantenerti neutrale. Chifumbi porta il panno e la coperta da loro con il favore della notte. Non è necessario che si sappia. La mattina dopo passiamo davanti alla casa del vecchio lebbroso. È seduto lì davanti, raggiante. Ha dormito, dormito. “Finché il sole era alto nel cielo”.

Prendi nota: ogni anno muoiono di malaria tra due e tre milioni di persone nel mondo. Il 90 per cento delle vittime è in Africa, e soprattutto tra i bambini (Oms, Unicef).

Ho chiesto al capo del villaggio di avvertirmi quando uno degli abitanti deve andare all’ambulatorio di Kasiya. Sarei contento di poterlo accompagnare. Alla fine della settimana non si è fatto vivo nessuno.

Un padre mi dice che suo figlio ha tutti i sintomi della malaria: febbre alta, mal di testa, aumento della salivazione. Ha già perso una figlia così. Alla fine capisco dove vuole arrivare: la maggior parte della gente qui non ha abbastanza soldi per andare all’ambulatorio. Gli offro i 60 kwacha per la visita al figlio, meno di mezzo euro. È la seconda violazione alla regola di non interferire con la vita del villaggio.

La mattina dopo m’incontro poco fuori dal villaggio, sulla strada per Kasiya, con quell’uomo e suo figlio, ma anche con un altro uomo che non può camminare per il mal di schiena e si sposta su una bici presa in prestito e un altro ancora che dice di avere la tubercolosi. Anche loro vogliono farsi accompagnare in cambio di una visita pagata.

Prendi nota: meno della metà della popolazione nel Malawi ha accesso alle medicine fondamentali (Undp).

Il dottor Aubrey Maganizo non ha scelto di venire a lavorare in questo posto sperduto. C’è stato mandato dal ministero della salute perché il suo predecessore beveva troppo. Vorrebbe fare di più per i suoi pazienti ma nell’ospedale non c’è corrente, mancano le attrezzature da laboratorio, quindi niente test o farmaci contro l’aids. Deve accontentarsi di avere le medicine di base. Il ferro in pillole per le madri e i bambini denutriti è finito da tempo. E sa anche che l’antimalarico fansidar funziona solo nel 60 per cento dei casi, perché i parassiti sono diventati resistenti al farmaco.

Suor Lecey Kachepa mi fa vedere il reparto maternità. Mi rendo conto di quanto sia difficile far nascere un bimbo di notte alla luce di una lampada a olio? Le future madri aspettano sempre troppo prima di andare. Così si rompono le acque quando sono in mezzo ai campi. E allora devono cavarsela da sole. Dà anche consigli sull’alimentazione alle donne incinte. Bianco d’uovo, bianco d’uovo, insiste. Ma se non possono procurarselo? Consiglia alle giovani madri di dare una pappa al bambino dopo i sei mesi oltre che allattarlo al seno. Tanti bambini pesano troppo poco e hanno un ritardo nella crescita. “Noi gli diciamo cosa fare. Ma il cibo scarseggia”.

Prendi nota: il rischio che una donna muoia di parto è di uno su 16 in Africa, di uno su 3.700 in Nordamerica (Undp).

Nelle prime case chiedo quanti bambini hanno. Nella seconda casa mi dicono: “Quattro. Vivi”.

Da quel momento chiedo sempre anche quanti bambini sono morti. Andiseni Bulaimu ne ha persi 4 su 12, Rosemary Spriano 3 su 7, Agnes Julias 2 su 4, Trifonia Ponsori 3 su 8, Sesiria Erenesto 2 su 8, Rosemary Makanga 1 su 4, Joice Foliasio 3 su 5, Zione Chimangeni 5 su 8, Hopuson Thunde 2 su 10, Zeriba Paul 1 su 4, Josefina Layitani 4 su 11, Magdalena Bonifansio 3 su 11, Matias Chadika 2 su 9, Marigerita Radael 11 su 15, Keterina Augistino 6 su 10, Elise Mayiko 2 su 7, Agata Dauti 4 su 11, Nasiwota Makisoni 5 su 9, Agnes Makisoni 2 su 8, Everess Banda 1 su 3, Neria M’Koche 4 su 10, Malieta Anderson 4 su 9, Geremena Charles 3 su 7, Marieta Padisoni 2 su 8, Anny Bizaliel 2 su 4, Yosofina Anderson 5 su 11, Anna Isim 6 su 10. Novantadue bambini morti in un villaggio di meno di trecento persone.

Prendi nota: in Malawi muoiono nel primo anno di vita 114 bambini su mille nati vivi , nei Paesi Bassi 4,5 su mille. A livello mondiale muoiono ogni anno quattro milioni di bambini nel primo anno di vita e altri quattro milioni nascono morti, il 99 per cento di loro nei paesi in via di sviluppo (Undp).

“Sono andato a comprare il mais

Costava 300 kwacha al secchio

Avevo solo 200 kwacha, non ho potuto comprare nulla

A casa non c’è niente da mangiare.

Come faccio a trovare del cibo?”.

Il ragazzo termina la canzone con un mugolio.

La Banca mondiale ha commissionato un rapporto sulla povertà. Non è mai stato pubblicato

Mahamudi Charles si vergogna perché a quindici anni frequenta ancora la terza elementare. Dice che fa la quarta. Non ha difficoltà a imparare, ma fa molte assenze a scuola. Mahamudi viene da una di quelle famiglie che non hanno più mais già al momento del raccolto. Suo padre e sua madre escono ogni giorno “in cerca di cibo”.

Così definiscono la caccia al ganyu, lavoro a giornata che viene pagato in denaro o natura. Suo padre aiuta con la raccolta del tabacco sui terreni dati in affitto dal governo a contadini bianchi in fuga dallo Zimbabwe. Sua madre lega le balle di foglie di tabacco. A volte sta tutto il giorno a trebbiare il grano per una famiglia di un villaggio vicino a cui non manca il grano. Se non trovano lavoro, non c’è da mangiare. Sua madre comincia a preoccuparsi. Più avanti nell’anno i lavori a giornata diventeranno sempre più scarsi, e la paga una miseria: una tazza di pula di mais.

La vita per un banjo
Anche Mahamudi “va in cerca” di cibo dopo o durante la scuola. Oggi ha perlustrato i campi per raccogliere le pannocchie dimenticate. È fiero di contribuire a mantenere la famiglia. Non resta mai con le mani in mano. Tre anni fa ha guadagnato cento kwacha, 0,71 euro, lavorando per tre giorni i campi di qualcuno. Con quei soldi ha comprato un banjo di seconda mano. Si esercita quasi tutti i giorni. “Quando suono, sono felice”.

Vuole diventare famoso come il cantante e suonatore di banjo Josephy Mkasa. Scrive le sue canzoni. Ne ha cinque. Non le scrive sul serio. “Le costruisco nella mia testa”. E quando scende la sera, lui canta, con la voce da bambino. Prima in un soffio, quasi impercettibile, poi con una potenza insospettabile. Canta di una donna che dà agli uomini ciò che vogliono, perché non ha da mangiare. Di un fratello che è morto di aids. “Argomenti presi dalla vita del villaggio”, dice. Se qualcuno si scandalizza non gl’importa. “Le mie canzoni sono vere”. E se non riuscisse a diventare un famoso cantante? “Devo riuscirci”. E se avrà ancora fame e avrà solo il suo banjo da offrire in cambio di cibo? “Non posso vendere il mio banjo. Sono pronto a morire con il mio banjo”.

Prendi nota: quasi la metà dei bambini africani tra i 5 e i 14 anni lavora (Unicef).

Nel villaggio ci sono stati grandi cambiamenti. Il vecchio lebbroso non siede più solitario all’ombra della sua casupola. La gente viene a fare due chiacchiere con lui. E lui arriva perfino a fare una visitina ai suoi figli, trascinandosi con le braccia sulla sabbia. Poco prima che partisse il fotografo era nata spontaneamente l’idea di una foto di gruppo di tutta la gente del villaggio. Circa 150 tra adulti e bambini si sono raccolti intorno alla pompa dell’acqua. Tutti i visi erano seri. Nessuno parlava. Per questo si è sentito così chiaramente che stava arrivando anche il vecchio lebbroso. Anche lui voleva essere sulla foto. Non si nascondeva più. E si è messo al centro dell’inquadratura. La sera, mentre Radio Maria snocciola eterni rosari, ci racconta che si sente libero, che il villaggio l’ha nuovamente accettato come individuo. “Ora sono di nuovo uno di loro”.

Prendi nota: nei prossimi venticinque anni la popolazione dei paesi in via di sviluppo aumenterà di un miliardo e mezzo, quella dei paesi ricchi di cinquanta milioni.

Cinque anni fa la Banca mondiale ha commissionato un rapporto sulla povertà. I ricercatori hanno raccolto testimonianze di 60mila uomini e donne poveri di sessanta paesi. Non è mai stato pubblicato. Per la prima volta questa gente poteva prendere la parola. Secondo il rapporto in Malawi i contadini poveri si dividono in quattro classi. Ci sono gli opeza bwino, che se la passano bene. Famiglie con scorte sufficienti di grano, e bestiame come vacche e capre, vestiti buoni e soldi o mais per poter fare lavorare gli altri per loro. Poi ci sono gli opeza bwino pang’ono, che non se la passano male. Anche se non hanno abbastanza mais per tutto l’anno, anche se hanno solo qualche gallina, anche se hanno pochi vestiti e senza il lavoro a giornata non ce la fanno. Al terzo posto ci sono gli osauka o bakavu, i nullatenenti. La loro esistenza dipende totalmente dal lavoro a giornata, non si possono permettere i fertilizzanti. Hanno utensili da cucina di plastica e hanno un aspetto poco sano. Ma peggio di loro stanno gli osauka kwambiri, i più poveri tra i poveri. Hanno solo gli abiti che portano, mangiano nsima solo pochi mesi l’anno, hanno problemi di crescita e spesso sono malati.

Prendi nota: l’80-90 per cento delle famiglie in Malawi fa parte delle ultime due classi di poveri. Dieci anni fa erano ancora il 30-40 per cento.

A Dickson 36 famiglie su 45 appartengono agli ultimi due gruppi. Handicappati, malati, vedove, ragazze madri si trovano in condizioni pietose.

Prendi nota: il 43 per cento della popolazione in Malawi non ha accesso all’acqua potabile, il 24 per cento non ha servizi sanitari (Undp).

L’ultima interferenza
Forse è il più bravo contadino del villaggio. Nessuno quest’anno ha raccolto tanto mais quanto lui: 1,2 tonnellate. Ha raccolto anche il tabacco, e alleva maiali e galline. A casa sua ci sono un tavolo e quattro sedie. È Luka Eliamu, 23 anni, padre di un bimbo di due anni e mezzo.

Sul tavolo c’è una copia molto rovinata del Giulio Cesare di William Shakespeare. È l’unica opera letteraria nel villaggio. Luka dice che ne legge ogni giorno qualche pagina. È uno dei quattro abitanti del villaggio a parlare un po’ di inglese. È arrivato fino alla terza media. Poi suo padre è morto e non c’erano più soldi per la scuola. Per migliorare il suo inglese ha comprato questa copia del Giulio Cesare a Lilongwe tre anni fa. Gli è costata 800 kwacha, circa cinque euro e mezzo. Con gli stessi soldi avrebbe potuto comprare 50 chili di mais.

Ma doveva averlo, quel libro. Una volta gliel’aveva prestato un amico ed era stata un’esperienza travolgente. Dice che lo spinge ad andare avanti e cita la parte in cui l’imperatore disprezza i consigli di chi gli è vicino e decide di andare lo stesso in senato dove viene ucciso dai tribuni. “Ho imparato che bisogna ascoltare quello che ti dice la gente. O si finisce male”.

Prendi nota: il Malawi riceve ogni anno 35 dollari di aiuti umanitari per abitante, le Antille Olandesi 295 dollari, la Striscia di Gaza 262, Cipro 63, l’Estonia 49, l’Ungheria 42 (The Economist).

Il villaggio riceve una ricompensa prima della nostra partenza. L’avevo già stabilito con padre Kerkhof e la redazione del giornale. La gente di qui non ne sapeva niente. Ciascuna delle 45 famiglie riceve una busta con mille kwacha, circa sette euro, abbastanza per comprare un sacco di mais da cinquanta chili e anche per farlo macinare. “Non come regalo”, dico alla gente chiamata a raccolta, dopo che abbiamo mangiato la nsima tutti insieme. “Ve lo devo. Perché siete stati miei insegnanti per due settimane e mezzo”. Il capo propone che siano le donne a prendere la busta. “Gli uomini non sono tutti proprio perfetti”. L’ultima interferenza nella vita del villaggio.

Prendi nota: l’80 per cento delle ricchezze mondiali è nelle mani di un miliardo di persone, cioè il 16 per cento della razza umana. La maggior parte vive in Europa occidentale, Nordamerica e Giappone (Banca mondiale).

Fin dagli albori dell’umanità, 150mila anni fa, gli uomini sono stati poveri. Solo con la rivoluzione industriale, due secoli fa, c’è stato un vero cambiamento. Nel 1820 il reddito medio in Europa occidentale superava di poco quello africano. La vita media sia in Europa occidentale sia in Africa era di circa 40 anni. Il benessere delle masse è un lusso recente, concesso comunque solo a un sesto dell’umanità.

Intanto le città occidentali e i villaggi del sud del mondo si allontanano sempre di più. Ryszard Kapuscinski ha detto che l’evoluzione non si è fermata. Si stanno evolvendo due specie diverse di uomini, una alla luce, l’altra nell’oscurità. Come succede nel romanzo di H.G. Wells, La macchina del tempo, che racconta di come la terra in un lontano futuro sarà popolata da due tipi di esseri umani: le rozze bestie da soma e le delicate, spensierate creature che vivono in una beata incoscienza. Turbate solo da una vaga angoscia.

“Prendi nota”, ripetuto continuamente come il rumore del mortaio nel villaggio, è una citazione dalla poesia Campo di fame presso Jaslo, della raccolta La fine e l’inizio della poetessa polacca Wislawa Szymborska.

(Traduzione di Francesca Terrenato)

Questo articolo è uscito il 24 dicembre 2009 nel numero 624 di Internazionale, a pagina 47. L’originale era uscito sul quotidiano olandese Nrc con il titolo Het gezicht van de armoede.

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