Da quattro mesi le forze armate ugandesi bombardano i ribelli fondamentalisti islamici che si nascondono nella zona di confine tra il loro paese e la Repubblica Democratica del Congo (Rdc). L’offensiva ha coinvolto la catena montuosa del Rwenzori, che si estende tra i due paesi, costringendo molti congolesi ad abbandonare le loro case e a cercare rifugio nelle città.
Anche Sarah Kasanga (nome di fantasia) ha dovuto lasciare la sua casa. Nel dicembre del 2019 i ribelli ugandesi delle Forze democratiche alleate (Adf) hanno attaccato il suo villaggio, a nord di Beni, il capoluogo della provincia congolese del Nord Kivu. Agli abitanti del villaggio era stato ordinato di restare sdraiati per terra mentre i miliziani frugavano nelle loro case in cerca di cibo, vasellame, denaro o vestiti.
“Hanno detto che avrebbero preso me, con mia sorella e mio fratello più piccoli”, racconta Kasanga.“Mia madre si è messa a piangere. Le hanno assicurato che, se fosse stata zitta, ci avrebbero fatto tornare a casa dopo aver portato il bottino nella loro base”. Ma era una bugia. Il viaggio attraverso la foresta per tornare alla base da cui veniva quella ventina di combattenti delle Adf è durato due mesi.
Nella foresta
Oggi l’Uganda collabora con Kinshasa per dare la caccia alle Adf. Gli attacchi dell’anno scorso nella capitale ugandese Kampala, rivendicati dal gruppo ribelle, hanno accelerato il dispiegamento militare dei soldati ugandesi, che hanno affiancato quelli congolesi, notoriamente sottofinanziati e mal organizzati.
Si stima che in totale potrebbero essere coinvolti tra i 1.500 e i cinquemila soldati ugandesi. Attualmente nell’est dell’Rdc sono attivi circa 120 gruppi armati, ma le Adf, che possono contare su 1.500 combattenti, sono particolarmente pericolose. Sono nate alla fine degli anni novanta da una coalizione di milizie che si opponeva ai metodi autoritari del presidente ugandese Yoweri Museveni. I loro accampamenti si trovano nel cuore della foresta e da lì sferrano attacchi violenti contro i villaggi , dove rapiscono nuove reclute.
“Quando siamo arrivati alla base, hanno separati i maschi dalle femmine. Ci hanno detto che dovevamo convertirci all’islam, pregare e imparare l’arabo. Le ragazze dovevano velarsi completamente”, racconta Kasanga. “Costringono le persone a usare la violenza e a uccidere. Chi si rifiuta rischia di morire”.
I miliziani prendono come mogli le giovani catturate. Da un rapporto delle Nazioni Unite emerge che i combattenti delle Adf spesso stuprano le donne, perché sanno che le vittime se ne vergognano profondamente e sono meno tentate dall’idea di fuggire. “Stavano cercando un marito anche per me, ma sono riuscita a scappare prima”, racconta Kasanga.
Con decine di gruppi armati operanti nelle province del Nord Kivu e dell’Ituri, è difficile fare delle stime precise, ma secondo il Kivu security tracker – un osservatorio della violenza nella regione – dall’aprile 2017 le Adf hanno ucciso almeno 2.238 persone e ne hanno rapite 896.
Un milione e mezzo di sfollati
A Oicha, nel Nord Kivu, vivono migliaia di profughi, che si trovano ancora sotto attacco. Poco prima della nostra visita, una bomba è esplosa in un mercato. Per fortuna qualcuno è riuscito a coprire l’ordigno con una borsa e nessuno è rimasto ucciso. Désiré Kilongo, una leader comunitaria, afferma che dall’avvio dell’operazione congiunta tra Uganda e Rdc il numero di persone arrivate in città è triplicato. Oggi sono almeno 21.300. La comunità è allo stremo. “Ci sono persone che accolgono in case di appena due stanze due o tre famiglie di amici e parenti”, racconta Kilongo.
Nei villaggi del circondario alcuni sono costretti a passare la notte nelle scuole. Di giorno i loro effetti personali vengono accumulati in fondo alle aule dove studiano i bambini. I pasti sono cucinati nelle aree giochi e gli insegnanti si lamentano delle pessime condizioni dei bagni. Molti sfollati coltivavano la terra per sopravvivere, perciò non hanno portato quasi niente con loro. Spesso sono disposti a rischiare la vita per tornare nelle loro fattorie e recuperare quel che possono.
Secondo il Norwegian refugee council (Nrc), nei dintorni di Oicha vivono 1.166.200 persone andate via di casa per timore delle violenze. L’organizzazione ha costruito dei rifugi per la comunità degli mbuti, conosciuti anche come pigmei, mentre alle persone di etnia bantu ha dato soldi per affittare piccole abitazioni e avviare attività commerciali. “La proliferazione degli eserciti e delle milizie porterà a un’escalation delle violenze, causando altri spostamenti di massa e difficoltà per i civili. Queste comunità hanno già raggiunto il limite”, osserva Caitlin Brady, la direttrice dell’Nrc nel paese.
La Rdc dovrebbe essere un paese fiorente, ma è tra i più poveri al mondo a causa della sua storia coloniale e della corruzione endemica
Nel campo di Kekele le donne si radono la testa in segno di lutto per i figli morti. David Jalamuke, un anziano mbuti di Matiba, racconta che nel maggio 2020 le Adf hanno ucciso tutti i suoi figli, tranne una. La figlia di Jalamuke a sua volta ha perso cinque bambini e il marito, morti nello stesso attacco. Jalamuke era riuscito a nascondersi e ha visto i ribelli uccidere un suo amico. “Gli sono saliti sul petto, gli hanno tagliato la gola in due punti e gli hanno spezzato il collo”, racconta.
Altri raccontano di aver visto miliziani delle Adf fare a pezzi le persone. Nelle incursioni, a donne e bambini viene ordinato di rubare cibo e oggetti. Un uomo racconta di aver visto “donne uccidere altre donne e bambini uccidere bambini”.
Nel maggio 2021 il presidente congolese Félix Tshisekedi ha dichiarato che le province dell’Ituri e del Nord Kivu sono in “stato di assedio”. Le autorità militari hanno sostituito quelle civili e le forze di sicurezza hanno ottenuto nuovi poteri.
Eppure le violenze non si fermano. Con le sue grandi ricchezze minerarie (oggi indispensabili per fabbricare le batterie dei telefoni e delle automobili elettriche), la Rdc dovrebbe essere un paese fiorente, ma è tra i più poveri al mondo a causa della sua storia coloniale e della corruzione endemica.
Tutte le forze in campo
Sarah Kasanga è riuscita a scappare dalle Adf nel 2020. “Ci avevano mandato a cercare da mangiare vicino a Oicha. La donna con cui mi trovavo aveva deciso di scappare e voleva che andassi con lei”. Kasanga era terrorizzata all’idea di abbandonare i fratelli con i ribelli, ma temeva anche di tornare alla base da sola. “Oggi so che i miei fratelli stanno bene, ma sono comunque preoccupata”, racconta. È tornata dalla madre. “Se qualcuno delle Adf mi vedesse, verrebbe a uccidermi. Vivo nella paura”.
Le forze armate congolesi sono supportate dalla Monusco, la missione di pace delle Nazioni Unite, composta di 15mila caschi blu. Nel 2013 aveva contrastato efficacemente un altro gruppo ribelle, chiamato M23, ma oggi è criticata per aver protetto alcuni esponenti delle Adf, nonostante riceva ogni anno un finanziamento di un miliardo di dollari per fare il contrario. Nell’agosto 2021 sono scoppiate proteste contro la Monusco in tutto l’est della Rdc. “Quando i soldati congolesi lanciano un’operazione, i ribelli si vendicano con i civili e la popolazione arrabbiata se la prende con la Monusco perché non l’ha protetta”, spiega Nelleke van de Walle, dell’International crisis group.
L’operazione congiunta Rdc-Uganda è una sfida per la Monusco, il cui mandato riguarda unicamente il sostegno alle forze armate congolesi, spiega Cecilia Piazza, direttora dell’ufficio della Monusco a Beni. Coordinarsi con le altre forze sul campo, però, è fondamentale per “capire cosa sta succedendo, in particolare quando in uno stesso contesto sono presenti tante forze armate”.
Secondo Piazza, la Monusco ha ascoltato le critiche e sta dispiegando “unità in grado di reagire rapidamente”, “mobili e robuste”, con l’obiettivo di contrastare le Adf. Piazza teme, però, che gli attacchi contro le roccaforti ribelli abbiano come unico risultato lo spostamento dei miliziani da un’altra parte. “Abbiamo assistito a incidenti a nord e a sud dell’area dove vengono condotte le operazioni”, osserva.
Van de Walle è preoccupata anche del fatto che i soldati congolesi facciano accordi con bande criminali. “I militari dell’esercito sono sottopagati e a volte peggio equipaggiati dei ribelli”, spiega.
Alcuni hanno comprato delle mimetiche al mercato e hanno fabbricato archi e frecce
L’incapacità dello stato di proteggere i cittadini favorisce la nascita di milizie di autodifesa, note come mai-mai. A Beni, Patrick Mwenda (nome di fantasia), vent’anni, spiega come vengono reclutati i giovani “patrioti”. Nel 2016 un uomo è andato nel suo villaggio con tre fucili. “Ha detto che le Adf stavano uccidendo dei civili e che i soldati non ci avrebbero protetto poiché collaboravano con i ribelli. Ha detto che dovevamo proteggere la nostra terra e le nostre famiglie, che il villaggio doveva formare un gruppo armato e attaccare le basi militari per rubare le armi”, racconta.
Alcuni hanno comprato delle mimetiche al mercato e hanno fabbricato archi e frecce. Mwenda racconta che solo qualche volta è riuscito a imbracciare un fucile, ma più spesso ha usato una fionda. Dopo aver bevuto del liquore fatto con il sorgo e la banana, lui e i suoi compagni facevano irruzioni nelle caserme per rubare armi e uniformi. “I combattimenti erano duri. Lanciavamo anche quattro attacchi di fila e i soldati contrattaccavano. Bevevamo una piccola quantità di un liquido magico, che secondo il nostro capo ci avrebbe protetto dai proiettili”, racconta. “Ci sembrava straordinario far parte di quel movimento, avere la consapevolezza che stavamo salvando il nostro paese”.
Poi nel suo villaggio è arrivata una nuova milizia, l’Unione dei patrioti per la liberazione del Congo (Uplc), che si è offerta di addestrare il gruppo di Mwenda. Ma quelli dell’Uplc non avevano alcuna intenzione di andarsene e hanno preso il controllo del villaggio, collaborando con i ribelli. Allora Mwenda è scappato a Beni. Nel 2021, alla vigilia di Natale, i soldati ugandesi hanno conquistato un importante accampamento delle Adf a Kambi Ya Yua. Il giorno di Natale un attentatore suicida si è vendicato facendosi esplodere in un ristorante e causando otto morti e venti feriti. All’ospedale di Beni le vittime sono ancora convalescenti. Una bambina di cinque anni, Maskia Mukone Chanele, occupa un letto in una tenda della Croce rossa. Ha il volto ferito e ha rischiato di perdere un occhio. Sua sorella di tredici anni è stata uccisa. “Sono rimasta sconvolta quando ho saputo di mia figlia e dei miei nipoti”, dice Anto Kahambu Kaghoma, la nonna di Maskia. “Queste cose non succedono in un paese con un governo serio”.
Disarmo, smobilitazione e reintegro
Nel giardino di un albergo a Beni, Tommy Tambwe, che dirige il programma di disarmo, smobilitazione e reintegro degli ex ribelli nel Nord Kivu, è impegnato in un incontro con la comunità. In passato Tambwe ha combattuto con i ribelli, e la sua nomina a un incarico governativo è stata molto criticata, perché considerata un esempio di come i criminali possono arrivare al potere. Tambwe però assicura che l’operazione militare congiunta e i programmi con lo scopo di coinvolgere la comunità porteranno presto la pace nella regione.
All’incontro è presente anche Alphonse Kambale Mubalya, che ha un’organizzazione per la costruzione della pace chiamata Amip. Lui dà la colpa delle violenze ai paesi vicini. “Questa non è un’insurrezione come le altre”, afferma. “Qui ci sono comunità di agricoltori. Se non vivessimo sempre nell’insicurezza, non avremmo bisogno di cercare un altro lavoro o di prendere le armi. I ribelli sono arrivati negli anni novanta dall’Uganda e dal Ruanda, ed è da allora che abbiamo problemi”.
Il presidente Tshisekedi vuole costruire legami nella regione, ma gli abitanti sono sospettosi. Denis Mukwege, ginecologo e attivista per i diritti umani, premio Nobel per la pace, ha scritto su Twitter che la cooperazione militare è inaccettabile, dopo “i venticinque anni di crimini di massa e di saccheggi delle risorse” perpetrati dall’Uganda.
Secondo Van de Walle, gli investimenti ugandesi nelle strade della Rdc suggeriscono motivazioni che vanno oltre la necessità di migliorare le infrastrutture. Rafforzare la sicurezza è una priorità per Kampala perché vuole attirare nel suo paese le aziende petrolifere straniere. La francese Total e la cinese Cnooc hanno cominciato i lavori di un controverso e costoso oleodotto che collegherà l’Uganda alla costa della Tanzania.
Nel frattempo migliaia di sfollati congolesi restano in un limbo.
Mwenda si pente del suo passato. “Alcuni leader si sono approfittati di noi e ci hanno mentito per impedirci di fuggire, dicendoci che per entrare a Beni dovevamo mostrare alcuni documenti o saremmo stati uccisi”. Molti ribelli, racconta, vorrebbero tornare a casa. Inoltre pensano che i comandanti siano interessati solo ai soldi erogati dal governo per le iniziative di disarmo e che li costringano a combattere per tenere alta la pressione sulle autorità.
Per Jalamuke, invece, la gente vuole solo che le forze ugandesi e congolesi portino la pace: “Accetteremmo di tutto, purché si fermino i massacri”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian. Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede in Africa. Ci s’iscrive qui.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it