A Pan Mei, 37 anni, la carne di istrice piace bollita: il sapore si mantiene e la pelle si ammorbidisce. Suo marito Wang Haouzhu, 35 anni, non è d’accordo. L’istrice è buono soprattutto arrostito, così diventa croccante. “Come l’anatra alla pechinese, ma più gustoso”. Wang si accende un’altra sigaretta e incrocia i piedi scalzi standosene seduto sul comodo divano di pelle. L’aria condizionata rinfresca il piccolo ufficio. Siamo solo a maggio, ma nella provincia meridionale di Guangdong fa già parecchio caldo. Poco lontano dalle rive del Dong, un affluente orientale del fiume delle Perle, si stende la valle verde in cui Wang e Pan allevano i loro istrici.

“Haouzhu” non è il vero nome dell’allevatore. Significa “istrice” ed è così che lo chiamano i compaesani. Wang catturò il primo a soli vent’anni. Oggi ne ha trecento e rifornisce decine di contadini della zona. Non in questo periodo, ovviamente. Da quando il nuovo coronavirus ha cominciato a diffondersi a partire da un mercato di Wuhan, gli istrici figurano su una lista di animali selvatici la cui carne è proibita.

Un’ipotesi sull’origine della pandemia è che un pipistrello abbia trasmesso il virus a un animale poi venduto al mercato. Da allora sono stati chiusi quasi ventimila allevamenti di specie come pavoni, viverre, istrici e cinghiali.

Dell’istrice non si butta via niente: i suoi aculei sono ottimi per pescare e se ne può ricavare un infuso che abbassa la pressione

Wuhan si trova a centinaia di chilometri di distanza e Wang non crede a questa teoria. A suo avviso gli animali selvatici sono sanissimi. “Non si ammalano mai. Bisogna mangiarli proprio per proteggersi dai virus”. Dell’istrice non si butta via niente: i suoi aculei, per esempio, sono ottimi per pescare, e se ne può ricavare un infuso che abbassa la pressione.

Le piccole code dei roditori, di un bianco quasi trasparente, si agitano nelle gabbie al margine del bosco. Questi animali notturni, miopi e leggermente intontiti, diventano attivi solo al tramonto, spiega Wang, che poi dà dei colpetti di bastone al cancello di metallo: gli istrici, spaventati, sollevano gli aculei.

La “selvaticità” degli istrici è un punto controverso nel dibattito intorno alla nuova legge che vieta il commercio e il consumo di certi animali. Wang li cattura nei boschi e li fa accoppiare. Mi indica le gabbie più grandi, di circa un metro quadrato. Sulla sabbia gialla corre una striscia scura. “Sangue”, dice Wang. “Il piccolo è nato due ore fa”. Un cucciolo delle dimensioni di una cavia se ne sta attaccato alla madre. Il padre è nella stessa gabbia. “Sono animali con un autentico istinto familiare. Non vanno separati”. Un istrice passa attraverso un buco nella rete della gabbia vicina. “Tornerà. Si ricongiungono sempre alla famiglia”. Nello stesso istante un grosso esemplare s’infila tra i cespugli alle spalle dell’allevatore. Mentre Pan Mei va a recuperare una rete per catturarlo, Wang scruta le foglie con le mani sui fianchi. Lancia un sasso tra i cespugli, ma l’animale non si fa vedere.

Una zona grigia
Gli istrici fanno parte della lunga lista di specie poco tutelate dalle leggi in vigore. In natura sono protetti, ma è consentito allevarli, come anche i pangolini (si dice che il virus sia stato veicolato a Wuhan proprio da un pangolino). A quattro mesi dall’inizio della pandemia, tutti sanno che il 75 per cento dei virus umani arriva dagli animali selvatici. Il governo ha già deciso di mantenere il divieto sul commercio e sul consumo delle specie selvatiche, varato con grande rapidità a fine febbraio. Le organizzazioni che si battono per la salvaguardia della biodiversità se ne rallegrano, ma non è abbastanza. Se mai c’è stato un buon momento per entrare in azione, è questo. “La pandemia è il risultato di uno squilibrio tra esseri umani e animali. Cavalchiamo l’onda del covid. Molti sono d’accordo ad ampliare la legislazione esistente”, spiega Li Shuo del ramo pechinese di Greenpeace. Si deve passare da una legge che salvaguarda le specie selvatiche a rischio a una che promuova la biodiversità.

Zhou Jinfeng dirige la Fondazione cinese per la biodiversità e lo sviluppo sostenibile (Cbcgdf) e auspica un divieto sull’impiego di tutte le specie animali nella medicina tradizionale. La sua organizzazione conta cinquanta collaboratori e diecimila volontari in tutto il paese. Dall’inizio della pandemia, il numero di volontari non fa che aumentare. “Siamo sostenuti da duecento ong, lavoriamo come una squadra”.

È un dibattito complesso, in cui entrano in gioco molti interessi oltre a quelli degli animali. Secondo le stime dell’Accademia cinese per l’ingegneria, nel 2017 l’industria dell’allevamento degli animali selvatici valeva 68,5 miliardi di euro. Negli ultimi anni la Cina ha destinato risorse ingenti alla promozione dei farmaci tradizionali. Nel 2020 i produttori hanno ricavato 1,58 miliardi di yuan, pari a 204 miliardi di euro, dalla cosiddetta Tcm (medicina tradizionale cinese): un terzo del mercato farmaceutico cinese nel suo complesso. In genere si tratta di erbe in polvere e pillole, ma a volte gli ingredienti sono più controversi. Tigri ed elefanti sono chiaramente protetti, ma l’impiego di aculei di istrice per la produzione di farmaci si trova in una zona grigia.

Se tu vuoi allevare istrici, io te ne do uno. Nessuno lo saprà, tranne tu e io

Wang accoglie regolarmente commercianti interessati alle code e agli aculei dei suoi animali. Nell’ultimo decennio la domanda di istrici è cresciuta costantemente, non solo per via delle loro proprietà medicinali, ma anche per la bontà della loro carne. “È una carne molto magra. Anche gli istrici anziani sono tenerissimi”. Con i cuccioli si fa una buona zuppa. L’allevatore li vende per 350 yuan (50 euro), mentre un esemplare adulto vale circa 1500 yuan (195 euro). Pan Mei mette sul tavolo una bottiglia da dieci litri. Distillato di aculei di istrice su un letto di bacche di ginseng rosso. Il preparato si chiama pao jiu e pare faccia bene alle articolazioni. “Meglio del cognac Hennessy o Martell”, sorride Wang spegnendo la sigaretta in un grande posacenere di vetro. “Migliora la circolazione. Non si trova da nessun’altra parte, solo qui”. L’anno scorso, racconta, ne ha vendute seicento bottiglie a 2.500 yuan (300 euro) l’una. Pan versa il liquore giallo in tazzine di plastica riempiendole fino all’orlo. “I contadini non se lo possono permettere, costa troppo. È per persone a cui piace concedersi un bicchierino”, dice. Guarda il marito con un sorrisetto. Allude agli alti funzionari locali, spiega Wang.

A complicare l’inasprimento della legge sulla protezione degli animali c’è anche il problema della lotta alla povertà. Il governo locale distribuisce sussidi agli allevatori, che possono così contare su buone entrate. Wang sfoglia la galleria d’immagini del suo smartphone e mostra le tre grandi case che sta facendo costruire nel paese vicino. “Prima del virus ricevevo 300 yuan (40 euro) all’anno per ogni istrice. Ho ottenuto l’autorizzazione ad allevarli e ora vogliono che smetta? Impossibile!”. L’allevamento di Wang è una delle migliaia di attività (non tutte altrettanto professionali) che chiuderebbero i battenti nel caso di un ampliamento della legge sulla protezione degli animali.

La passione degli alti funzionari per gli istrici fa ben sperare Wang, che è in contatto con allevatori di tutto il paese. “Non mi preoccupo granché. Se tu vuoi allevare istrici, io te ne do uno. Nessuno lo saprà, tranne tu e io”. Al mercato di Jiangcun, nella megalopoli Guangzhou, a tre ore di macchina dal suo allevamento, sembra però che la situazione stia cambiando. Ai ganci si trovano appesi solo polli, anatre, intestini, zampe e orecchie di maiale. I macellai puliscono i banconi bianchi, l’acqua scorre tra le stradine. “Serpente? E chi si azzarderebbe più a venderlo?”, dice un pescivendolo in tono allegro. “Nessuno osa opporsi alla corrente”, spiega, con la mascherina che gli penzola sotto al mento. Se le autorità guardano al tuo settore con la lente d’ingrandimento, è meglio starsene buoni.

Un agente di pattuglia in gilet giallo osserva le bancarelle con attenzione. Se prima avrebbe chiuso un occhio, oggi arresterebbe chi vende animali selvatici. I mercanti sono avvisati. “Non si possono più vendere nemmeno le tartarughe. Da questo mercato sono spariti i serpenti, le rane e i cani”, spiega il pescivendolo. Scavando un po’ più a fondo, però, si scopre che si trova sempre una soluzione per chi vuole assaggiare la carne di serpente. “Se qualcuno ci tiene, sono in grado di rimediarla. Solo che qui non posso venderla”.

Secondo Zhou Jinfeng del Cbcgdf si continuerà a guardare negativamente al commercio degli animali selvatici. “Di norma l’applicazione locale di leggi simili lascia molto a desiderare. Ma il virus ha cambiato tutto. Le autorità locali prendono la questione sul serio e negli ultimi mesi hanno chiuso un gran numero di mercati”. In una lettera aperta all’Assemblea nazionale del popolo, Zhou chiede che la cittadinanza possa denunciare le autorità là dove si rifiutino di applicare la legge. “In questo modo chiunque potrebbe contribuire alla salvaguardia della natura”. Li Shuo auspica una fase di transizione per gli allevatori. “Dobbiamo riconoscere che una legge più severa avrebbe conseguenze importanti su di loro”. Una possibile soluzione sarebbe stilare un elenco di animali il cui allevamento, commercio e consumo è consentito. “Servirebbe a proteggere la natura e a prevenire nuovi focolai virali”.

Convinto com’è che non succederà nulla, Wang non vede il bisogno di un piano b. Dietro alle gabbie con gli istrici ce ne sono alcune vuote. Spiega che ospiteranno pavoni, un’altra specie protetta. L’allevatore, però, non vuole né mangiarli né venderli. Gli piace l’idea che la gente di città venga ad ammirare i suoi animali. A quel punto potrebbe servire ai visitatori carne di istrice. Il maiale comune costa 60 yuan (8 euro) al chilo, l’istrice 160. Wang, peraltro, capisce molto bene l’importanza della legge: è bene proteggere gli animali. “In passato qui non si sentivano mai uccelli”, racconta indicando i cespugli tra i quali si agita l’istrice fuggiasco. “Li ammazzavano tutti”. Pan, rete alla mano, spiega di essere buddhista. Ogni anno libera due istrici, un maschio e una femmina, come sacrificio. “Si adattano subito alla vita nei boschi”. Nel frattempo l’istrice scappato rimane lì dov’è, nascosto sotto una copertura di foglie. Wang alza le spalle: “Gli istrici hanno una memoria migliore di quella dei cani. Se nessuno li uccide, ritrovano facilmente la via di casa”.

(Traduzione di Stefano Musilli)

Questo articolo è uscito sul quotidiano olandese Trouw.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it