Negli Stati Uniti esiste una contraddizione profonda sulla pena di morte, radicata nell’ottavo emendamento: il governo può legalmente uccidere una persona (la tortura di tutte le torture) ma non può sottoporla a sofferenze superflue. Il paradosso è evidente: il detenuto viene protetto da una violenza minore mentre subisce una violenza suprema. Da questa confusione nasce la necessità di esecuzioni relativamente indolori.

Le stesse persone che rinchiudono i detenuti nel braccio della morte in celle claustrofobiche sono tenute a garantirne il benessere mentre si avvicinano alla loro morte. Con questa missione in mente, i governi statali stanno rovistando nel passato alla ricerca di un metodo che possa soddisfare i vincoli sulle sofferenze eccessive senza però compromettere l’obiettivo finale, cioè l’eliminazione fisica del detenuto.

Il 7 marzo le autorità della South Carolina hanno eseguito la sentenza di morte contro Brad Sigmon ricorrendo a un plotone d’esecuzione. Nel 2001 Sigmon era stato condannato per l’omicidio dei genitori della sua compagna. Si è trattato del primo ricorso a un plotone d’esecuzione negli ultimi quindici anni. L’ultimo caso si era verificato nello Utah nel 2010. I metodi di esecuzione peculiari e violenti sembrano catturare l’immaginazione dell’opinione pubblica più della pena di morte in sé.

Una persona può essere teoricamente favorevole alla punizione capitale come concetto, ma è plausibile che faccia un passo indietro davanti alla prospettiva di uccidere concretamente un altro essere umano, un atto che richiede una partecipazione più viscerale rispetto a un consenso astratto. È per questo che la settimana scorsa i mezzi d’informazione hanno prestato molta attenzione al ritorno del plotone di esecuzione. La vicenda è stata seguita dalle testate nazionali e ha suscitato l’interesse anche della Bbc. Detto questo, è probabile che la prossima esecuzione di questo tipo non genererà lo stesso interesse. Fino a quando non ci sarà un cambiamento culturale che possa produrre il rifiuto del concetto stesso di pena di morte, continueremo ad assistere a nuove tecniche o al ritorno di quelle del passato, in forma più o meno rielaborata.

Durante la sua esecuzione, Sigmon è stato legato a una sedia grigia all’interno di una vasca di acciaio, con un bersaglio posizionato sul petto e un cappuccio a coprire la testa. I testimoni hanno seguito la scena attraverso una finestra, mentre i tiratori, nascosti dietro un muro dotato di appositi fori per far passare la canna dei loro fucili, hanno sparato da una distanza di 4,5 metri, distruggendo il bersaglio appoggiato sul petto di Sigmon, all’altezza del cuore. Un dottore ha certificato la morte del condannato alle sei e otto minuti del pomeriggio.

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Come succede in molti stati dove è in vigore la pena di morte, a Sigmon è stato consentito di scegliere fra tre diversi metodi di esecuzione: iniezione letale, elettrocuzione o plotone. Alla fine ha scelto i fucili, preoccupato dai diversi errori commessi di recente nella somministrazione delle iniezioni letali nella South Carolina. Il mese scorso un condannato ha ricevuto una dose sbagliata di composti chimici, tanto che l’autopsia ha rilevato che i suoi polmoni erano “fortemente rigonfi a causa dell’accumulo di sangue e fluidi”, come si legge in un documento processuale presentato dai legali di Sigmon.

Le esecuzioni di civili attraverso un plotone di uomini armati sono storicamente rare. La prima ha avuto luogo nelle colonie americane nel 1608, e da allora soltanto 144 persone sono state messe a morte con queste modalità. Di conseguenza è difficile trarre conclusioni scientifiche rispetto ai meriti di questa procedura rispetto a quelle più diffuse.

In ogni caso, è probabile che Sigmon avesse ragione quando si è convinto che il plotone di esecuzione gli offrisse una morte più rapida rispetto sia ai metodi pseudoscientifici più utilizzati in epoca moderna (elettrocuzione, gas, iniezione letale) sia a quelli più antichi come l’impiccagione e il rogo.

Nel capitolo che ha curato per il libro The Elgar Companion to Capital Punishment and Society (2024), la professoressa ed esperta di diritto Deborah Denno riporta che un elettrocardiogramma condotto durante un’esecuzione attraverso un plotone nel 1938 aveva rilevato che il cuore del condannato si era fermato pochi secondi dopo l’impatto dei proiettili. L’uomo era stato dichiarato morto appena due minuti dopo. Denno aggiunge che in una delle analisi mediche più complete dei vari metodi di esecuzione, lo scienziato britannico Harold Hillman “ha concluso che l’esecuzione attraverso un plotone presenta livelli di potenziale dolore tra i più bassi”.

Eppure con il passare degli anni il plotone d’esecuzione ha ceduto il passo a metodi che erano considerati meno sanguinari, a cominciare dall’iniezione letale, emersa alla fine degli anni settanta come strumento scientifico e rispettabile per mettere fine alla vita di un condannato, qualcosa di paragonabile all’eutanasia nei confronti degli animali.

Tuttavia, il presunto progresso portato dall’iniezione letale nascondeva un elevato rischio di errori crudeli e raccapriccianti. Prendiamo il caso di Doyle Hamm. Nel 2018 la tentata esecuzione di Hamm attraverso un’iniezione letale è durata circa tre ore, durante le quali l’uomo ha subìto undici iniezioni nelle gambe, nei piedi e nell’inguine. Un ago gli ha perfino perforato la vescica. Da allora l’iniezione letale è stata sottoposta a un’infinità di dispute legali, che hanno suscitato nell’opinione pubblica una forte opposizione nei confronti di questa tecnica.

Il dibattito ha prodotto un particolare sviluppo legale: oggi un detenuto che si oppone a un metodo di esecuzione deve indicare un’alternativa immediatamente disponibile. Questo ha spinto le autorità statali a sviluppare protocolli per i metodi aggiuntivi. Presto l’iniezione letale potrebbe essere definitivamente soppiantata dal plotone di esecuzione o dal soffocamento per ipossia da azoto. Comunque sia, il rimescolamento tra metodi vecchi e nuovi andrà avanti probabilmente all’infinito, mentre i governi statali continuano a battersi con ogni mezzo per conservare il diritto a uccidere.

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