Questo testo è un estratto del primo capitolo del nuovo libro di Enrico Deaglio, “Cose che voi umani”, pubblicato da Marsilio e in uscita il 24 giugno 2021.
Poche note, ma di quelle che ti entrano nella pelle. Quasi più della Quinta di Beethoven.
Erano la colonna sonora di Twin Peaks, il Degüello della democrazia americana.
•••••
Che la democrazia in America fosse in pericolo, con un cuore di tenebra che le batteva dentro a un ritmo perverso, lo venimmo a sapere trent’anni fa, quando l’agente Cooper, inviato dall’Fbi, chiese di vedere il cadavere di Laura Palmer, conservato nel gelo della camera mortuaria di Twin Peaks; introducendo una pinzetta sotto l’unghia del suo anulare sinistro, estrasse del materiale che mise sotto una lente: era un pezzetto di carta, proprio come si aspettava, e sopra c’era la lettera R…
Era l’inizio degli anni novanta, erano i tempi dei vhs, l’occidente combatteva la sua Prima guerra del Golfo per liberare il piccolo ma ricchissimo Kuwait, che era stato invaso dal dittatore dell’Iraq, un certo Saddam Hussein. Gli americani avevano preso la cosa maledettamente sul serio, e avevano convinto il “mondo libero” a mettere su un esercito come non si era mai visto dai tempi della chiamata alle armi di Agamennone per riprendersi la bella Elena, rapita da un principe troiano. Che tempi! Gli Stati Uniti allora erano fortissimi, e tutto il mondo si allineava, perché l’America aveva ragione… Quel conflitto lo chiamarono “la guerra giusta”, di una democrazia contro una dittatura.
Ci fu, ve lo ricorderete, persino l’argomento dei broccoli. Se l’Iraq e il Kuwait avessero prodotto broccoli, invece che petrolio, ci saremmo scaldati
tanto? Ma la risposta non tardò ad arrivare: anche Saddam sapeva che il Kuwait non produceva broccoli, altrimenti non l’avrebbe invaso. La disputa finì lì, e l’avanzata della democrazia americana fu magnifica, e magnanima: infatti Saddam restò al suo posto, per altri dodici anni.
E però, appunto, c’era anche Twin Peaks, con i suoi terribili delitti; un paese tranquillo, nello stato di Washington, vicino a Seattle prima che diventasse famosa; lassù, quasi in Canada, con l’aria pulita, le sequoie secolari, una cascata maestosa, una segheria, i ragazzi del liceo che andavano a scuola sulle Harley-Davidson e le ragazze che si vestivano come se fossero a una sfilata di moda a Parigi. La colonna sonora – pochi accordi che sembrano venire dall’oltretomba – avrebbe messo paura al soldato più coraggioso schierato a difesa di Fort Alamo. L’agente Cooper era bellissimo e beveva in continuazione caffè nero bollente. Ogni giorno dettava a Diane il resoconto delle sue indagini servendosi di un piccolo magnetofono, e poi andava all’ufficio postale a spedire la cassetta, perché allora – sembra incredibile – le mail non c’erano ancora.
Nella cittadina era stata ritrovata anche Ronette Pulaski, l’amica di Laura Palmer, mentre vagava seminuda e sporca di sangue e terra su un ponte d’acciaio rugginoso. Giorni dopo, l’agente Cooper prese le sue pinzette, e sotto l’unghia del suo anulare sinistro trovò un’altra lettera, la B…
L’ultimo segreto delle lettere dell’alfabeto. Dalla R e la B ritrovate sotto le unghie di due
povere ragazze, alla “cabala” di pedofili scovata da Q in una pizzeria di Washington.
•••••
Perché vi racconto questa storia di cadaveri e lettere? Perché me lo sta sollecitando la New Orion, la società per cui lavoro, che prende il nome dal grattacielo di acciaio che tutti conoscono, qui a New York: cinquantotto piani, tremila abitanti e sette ascensori. È un sistema supersinapsi multitasking che lavora con il 7G aumentato, ed è in grado di associare – per le loro analogie, anche quelle più nascoste – immagini e suoni, ma soprattutto memorie – tutti i tipi di memoria –, nel tempo e nello spazio. In questo caso, per esempio, ha associato i ricordi di milioni di persone che videro Twin Peaks – e le sue lettere dattiloscritte R e B ritrovate sotto le unghie delle due ragazze – con la lettera Q che campeggiava su magliette, striscioni, manifesti, berretti e tatuaggi di molti dei manifestanti che hanno dato l’assalto al Campidoglio di Washington nella fatale giornata del 6 gennaio 2021, il vero inizio degli anni Venti del Ventunesimo secolo.
E in effetti è ben curioso: non un simbolo religioso, non una parola, non un’immagine, non un logo, ma un’enigmatica lettera dell’alfabeto, la lettera
Q
Se Q fosse una divinità, una persona vera e in carne e ossa, un funzionario della malvagia burocrazia governativa a conoscenza dei peggiori segreti di stato, o ancora un’entità venuta da un’altra galassia, nessuno lo sapeva; e se qualcuno lo sapeva, se lo teneva per sé. Da quattro anni era presente sul web, e silenziosamente aveva dato origine a un culto digitale i cui adepti sostenevano che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump rappresentasse l’ultimo baluardo prima che una “cabala” di democratici prendesse il potere sul pianeta per dedicarsi all’attività che preferiva: asservire sottoterra milioni di bambini, usarli per le proprie perversioni sessuali e poi ucciderli succhiandone il sangue al fine di procacciarsi l’eterna giovinezza. Q aveva dato ai suoi seguaci un appuntamento: il 6 gennaio. Il giorno del Grande Risveglio che tutti aspettavano era dunque giunto: come si evinceva dai messaggi che rimbalzavano nelle loro chat, gli adepti avrebbero marciato sul Campidoglio, arrestando e uccidendo i traditori che, dopo aver rubato le elezioni al presidente, volevano consegnare il potere ai democratici.
Q aveva chiamato, e i seguaci erano arrivati da ogni angolo degli Stati Uniti, in auto, in pullman e in aereo.
Tutti seguivano la grande lettera Q che campeggiava nel vasto cielo del web, ma non sapevano – o forse, invece, nell’archeologia della loro memoria genetica ce n’erano le tracce, chi lo sa… – che stavano replicando la grande battaglia di Ponte Milvio condotta dall’imperatore Costantino contro l’usurpatore Massenzio, quando le truppe romane riconobbero in cielo il segno di una croce e alcune lettere dell’alfabeto, addirittura in greco: dicevano EN TOUTO NIKA, “in questo segno vincerai”. Si riferivano a un episodio risalente a duecentosettantanove anni prima, la crocifissione del rabbi Cristo a Gerusalemme, da cui si era originato un culto religioso che il potere di Roma aveva cercato in ogni modo di sopprimere, e che ora veniva in suo soccorso… In hoc signo vinces… Seguite Q…
Suggestioni, certo. Ma gli avvenimenti del 6 gennaio moltiplicavano le domande. Come mai nessuno – e soprattutto “le autorità”, ovvero coloro che dovrebbero difenderci – si era reso conto dei propositi di Q? Come mai non avevano capito che ormai il nuovo culto era penetrato dentro le chiese, dentro il Partito repubblicano, dentro la polizia, dentro il linguaggio di milioni di persone?
E poi c’era un’altra questione. Oltre a Q, una seconda entità aveva indicato il 6 gennaio 2021 come l’ultima occasione per salvare l’America. Si trattava nientemeno che del presidente sconfitto alle ultime elezioni, Donald Trump, che per la prima volta nella storia della democrazia americana non intendeva accettare il verdetto delle urne, e aveva annunciato in tutti i modi che non avrebbe ceduto il potere. Quella mattina, Trump tenne un atteso comizio a Washington; davanti a lui c’erano migliaia di persone che sventolavano la lettera Q. Alcuni, in quella giornata, si rivolsero a lui chiamandolo “imperatore”.
La domanda è di quelle che ci si pone alla terza pagina di un giallo di Agatha Christie: era lui Q?
Per tornare a Twin Peaks, nel corso degli episodi si scopre che le lettere ritrovate sotto le unghie delle povere ragazze, su cui l’agente Cooper si era tanto applicato, sono la firma dei delitti seriali lasciata dal diavolo Killer BOB, il quale si era impadronito dell’anima di Leland Palmer, il padre di Laura. Tutti i crimini messi insieme avrebbero composto il suo nome, ROBERT. Leland era “posseduto” dal demonio, e aveva avuto un rapporto incestuoso con la figlia, che si era fatta assumere part-time in un bordello il cui esame di ammissione consisteva nel mettersi in bocca una ciliegia restituendone il picciolo dopo averlo annodato con la sola lingua. Quando Leland Palmer decise di uccidere Laura, forse in realtà voleva punirla per quella storia della ciliegia…
La terza stagione di Twin Peaks sarebbe andata in onda più di venticinque anni dopo. Pochi mesi prima Trump aveva vinto le elezioni, facendo credere alla sua base che il presidente Obama fosse un simpatizzante dell’estremismo islamico che si fingeva nato in America, mentre i suoi figli – insieme ad altri milioni di persone – ritwittavano la teoria complottista secondo la quale, nel sottoscala della pizzeria Comet Ping Pong di Washington, il capo della campagna elettorale di Hillary Clinton gestiva un giro di abusi e riti satanici ai danni di bambini schiavi.
Era il 2017. Q cominciò a trasmettere quell’anno.
Il 2020 per il presidente Donald Trump fu un anno terribile: un virus arrivato dalla Cina, il crollo dell’economia, rivolte contro il razzismo in tutto il paese, fino all’inevitabile sconfitta alle elezioni.
***
Il 2020 fu un anno pauroso. Un virus venuto dalla Cina – e che la Casa Bianca, ultimo baluardo della democrazia nel mondo, era sicura fosse stato prodotto in laboratorio dagli scienziati del Partito comunista cinese al fine di uccidere, in combutta con la “cabala” dei democratici, l’eroico popolo bianco americano – stava falcidiando grandi città e desolate campagne degli Stati Uniti, il paese più ricco e prospero del pianeta; chiudevano fabbriche, bar, negozi, cinema, palestre, ristoranti e centri di tatuaggi, e intanto le autorità istituivano tremendi divieti, come quello di non uscire di casa se non con una mascherina sul viso. I nemici della democrazia uscirono allo scoperto: a fine maggio – così riporta la narrazione trumpista –, approfittando dell’emozione suscitata dalla morte del solito piccolo delinquente nero nella città di Minneapolis, gruppi organizzati chiamati Black Lives Matter e Antifa si diedero ad assaltare le forze di polizia e a bruciare negozi e attività economiche, e la loro protesta dilagò fino a raggiungere la capitale e la Casa Bianca, tanto che la guardia nazionale fu costretta a schierarsi in tenuta da guerra sulle scalinate del Campidoglio.
Lo stesso presidente, dopo aver annunciato di essere pronto a usare armi micidiali e cani feroci, fu costretto a scendere in un bunker per proteggersi dalla folla. Con grande coraggio, accompagnato dalle più alte gerarchie militari in mimetica, fece poi una sortita in mezzo alle cariche delle forze speciali e ai gas lacrimogeni usati contro i dimostranti, presentandosi davanti all’antica chiesa episcopale di St. John, che una molotov aveva sfregiato con un baffo di fumo sul basamento. Il presidente reggeva in mano una vecchia Bibbia che la figlia Ivanka aveva messo in salvo nascondendola in una borsa Max Mara. È vero che sembrava un neonato che non sa da che parte si metta in bocca il cucchiaio, ma il messaggio – i pochi secondi necessari per la fotografia – era chiaro, proprio come quello di Costantino tanti secoli prima: l’America aveva il suo condottiero contro le forze del Male, dei pedofili, dei marxisti, dei globalisti, degli islamici, dei cinesi, dei messicani, dei radical chic, dei giornali, delle reti televisive, di Hollywood, del Deep State.
Q, chiunque fosse, recepì quel messaggio e lo ritrasmise nell’etere oscuro. I suoi seguaci cominciarono a presentarsi in massa ai comizi di Trump. Nel frattempo, le manifestazioni di protesta scaturite dai fatti di Minneapolis non cessavano, e anzi nelle città di Portland e Seattle andarono avanti per settimane. Quando i giornalisti gli chiesero se fosse al corrente di Q, Trump disse di non saperne granché, ma era a conoscenza del fatto che i seguaci di quel movimento lo ammiravano, e questo lo apprezzava. A un reporter spiegò: «Queste sono persone a cui non piace vedere cosa sta succedendo in posti come Portland, in posti come Chicago, New York e altre città, e ho sentito che questa gente ama il nostro paese.» Il giornalista gli chiese se anche lui condividesse la teoria complottistica di QAnon (che sta per “Q Anonymous”, ovvero “Q l’anonimo”), secondo la quale il presidente stava «segretamente salvando il mondo da un culto satanico di pedofili e cannibali». Trump rispose: «Be’, non ne ho sentito parlare, ma dovrebbe essere una cosa cattiva o buona? Se posso aiutare a salvare il mondo dai problemi, sono disposto a farlo. Sono disposto a mettermi in gioco. E lo stiamo facendo, in realtà. Stiamo salvando il mondo da una filosofia radicale di sinistra che distruggerà questo paese, e quando questo paese se ne sarà andato, il resto del mondo farà la sua stessa fine.»
Il presidente sosteneva che non era neanche immaginabile che potesse perdere le elezioni, e che se il clima di violenza fosse continuato si poteva pensare all’ipotesi di rinviarle o – come riportarono il New York Times e la Cnn – di celebrarle con una legge marziale. L’idea che l’esercito potesse prendere in mano la situazione cominciò a circolare, ma i vertici militari sottoscrissero un documento ufficiale che venne firmato da una ventina di capi di stato maggiore in servizio, per annunciare che se ne sarebbero tenuti alla larga.
Le elezioni si svolsero il 3 novembre 2020 e a vincerle furono i democratici, come tutti avevano previsto e come tutto il mondo si augurava. La pandemia aveva convinto gli indecisi ad andare a votare. Un senso di disprezzo circondava Trump: si era dimostrato così inefficiente, così insensibile alle sofferenze, così egoista, così stupido, così arrogante che la prospettiva di averlo tra i piedi per altri quattro anni era considerata un incubo. Tutto questo spinse il popolo americano a votare, nonostante fosse oggettivamente difficile, per la pandemia e per il clima di paura che le milizie pro-Trump – sì, nei suoi quattro anni di potere l’uomo si era guadagnato il sostegno di milizie armate di suprematisti e neofascisti – avevano creato. Le elezioni del 3 novembre mostrarono un’affluenza record e furono un grande successo del Partito democratico, che aveva invitato il suo elettorato a votare per posta, al fine di evitare, per l’appunto, pericoli di contagio e aggressioni da parte delle milizie. Il partito di Joe Biden e Kamala Harris raccolse il maggior numero di voti mai ottenuti nella sua storia, conquistando il consenso nelle città, nei suburbi, tra le donne, tra i giovani, tra le minoranze, tra le persone con un titolo di studio. Si riprese la maggioranza in alcuni stati industriali che quattro anni prima, per pochissimo, erano andati a Trump, e per la prima volta dopo decenni strappò ai rivali alcuni stati dell’Ovest e del Sud come l’Arizona e la Georgia. I repubblicani – caso rarissimo per un partito che aveva la Casa Bianca e il Senato e che era riuscito a cavalcare un periodo di benessere economico – non ce l’avevano fatta a sottrarre nessuno stato alla fazione avversa, e avevano visto il loro presidente soccombere continuamente nei sondaggi.
Cose che succedono; le elezioni, e la democrazia in generale, sono come una gara sportiva: si può sbagliare, ma c’è sempre una possibilità di rivincita, e in questo sta il piacere del gioco. Invece, nell’America che aveva inventato il gioco e le regole della democrazia qualcosa come duecentocinquant’anni prima, successe una cosa strana. Donald Trump non accettò la sconfitta, e si propose di ribaltare il risultato: con la legge – si inventò diecimila panzane, cavilli e complotti internazionali –, cosa che non gli riuscì; con l’esercito, che gli disse cortesemente di no; giocando alla Terza guerra mondiale intorno all’epicentro dell’esplosiva situazione iraniana; e infine ricattando il suo partito, e qui ebbe più fortuna. Dal 3 novembre al 20 gennaio, data dell’insediamento ufficiale di Biden, per settantanove giorni – grotteschi – un uomo solo riuscì a tenere in scacco l’ordine mondiale; e durante quei due mesi e mezzo, ci sarebbe stato l’appuntamento del 6 gennaio 2021.
Quella data rimarrà qualcosa di unico, per noi spettatori.
O forse no; prima c’era stato il secondo aereo sulle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001. Vent’anni fa. Il mondo era stato ipnotizzato da quella visione – una visione muta – del meteorite che si schiantava contro il grattacielo, attraversandolo come se fosse burro. E poi tutto era crollato, di nuovo in silenzio.
Il 6 gennaio 2021 il mondo sta guardando l’America in diretta. Vede molte persone, figurine nere che si muovono in mezzo a grandi monumenti di pietra. Non si capisce bene cosa stia succedendo. Come quando Charlton Heston cavalca sulla spiaggia nell’ultima scena del Pianeta delle scimmie e si imbatte in qualcosa di strano; poi la ripresa si allarga e compare una misteriosa figura di pietra sommersa dalla sabbia, e nel momento in cui l’inquadratura si allarga ancora di più si scopre – lo spettatore prima ancora di Charlton Heston – che è la testa coronata della Statua della Libertà, scaraventata lì da una guerra nucleare.
Al Campidoglio le persone corrono, si arrampicano sui muri e sulle balaustre, e i poliziotti le lasciano passare…
Si sentono tonfi e scoppi, la situazione è indecifrabile. Adesso c’è una grande folla. Una persona su Twitter scrive che c’è persino un chiosco di hot dog…
Storia di una vecchia famiglia di emigrati italiani, e dell’onesta vita di un bibliotecario, fino a una telefonata che lo trascina dentro l’insurrezione di Washington del 6 gennaio.
***
Ma fermiamoci qui, per adesso, al primo pomeriggio del 6 gennaio, quando sembrava profilarsi, tra manifestanti e venditori di hot dog, la fine della democrazia americana. Fermiamoci qui, perché mi devo presentare.
Mi chiamo Anthony Sanfilippo, detto Tony. Sono nato a metà del secolo scorso, e faccio parte di una stirpe di immigrati siciliani che arrivarono in America, praticamente tutti insieme, come una fila di formiche, alla fine dell’Ottocento, quando ogni giorno dalle navi sbarcavano mille italiani cui i Savoia avevano reso la vita impossibile. Grosso modo siamo qui da cinque generazioni, e il ceppo originario si è sparso in tutti gli angoli del continente, anche se con il tempo i diversi rami della famiglia hanno cambiato nome. Così ci sono i Philips in Georgia, i Saint-Philips in California, e poi i Brown-Philips nel New Jersey. Come tutti gli italiani del Sud, abbiamo svolto i lavori più umili, ma pian piano siamo emersi come commercianti, ristoratori, operai che hanno mandato a scuola i propri figli. Personalmente sono contento di aver mantenuto il cognome Sanfilippo; anzi, ne vado abbastanza fiero, così come del fatto che mi chiamino Tony – mi ricorda il Tony Manero del film, ma anche il meccanico di Fix it again, Tony, nella cui officina venivano portate a riparare le Fiat che si scassavano perché non adatte alle nostre autostrade.
Risiediamo nella zona di New York da un sacco di tempo, da quando una parte della famiglia si trasferì al Nord, sistemandosi in una bella casa di Brooklyn. Ai tempi della Grande depressione i miei parteggiavano per Roosevelt perché ci aveva fatto votare; mio nonno teneva il ritratto del presidente su una parete. Quando c’è stata la Seconda guerra mondiale non ero ancora nato, e il Vietnam l’ho scampato per un pelo; sono sempre stato un tipo abbastanza tranquillo; ho un pezzo di carta rilasciato da una discreta università, ho passato la vita in mezzo ai libri. Bibliotecario, curatore di archivi: ho avuto grandi onori, una volta per esempio mi hanno affidato la sistemazione della corrispondenza del presidente nella Biblioteca Lyndon Baines Johnson – non ero solo, ero uno dei tanti, non vorrei apparire più importante di quanto sia in realtà. E poi un bel giorno me ne sono andato tranquillamente in pensione.
La presidenza Trump mi aveva non solo irritato, ma era persino riuscita a mettermi ansia. Quel 6 gennaio me ne stavo davanti al televisore, e potete immaginare quale fosse il mio stato d’animo. Ricordo che i cronisti non sapevano quali parole usare: riot, insurrection, storming, anarchy, e poi il termine che in americano non esiste, coup d’état. Strano, no? Gli americani, che hanno imposto al mondo tutto il lessico moderno, avevano bisogno del francese per dire quello che a loro sembrava impossibile, e per il quale, quindi, non avevano inventato un vocabolo.
Ricordo che pensai: se non c’è la parola, allora non può essere successo. La prima immagine che mi venne in mente fu l’inizio del Dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen, uno dei più grandi geni del Novecento (ehm-ehm, sempre che si possa ancora dire…). I più vecchi se lo ricorderanno: era da rotolarsi per terra dal ridere. Si apre con il conduttore televisivo che annuncia: «Stiamo per trasmettervi in diretta un assassinio di capo di governo… Sarà ucciso il presidente di questo ameno paese dell’America Latina e immediatamente sostituito da una dittatura militare. E tutti qui sono al colmo della tensione e dell’eccitazione; ideale è il tempo in questo pomeriggio domenicale, e se ci avete seguito avrete visto vari pittoreschi tumulti, iniziati con la tradizionale bomba all’ambasciata americana, un costume antico come la città stessa, dopodiché il capo dei sindacati …], strappato da casa, è stato linciato da una folla furente …]. E ora siamo giunti al momento che abbiamo tanto atteso, la folla si fa silenziosa, il presidente sta per lasciare il suo ufficio e scendere lo scalone del palazzo, perciò ora passiamo sul terreno di gioco: a te la linea, Howard!»
E Howard, che poi era il famoso telecronista sportivo Howard Cosell: «È formidabile, Don, è formidabile. L’atmosfera è pesante, incerta, l’atmosfera dei grandi incontri; ci ricorda in un certo senso quella del marzo 1964, a Miami Beach, quando Cassius Clay si batté con Liston per la prima volta e nessuno era sicuro di come sarebbe andata …]. E… ci sembra di vedere la porta che comincia ad aprirsi… Sì, e il presidente forse sta per venire fuori…»
Ed è stato lì che mi è scattato il déjà-vu. Perché nel film il presidente esce da un palazzo che assomiglia proprio al Campidoglio, con le sue alte colonne, e si appresta a scendere una scalinata di pietra che sembra quella di Washington, quando viene ucciso – come si direbbe oggi “a favore di telecamera” –, con Howard Cosell pronto a raccogliere i suoi ultimi rantoli prima di felicitarsi con il nuovo dittatore, Emilio Molina Vargas.
Era bello, Bananas. Era bello perché ti faceva pensare che qui una cosa del genere non sarebbe mai successa. Non avevamo neanche la parola per dirlo; noi organizzavamo colpi di stato in altri paesi, non certo nel nostro.
Poi accadde che due giorni dopo, l’8 gennaio, ricevetti una telefonata.
Questo testo è un estratto del primo capitolo del nuovo libro di Enrico Deaglio, “Cose che voi umani”, pubblicato da Marsilio e in uscita il 24 giugno 2021.
- 24 giugno 2021 a Torino, alle ore 16, presso l’Oratorio di San Filippo Neri, dialogo con Francesco Guglieri nell’ambito della manifestazione Portici di carta
- 4 luglio a Vimercate (Monza Brianza), alle ore 18, presso la libreria Il Gabbiano
- 5 luglio a Sesto San Giovanni (Milano) alle ore 15.30, presso la libreria Tarantola
- 5 luglio a Milano, ore 18.30, libreria Feltrinelli Red di piazza Gae Aulenti, dialogo con Gad Lerner
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it