La legittimità del presidente maliano Ibrahim Boubacar Keïta (Ibk), giunto al potere nel 2013, non è mai stata tanto contestata. Da giugno decine di migliaia di persone sono scese tre volte in piazza a Bamako per richiedere le sue dimissioni.
L’ultima manifestazione, il 10 luglio scorso, è degenerata ed è stata seguita da due notti di violenze. Almeno undici persone sono state uccise e più di settanta ferite in scontri con le forze di sicurezza, la sede del partito presidenziale è stata saccheggiata così come le abitazioni di personaggi vicini al potere, e alcuni leader dell’opposizione che hanno invocato la disobbedienza civile sono stati fermati dalla polizia.
La tensione resta viva e da entrambe le parti si moltiplicano gli appelli alla calma. Il presidente Ibk ha proposto un governo di unità nazionale, opzione respinta dagli oppositori.
Disastro economico e sociale
I manifestanti sono guidati dal Movimento del 5 giugno-Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), una coalizione eterogenea di componenti della società civile, rappresentanti politici e religiosi, tra cui il carismatico imam Mahmoud Dicko, ex sostenitore di Ibk diventato oggi uno dei suoi più accesi critici. Tutti definiscono “caotico e predatorio” il governo del paese e denunciano un disastro economico e sociale, la corruzione dei dirigenti e la posizione assunta dalla corte costituzionale a favore delle forze di governo in occasione delle elezioni legislative di aprile.
La loro mobilitazione è inoltre motivata dalla situazione della sicurezza: dopo aver perso il controllo del nord, lo stato è completamente sopraffatto al centro, dove si verificano regolarmente attacchi e massacri commessi da gruppi armati, alcuni dei quali legati ad Al Qaeda e al gruppo Stato islamico. Secondo fonti diplomatiche sarebbe in difficoltà anche nell’area sudorientale del paese e il capo dell’opposizione Soumaïla Cissé, rapito il 25 marzo, non è stato ancora ritrovato.
Le violazioni dei diritti umani non sono mai state tanto numerose secondo i rapporti della missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione in Mali (Minusma).
Questo aumento continuo della violenza è attribuito al pessimo governo di Ibk, ma anche alla Francia, che da sette anni ha cinquemila militari nel paese, oltre a 13mila caschi blu. Lo stato francese è doppiamente criticato: è accusato di sostenere il presidente maliano e di fare il doppio gioco.
Diffusa in tutti gli ambienti, questa opinione è sostenuta con forza dal regista ed ex ministro Cheick Oumar Sissoko. Personaggio rispettato, diventato uno dei principali leader del M5-Rfp, questo intellettuale di sinistra di 74 anni ha scritto un testo in cui descrive una Francia “più che mai presente, dominatrice, arrogante”.
Cheick Oumar Sissoko afferma che “per difendere e preservare i suoi interessi lo stato francese è all’origine” del caos sulla sicurezza in cui il Mali è precipitato dal 2012. Accusa Parigi di aver stretto un patto con gruppi armati tuareg separatisti con l’obiettivo di smembrare il Mali e impadronirsi delle sue risorse, estromettendo al tempo stesso le potenze rivali, tra cui la Cina. A suo avviso, anche l’accordo di Algeri, pensato per favorire la pace e firmato dietro le pressioni della Francia nel 2015 dal governo maliano e dai gruppi armati del nord, va in questa direzione.
I maliani non hanno capito perché l’esercito francese non abbia avuto la meglio su un migliaio di jihadisti
Il regista ha intitolato il suo manoscritto L’uomo è grande solo nella pace, bisogna uccidere la guerra una frase dell’imperatore Samory Touré “che si è opposto alla dominazione coloniale”, ha sottolineato. Con la prefazione del cantante Salif Keita e la postfazione del sociologo Jean Ziegler, la sua opera ha ricevuto il sostegno di alcune organizzazioni francesi (Attac France, Afrique Europe interact, Forum civique européen) che vogliono “ricollocare nel dibattito pubblico e democratico” le voci africane che criticano “l’ambiguità” della politica francese nel Sahel.
Secondo il docente universitario ed ex ministro Issa Ndiaye, le accuse scagliate contro Parigi sono in parte il risultato di una torbida strategia militare. “Nel 2013 i maliani non hanno capito perché, nonostante fino a quel momento le cose avessero funzionato bene con le truppe francesi dell’operazione Serval, queste ultime hanno impedito all’esercito maliano di entrare nella città di Kidal, nel nord. È stato allora che si è costruito il discorso secondo cui esisterebbero delle complicità, più o meno accertate, tra la Francia e i ribelli tuareg”, analizza.
I maliani non hanno poi capito “perché l’esercito francese, nonostante fosse ben equipaggiato e avesse il sostegno degli Stati Uniti, non sia stato in grado di avere la meglio su un manipolo di jihadisti che all’epoca si stimava fossero tra i 500 e i mille”, aggiunge.
Si potrebbe supporre una collusione tra francesi e ribelli tuareg per separare dal Mali l’intero territorio del nord
Si interrogano anche sui rapporti dell’esercito francese con il Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla). Quest’alleanza di movimenti separatisti e di combattenti tuareg tornati dalla Libia ha condotto nel gennaio 2012 i primi attacchi contro le postazioni militari del nord, assieme agli islamisti di Ansar Eddine guidati da Iyad ag Ghaly.
“L’Mnla è stato sconfitto dai jihadisti del Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mujao) e si è disperso nei paesi vicini. Quando l’esercito francese ha costretto alla ritirata i jihadisti ed è entrato a Kidal, non solo ha sbarrato la strada all’esercito maliano, ma ha consentito anche all’Mnla di tornare per riformarsi e rafforzarsi”, si indigna Cheick Oumar Sissoko.
Da allora l’Mnla regna su Kidal con i suoi alleati della coalizione dei movimenti dell’Azawad (Cma). “Perché questo supporto francese all’Mnla, che si batte per la divisione del Mali?”, chiede Cheick Oumar Sissoko. Nicolas Normand, ex ambasciatore francese in Mali, ha ammesso che l’esercito francese ha sostenuto l’Mnla e che l’operazione Serval ha “impedito all’esercito maliano di liberare tutto il territorio nazionale”, descrivendolo come un “errore di valutazione”.
Pericolosa vicinanza
Cheick Oumar Sissoko dal canto suo cita le dichiarazioni di Hama ag Mahmoud, ex membro dell’Mnla ed ex ministro, secondo cui la Francia voleva “indebolire il governo maliano per obbligarlo a firmare un accordo di difesa e ottenere in seguito concessioni minerarie”.
Parigi “coltiva una pericolosa vicinanza con le ribellioni definite tuareg in Mali e in Niger sin dagli anni ottanta e novanta”, osserva Rahmane Idrissa, ricercatore di scienze politiche all’università di Leida (Paesi Bassi). “Alcuni indizi lasciano addirittura pensare che abbia gettato benzina sul fuoco. Le decisioni francesi di appoggiare l’Mnla, di trasformare Kidal in una sorta di santuario e così via possono essere legittimamente interpretate come azioni di guerra della Francia contro il Mali, tanto più che la Francia non ha mai ritenuto necessario dare spiegazioni al riguardo”.
Il politologo prosegue: “È difficile capire in modo razionale questa strategia francese. Per quanto grave possa apparire, si potrebbe supporre una collusione tra francesi e ribelli tuareg per separare dal Mali l’intero territorio del nord e porlo sotto l’autorità di questi ribelli che daranno ai primi carta bianca per il suo sfruttamento”.
Rahmane Idrissa precisa che i nigerini hanno sviluppato la stessa teoria “in occasione di precedenti ribellioni tuareg, in alcuni casi lette come un incoraggiamento da parte della Francia con l’obiettivo di avere un controllo più libero sull’uranio e su altre ricchezze che si suppone siano presenti nel nord del Niger”. Lui stesso interpreta la “simpatia per i tuareg” dei francesi come un aspetto “irrazionale” della Francia nella regione che risale all’epoca della conquista coloniale.
Il controllo del sottosuolo
Il fatto che Parigi abbia degli interessi geostrategici da difendere nel Sahel è del tutto evidente per Issa Ndiaye, anche se Parigi dichiara di essere intervenuta in Mali solo per ragioni di sicurezza, senza “mire neocoloniali, imperialiste”, senza “finalità economiche”, come ha dichiarato Emmanuel Macron alla fine del 2019. Il fatto è che secondo numerosi rapporti, il Sahel, corridoio strategico sfruttato dal crimine organizzato transnazionale, scoppia di materie prime (sale, oro, petrolio, gas, ferro, fosfato, rame, stagno, uranio, terre rare eccetera).
Si profila come “‘snodo energetico’ sempre più corteggiato dalle grandi potenze”, tra cui la Francia, spiegava nel 2010 il Club del Sahel e dell’Africa occidentale, e nel 2013 Challenges affermava che l’operazione Serval si inseriva “nella battaglia per il controllo del sottosuolo del Sahel”. “In Mali come in Niger la maggior parte dei probabili giacimenti (di gas, petrolio, uranio) si trova nel nord del paese”, sottolinea dal canto suo il senato francese nel 2016. “Alla luce di questo, la questione del controllo dello sfruttamento futuro di queste ricchezze interferisce con le questioni di sicurezza”. “Che eufemismo!”, commenta ironicamente un diplomatico.
Come Cheick Oumar Sissoko, anche Issa Ndiaye è convinto che un’applicazione dell’accordo di Algeri condurrà di fatto alla divisione del Mali. I “padrini internazionali” del paese che fanno pressione per l’attuazione dell’accordo “devono capire che la loro posizione sarà sempre più insostenibile. L’accordo non è applicabile, le riforme che indica non sono giuste”, afferma, sottolineando come dall’agenda francese sia del tutto assente il disarmo dei movimenti ribelli.
L’accordo di Algeri, che prevede in particolare un consistente trasferimento di risorse da Bamako verso le regioni del nord, il diritto ad avere voce in capitolo sullo sfruttamento del sottosuolo e il prelievo del 20 per cento dei proventi che se ne ricaveranno, l’elezione a suffragio universale di governatori regionali, “contiene i presupposti dello smembramento del Mali”, ha dichiarato un diplomatico nel 2015.
Secondo l’opposizione oggi la cosa più urgente è “fermare il processo di trasformazione del nostro stato repubblicano e democratico – già corrotto e incapace di ideare e attuare politiche di sviluppo economico e sociale – in uno stato dominato dai clan, contrario alla costituzione, e in un potere di rendita, mafioso e oligarchico”, spiega il giornalista e militante politico Nouhoum Keita. “Dovremo dunque riflettere sulla presenza degli eserciti stranieri e prendere le nostre decisioni in modo autonomo. Dobbiamo assolutamente avere il controllo politico di questa presenza armata”, insiste.
Dal canto suo Cheick Oumar Sissoko ripete: “Crediamo nella cooperazione tra Mali e Francia, legati da storia e cultura. La Francia difende i suoi interessi, ma anche lo stato maliano deve difendere i suoi. È nella natura delle cose, lo stato francese non può non capirlo”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul giornale online francese Mediapart.
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