Le difficoltà delle donne mediorientali a ottenere il diritto all’aborto
Nelle ultime settimane si è tornato a parlare molto di diritto all’aborto con la notizia che la corte suprema degli Stati Uniti potrebbe cancellare le tutele federali all’interruzione di gravidanza. Diversi giornali hanno pubblicato approfondimenti per fare il punto sulle leggi e le sentenze che tutelano questo diritto in tutto il mondo. Come si può immaginare nei paesi mediorientali sono in vigore le restrizioni più rigide e in molti la pratica è limitata ai casi in cui la vita o la salute della donna sono minacciate.
La religione islamica non ha un’unica autorità incaricata di definire le norme da seguire su questo e altri temi delicati e ci sono varie scuole di pensiero. In linea generale comunque esiste un consenso di massima intorno all’idea che la vita della donna ha la priorità su quella del feto e che l’aborto può essere consentito prima che il feto assuma un’anima, cosa che a seconda delle diverse interpretazioni avviene tra i 40 e i 120 giorni dopo il concepimento. Anche se nei vari paesi sono in vigore leggi diverse, in pratica l’accesso sicuro all’interruzione di gravidanza resta un’enorme sfida in quasi tutto il Medio Oriente. Anche nei paesi in cui in teoria il diritto è garantito spesso ci sono molti ostacoli da superare, soprattutto per le donne provenienti da contesti poveri e disagiati. Per questo ancora oggi molte donne ricorrono ad aborti illegali e pericolosi, che mettono a rischio le loro vite. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, nell’11 per cento dei casi la mortalità materna nella regione è causata da complicazioni legate a interventi clandestini.
La criminalizzazione dell’interruzione di gravidanza ha ragioni più storiche che religiose
Le norme sull’aborto in vigore in molti paesi mediorientali derivano ancora dalle legislazioni coloniali, dimostrando che la criminalizzazione dell’interruzione di gravidanza ha ragioni più storiche che religiose, come invece si tende a credere. È il caso dell’Egitto, che insieme all’Iraq è tra i sedici paesi del mondo in cui l’aborto è completamente illegale, secondo l’ong Center for reproductive rights. Gli articoli 260-264 del codice penale del 1937 sono ispirati alla cultura francese, a sua volta discendente dal diritto canonico, che considerava l’aborto al pari dell’omicidio. Ma mentre la legge francese è stata emendata molte volte da allora, quella egiziana è rimasta invariata. L’aborto quindi è proibito in qualunque caso, anche di stupro o incesto, e le persone che si sottopongono e che praticano l’interruzione di gravidanza possono essere incarcerate. Il codice etico dei medici prevede un’unica eccezione, che consente di praticare un aborto quando la vita della donna è in pericolo. Ma si tratta solo di un dovere morale, che non ha un’applicazione legale.
Anche il codice penale libanese, risalente al 1943, proibisce l’aborto con otto articoli, dal 539 al 546. Secondo l’articolo 541 una donna che si sottopone all’aborto può essere condannata a una pena tra sei mesi e tre anni di carcere. Il medico che lo esegue può essere incarcerato per un periodo da uno a tre anni, in base all’articolo 542. L’interruzione di gravidanza è consentita solo quando la salute della donna è a rischio e l’operazione dev’essere certificata da due medici, oltre a quello che la pratica. Un aborto illegale costa dai 300 ai 1.200 dollari e molte donne non possono permetterselo.
Restrizioni e aperture
In Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le leggi in materia derivano dal codice penale giordano del 1960, che criminalizza l’aborto. Tuttavia una norma approvata nel 2006 consente la pratica nei casi in cui sono in pericolo la vita e la salute della donna. La Giordania è stata il primo paese della regione a consentire nel 1971 l’interruzione di gravidanza per motivi di salute mentale. È stata seguita nel 1981 dal Kuwait, il primo paese del Golfo a riformare le sue leggi sul tema, e nel 1983 dal Qatar. Oggi anche l’Arabia Saudita prevede questa eccezione, che dev’essere ratificata da un comitato medico. Lo stesso succede in Bahrein, dove però i casi previsti sono di più: stupro, incesto, rischio di vita per la madre o il feto, problemi fisici o mentali, motivi economici o sociali. Negli Emirati Arabi Uniti invece le limitazioni sono più rigide: si può abortire solo se la vita della madre è in pericolo o se è evidente che il feto non sopravviverà. Le donne che si sottopongono all’interruzione di gravidanza rischiano un anno di carcere e una pesante sanzione.
Il ruolo centrale di un comitato medico per valutare la scelta delle donne compare anche in altri due paesi: Iran e Israele.
Le leggi iraniane sull’aborto sono state inasprite di recente. Per anni l’interruzione di gravidanza era considerata legale se tre medici concordavano che la salute della donna fosse a rischio o che il feto avesse gravi disabilità. Nel novembre 2021 questo sistema è stato sostituito da una legge finalizzata ad aumentare la popolazione del paese, che prevede un comitato composto da un giudice e due medici per approvare l’interruzione di gravidanza entro i primi quattro mesi. Inoltre la legge impone alle autorità della sicurezza di individuare gli aborti illegali e ai mezzi d’informazione di condannare l’aborto e produrre contenuti che incoraggino le donne ad avere figli. Sono anche vietate la sterilizzazione, la distribuzione di contraccettivi nel sistema sanitario pubblico, e la produzione e pubblicazione di contenuti contrari alle politiche del paese per favorire la riproduzione.
Anche in Israele l’interruzione di gravidanza deve essere autorizzata da un comitato formato da due medici e un assistente sociale. Le donne devono sottoporgli la loro richiesta prima tramite un questionario e poi durante un colloquio in presenza. In base al codice penale del 1977, l’aborto è considerato un reato tranne in alcune circostanze: se la donna ha meno di diciott’anni o più di quaranta, se il feto ha gravi malformazioni, se è a rischio la salute fisica o mentale della madre, se il concepimento è avvenuto al di fuori del matrimonio o a causa di stupro o incesto.
Molte donne hanno denunciato di aver dovuto far rientrare a forza i loro casi in una delle categorie previste. Il problema si pone in particolare per quelle sposate che spesso devono mentire dicendo di essere rimaste incinte al di fuori del matrimonio, altrimenti non avrebbero l’approvazione del comitato. Inoltre le domande che gli vengono rivolte possono essere imbarazzanti, inopportune o irrilevanti, per esempio sul motivo per cui non hanno usato metodi contraccettivi. C’è poi il fatto che i tempi di attesa perché la richiesta sia esaminata dal comitato possono allungarsi oltre la nona settimana di gravidanza, quando scade il periodo in cui si può optare per la pillola che induce l’aborto, costringendo le donne a sottoporsi a un’operazione chirurgica.
Comunque raramente le richieste sono respinte. Secondo l’ufficio centrale di statistica, nel 2020 sono state approvate nel 99 per cento dei casi e il ministero israeliano della salute ha registrato 16.430 aborti realizzati legalmente all’interno del sistema sanitario, con un calo del 5 per cento rispetto al 2019. Il picco è stato registrato a metà degli anni duemila, con ventimila aborti all’anno, poi c’è stata una diminuzione costante, mentre dal 2001 la popolazione d’Israele è aumentata di un terzo.
Nel dicembre del 2021 il ministro della salute Nitzan Horowitz – del partito Meretz, il più progressista della coalizione di governo – ha annunciato un piano per promuovere una riforma legislativa che prevede l’eliminazione del comitato per il primo trimestre della gravidanza, lasciandolo solo per i casi che riguardano i mesi successivi. Un precedente tentativo di riformare la legge era fallito nel 2015 a causa dell’opposizione del partito ultraortodosso Giudaismo unito nella Torah, che controllava il ministero della salute.
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