Nessun posto è sicuro a Gaza
Il 1 dicembre 2023 è finita la tregua tra Israele e Hamas che era entrata in vigore il 24 novembre. Le due parti si incolpano a vicenda di non aver rispettato l’accordo che era stato raggiunto grazie alla mediazione del Qatar e con il sostegno degli Stati Uniti e dell’Egitto. In sette giorni la tregua ha portato al rilascio di ottanta ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre e di 240 prigionieri palestinesi, oltre a favorire l’arrivo degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Altri ventuno ostaggi stranieri, in maggioranza tailandesi che lavoravano in Israele, sono stati rilasciati da Hamas senza contropartita. L’esercito israeliano ha subito ripreso i bombardamenti sulla Striscia di Gaza, concentrandosi sul sud del territorio, in particolare su Khan Yunis e i suoi dintorni. Dal 5 dicembre le truppe israeliane circondano la città, dove sono in corso alcuni dei combattimenti più intensi dall’inizio della guerra.
Dalla città sono fuggite molte persone, in alcuni casi per la seconda volta, dopo che avevano già abbandonato il nord del territorio palestinese dove dal 27 ottobre è in corso l’offensiva di terra israeliana. Da allora centinaia di migliaia di persone si sono ammassate nel sud della Striscia e vivono in rifugi improvvisati, nelle scuole, nelle tende, all’aperto o nelle automobili. Ma ormai non ci sono posti sicuri dove fuggire. Neanche i rifugi sono protetti: l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha fatto sapere che fino al 23 novembre almeno 191 palestinesi erano stati uccisi nei rifugi e 798 erano stati feriti. Secondo le autorità di Hamas, l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza ha causato finora la morte di 16.248 persone, più del 70 per cento delle quali donne e bambini, e 42mila feriti.
Ogni giorno l’esercito israeliano lancia dei volantini su alcuni quartieri per avvertire che un attacco è imminente e ordina agli abitanti di andarsene. Come spiega un articolo del Guardian, il volantino include un codice Qr che una volta scannerizzato indirizza le persone a una mappa pubblicata online dall’esercito israeliano, che divide la Striscia di Gaza in più di seicento blocchi numerati. Gli abitanti devono quindi identificare il blocco in cui vivono, controllare se è indicato come bersaglio e in quel caso andarsene. Questo sistema è stato usato per la prima volta il 2 dicembre, quando il portavoce dell’esercito, Avichay Adraee, ha pubblicato un ordine in cui segnalava circa venti zone da evacuare, con tre frecce arancioni puntate verso sud per indicare la direzione dove fuggire.
Il problema, chiarisce Al Jazeera, è che spesso le indicazioni sui volantini non corrispondono a quelle online, creando confusione tra gli abitanti. Inoltre, a causa della mancanza di elettricità e di connessione a internet molte persone non riescono a visualizzare la mappa. In un altro intervento su Al Jazeera, Jason Lee, direttore di Save the children per la Palestina e appena rientrato da Gaza, commenta: “Invece di garantire la sicurezza e la sopravvivenza delle famiglie, gli ordini di evacuazione di Israele gli stanno solo dando l’opzione di morire in un altro modo, da un’altra parte. Quello che ho visto e sentito quando sono stato a Gaza ha confermato la mia convinzione che lì non esiste nessuna ‘zona sicura’”.
Oltre a uccidere gli abitanti di Gaza, i bombardamenti israeliani stanno distruggendo anche i loro mezzi di sussistenza, mettendo a rischio la sicurezza alimentare di tutta la popolazione. L’ong Human rights watch ha pubblicato dei video con le immagini satellitari che mostrano la distruzione di frutteti, serre e terreni agricoli nel nord della Striscia. Gli esperti sono sempre più preoccupati anche per le conseguenze ambientali della guerra. “Dalle forniture idriche inquinate ai fumi tossici che riempiono l’aria fino agli edifici e ai corpi che bruciano, ogni aspetto della vita a Gaza è segnato da qualche tipo di inquinamento”, denuncia un approfondimento di Al Jazeera.
Gli incendi causati dai bombardamenti possono disperdere nell’ambiente sostanze tossiche e dannose, come l’amianto. Gli impianti per il trattamento delle acque reflue sono fuori uso, quelli per la raccolta dei rifiuti sono crollati o danneggiati, il sistema fognario è esploso, facendo aumentare esponenzialmente il rischio di malattie. Secondo il Norwegian refugee council, 130mila metri cubi di liquami non trattati sono scaricati ogni giorno nel mar Mediterraneo. La pioggia prevista in questo periodo non farà che peggiorare le cose.
Inoltre, tutti i conflitti comportano l’uso di grandi quantità di combustibili fossili e fanno aumentare le emissioni di anidride carbonica e altri inquinanti. Aerei, carri armati e altri mezzi di trasporto hanno bisogno di carburante e la produzione e l’impiego delle armi aumenta il rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera. Le munizioni contenenti fosforo bianco, che secondo Human rights watch Israele sta usando a Gaza e in Libano, comportano rischi immediati e a lungo termine per le persone e l’ambiente. La sostanza può contaminare il suolo, l’acqua e intossicare gli animali per molto tempo. Inoltre anche la ricostruzione causa un aumento delle emissioni: “Produrre calcestruzzo e cemento genera una grande quantità di anidride carbonica”, ha detto ad Al Jazeera Doug Weir, direttore dell’Osservatorio sui conflitti e l’ambiente, un ente di ricerca indipendente nel Regno Unito.
L’impatto dei conflitti sull’ambiente è documentato. L’8 novembre è uscito un rapporto redatto da Howard Morrison, ex giudice della Corte penale internazionale, che rivela i danni ambientali causati dalla guerra in Siria: deforestazione, fuoriuscite di petrolio, piogge acide e malattie. I paesi dov’è in corso una guerra sono anche quelli più vulnerabili al cambiamento climatico, denuncia un articolo di France24. Già prima dell’inizio del conflitto, la Striscia di Gaza doveva affrontare l’aumento delle temperature, la diminuzione delle precipitazioni, l’innalzamento del livello del mare e la crescita degli eventi atmosferici estremi. Ora tutte queste conseguenze del cambiamento climatico saranno ancora più difficili da sostenere per una popolazione sconvolta dalla violenza, esausta e affamata.
Mentre a Gaza infuria la guerra, a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, si svolge la conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici (Cop28). E l’ombra del conflitto aleggia anche tra i padiglioni dell’Expo city Dubai: il re di Giordania Abdallah II ne ha parlato nel suo intervento, legando direttamente la tragedia umanitaria ai rischi ambientali; la delegazione iraniana ha abbandonato i colloqui in segno di protesta per la presenza israeliana; il presidente israeliano Isaac Herzog ha discusso della crisi a margine degli incontri, mentre quello palestinese Abu Mazen ha cancellato la sua visita.
Per quanto riguarda la conferenza in generale, difficilmente saranno raggiunti grandi traguardi. Come sottolinea l’editor di ambiente di Internazionale, Gabriele Crescente, nella sua newsletter Pianeta: “La contraddizione è insita nella scelta di affidare l’organizzazione di un appuntamento così importante a uno dei principali paesi petroliferi, che ha in programma di espandere significativamente la sua produzione nei prossimi anni. Le perplessità sono state aggravate dalla nomina di Sultan al Jaber, amministratore della compagnia petrolifera di stato, alla presidenza dell’incontro”. A confermare ogni dubbio ci ha pensato lo stesso Al Jaber quando ha dichiarato che non c’è “nessuna scienza” che dica che l’abbandono graduale dei combustibili fossili permetterà di mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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