Dall’inizio di gennaio in Kenya una serie di femminicidi particolarmente cruenti ha sconvolto l’opinione pubblica. In due casi le donne sono state uccise in appartamenti presi in affitto su Airbnb: una di loro, Starlet Wahu, 26 anni, era famosa sui social; un’altra, Rita Waeni, era una studente di una ventina d’anni.

Sui mezzi d’informazione keniani Starlet Wahu è presentata come una socialite, una persona mondana, ricordando spesso che era la sorella di un predicatore, Victor Kanyari, già al centro di controversie perché accusato di raggiri. Per l’uccisione di Wahu la polizia ha arrestato un uomo, John Matara, che sarebbe stato visto uscire dall’appartamento in cui è stato ritrovato il corpo. Il caso di Rita Waeni ha colpito ancora di più l’immaginazione per la brutalità delle mutilazioni inferte al cadavere. La polizia ha fatto sapere di aver arrestato due uomini di nazionalità nigeriana, mentre la famiglia ha rivelato di aver ricevuto una richiesta di riscatto anche dopo che la giovane era morta.

Questi sono solo i due femminicidi che hanno fatto più parlare, ma nelle ultime settimane ne sono stati denunciati almeno altri tre. La frequenza di questi crimini è stata eccezionale e le associazioni per i diritti delle donne sono tornate in prima linea per denunciare la violenza di genere. L’iniziativa Femicide count Kenya, nata nel 2018 per tenere conto di tutti i femminicidi, ha registrato nel 2023 un record di 152 casi. Secondo un sondaggio del 2022, il 34 per cento delle keniane ha subìto violenza fisica nel corso della sua vita.

Voci e mani alzate contro la violenza
In una baraccopoli di Nairobi s’insegna alle studenti a urlare e a difendersi, anche con pugni e calci. Il metodo fa discutere, ma si è rivelato efficace

Nel passato recente ci sono già stati casi che avevano fatto scalpore. Nel 2021-2022 le maratonete Agnes Tirop e Damaris Mutua erano state uccise dai rispettivi compagni nella nota località di allenamento di Iten, svelando un mondo di violenze fisiche e psicologiche inflitte alle atlete da mariti e fidanzati possessivi. La morte di Tirop ha spinto un’altra atleta, Joan Chelimo, a reagire fondando l’associazione Tirop’s Angels, che offre aiuto alle donne che subiscono violenze. Un articolo della Zeit pubblicato su Internazionale parla invece dei corsi tenuti nelle scuole delle baraccopoli keniane da educatrici che invitano le ragazze a reagire e a urlare per difendersi dalle minacce dei maschi.

Nella società è ancora diffusa una forte misoginia e questo si vede molto bene online. Ne parla il giornale tedesco Der Spiegel in un articolo sulla uomosfera keniana, definendolo “un preoccupante trend sui social, dove dopo lo sdegno per la violenza c’è sempre un ‘ma’”, cioè un tentativo di incolpare la vittima. Ad alimentare questi discorsi, spiega il giornale, ci sono spesso persone con un grande numero di follower, degli influencer che usano i contenuti misogini e controversi come strumenti per generare traffico ed entrate pubblicitarie. Persone come Andre Kibe o Eric Amunga, detto Amerix, fomentano lo scontento dei giovani maschi, che non trovano lavoro e opportunità in un’economia zoppicante, e danno la colpa dei loro problemi all’emancipazione delle donne. Questi discorsi trovano spazio anche nelle chiese evangeliche, che promuovono dei modelli di coppia tradizionali e deprecano il femminismo.

Sul quotidiano The Star Lucy Mwangi scrive che “anche se i femminicidi sono denunciati, discussi e analizzati pubblicamente sui social media, dalle conversazioni online emergono atteggiamenti preoccupanti come gli attacchi rivolti alle vittime, la disumanizzazione e la giustificazione della violenza sulle donne. Il femminicidio non è un problema isolato, ma è il sintomo di una cultura radicata che svaluta e svilisce le donne. L’assenza di una risposta forte e unitaria dei nostri leader è altrettanto pericolosa: indica una mancanza di attenzione e di presa di coscienza della gravità della situazione. È arrivato il momento di smantellare questa cultura tossica”.

Per questo il 27 gennaio sono in programma manifestazioni di protesta nelle più grandi città del Kenya, pubblicizzate con gli hashtag #EndFemicideKe e #TotalShutdownKe, o con slogan come “Essere donna non dev’essere una condanna una morte”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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