Dal 7 aprile i ruandesi ricorderanno il genocidio di trent’anni fa con una settimana di eventi commemorativi, a partire dalla visita del presidente Paul Kagame al memoriale del genocidio di Kigali, costruito sulle fosse comuni in cui furono seppellite 250mila vittime dei massacri. Seguirà una settimana di lutto nazionale, con le bandiere a mezz’asta, processioni, trasmissioni tv dedicate essenzialmente a film sul genocidio, racconta il sito Okayafrica.

Si stima che nel genocidio dei tutsi e degli hutu moderati, durato circa cento giorni, siano state uccise tra le 800mila e il milione di persone. Ancora oggi si continuano a trovare fosse comuni che erano state ben nascoste, come quella rinvenuta lo scorso ottobre nel distretto di Huye, con dentro 119 corpi.

Mai come quest’anno il passato sembra tutt’altro che sepolto, non solo per i ruandesi, ma anche per il resto del mondo. La parola “genocidio” (cos’è, come si annuncia, come prevenirlo) è tornata al centro del dibattito pubblico. Da Gaza al Sudan, infatti, il numero delle uccisioni di massa registrate è il più alto degli ultimi vent’anni, scrive l’Economist.

Molti tornano a guardare indietro, ad analizzare ancora una volta gli errori commessi per capire perché non si siano imparate le lezioni del passato. In un articolo intitolato “Perché l’occidente si rifiutò di fermare il genocidio ruandese”, Roméo Dallaire, che nel 1994 era il comandante della missione dei caschi blu Unamir in Ruanda, torna sulle accuse che dalla prima ora aveva rivolto alle Nazioni Unite e alle potenze mondiali. Sul magazine canadese The Walrus scrive che “per la maggior parte degli osservatori esterni, l’Africa era teatro di crisi sociali ed economiche generalizzate, accentuate da carestie, guerre civili e atrocità di massa. I paesi occidentali consideravano l’Africa un continente da compatire, non una fonte di potenziale; di certo non era una priorità”. Difficile sostenere che oggi l’Africa sia vista in modo molto diverso.

Dallaire bacchetta anche l’incapacità dell’Onu di intervenire. Solo dopo sei settimane e cinquecentomila morti, il consiglio di sicurezza approvò l’invio di cinquemila caschi blu di rinforzo per fermare quello che si era deciso a considerare un genocidio. Ma le prime truppe misero piede in Ruanda solo ad agosto, dopo la fine dei massacri.

Inoltre, anche allora la comunità internazionale dimostrò di applicare due pesi e due misure a seconda del colore della pelle delle vittime, sostiene Dallaire, secondo il quale ci si mobilitò con più decisione per l’ex Jugoslavia che per il Ruanda, dove “furono stuprate, uccise e sfollate più persone in tre mesi che in quattro anni di guerra in Bosnia”.

“Un genocidio dovrebbe essere importante. Dovremmo preoccuparci. Ma nessuna nazione volle investire le risorse per fermare il bagno di sangue. A quanto pare, alcuni esseri umani non sono degni delle protezioni offerte dalle convenzioni sui diritti umani elaborate dai paesi ricchi, che invece dovrebbero essere applicate universalmente”, conclude Dallaire.

La parola “genocidio” appare molte volte anche nelle lettere, negli appelli e negli articoli scritti in quegli anni dalla ricercatrice e attivista statunitense Alison De Forges, che era la referente dell’ong Human rights watch in Africa. De Forges era in contatto costante con persone sul campo in Ruanda e cercò di far capire al resto del mondo che si stava preparando un disastro.

Di recente l’organizzazione in difesa dei diritti umani ha pubblicato un archivio di materiali sul genocidio in Ruanda, molti dei quali raccolti e prodotti dalla ricercatrice. Hrw insiste sul tema della responsabilità e della giustizia: “Il trentesimo anniversario del genocidio ruandese è il momento opportuno per fare il punto sui progressi compiuti, a livello sia nazionale sia internazionale, nel chiamare a rispondere le persone sospettate di aver pianificato, ordinato ed eseguito le atrocità. È urgente accelerare questi sforzi visto che alcune delle menti dietro il genocidio non ci sono più e uno – Félicien Kabuga, finanziatore della famigerata radio Mille Collines – è stato dichiarato non idoneo a sostenere un processo”.

C’è infine un altro motivo per cui non possiamo considerare storia passata il genocidio del Ruanda: quell’evento ha innescato un conflitto enorme che continua ancora oggi nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Secondo il ricercatore Christoph Vogel, questa crisi “sta entrando nel quarto e forse più pericoloso decennio, con il forte rischio di un’escalation regionale.

Il conflitto, che attualmente coinvolge un centinaio di gruppi armati diversi, ha causato milioni di morti e sfollati nel corso degli anni. Dal 2021 è entrato in una nuova fase, segnata dal ritorno dei ribelli del Movimento 23 marzo (M23, che secondo il governo congolese e alcuni rapporti dell’Onu sono sostenuti da Kigali). Compagnie di sicurezza private e stati confinanti si sono uniti alla mischia e la vasta gamma di combattenti si è divisa su due fronti ben definiti: uno allineato con Kinshasa, l’altro con l’M23. La situazione deteriora di giorno in giorno e le prospettive di pace sono più lontane che mai”.

Questo testo è tratto della newsletter Africana.

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