Lunedì 15 aprile 2024, nel primo anniversario dall’inizio della guerra in Sudan, è stata convocata a Parigi una conferenza internazionale organizzata da Francia, Germania e Unione europea per discutere della crisi umanitaria. In vista dell’incontro molte agenzie umanitarie e ong hanno moltiplicato gli appelli a fare tutto il possibile per migliorare l’accesso degli aiuti, proteggere i bambini e scongiurare una carestia.

Il 15 aprile 2023 sono scoppiati a Khartoum i primi scontri tra l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al Buhran e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) comandate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti. Tra le due parti – inizialmente alleate nel golpe che aveva interrotto la transizione verso la democrazia, dopo la caduta del regime di Omar al Bashir – si era creata una frattura causata dalla lotta per il potere. I violenti combattimenti si sono poi diffusi al resto del paese, in particolare nella regione del Darfur, che vent’anni fa era stata teatro di un conflitto su base etnica, che vedeva coinvolti i miliziani arabi janjawid (alleati del governo di Khartoum) contro le popolazioni nere. Le Rsf di oggi sono considerate un’emanazione dei janjawid.

Negli ultimi mesi i combattimenti hanno colpito duramente le classi medie urbane sudanesi, formate da professionisti e studenti. Le persone che hanno dovuto abbandonare le loro case sono stati 8,5 milioni, su una popolazione di 47 milioni. Tra questi 1,8 milioni sono fuggiti all’estero, in particolare in Sud Sudan (che ha visto arrivare da nord 640mila persone); in Ciad, che con più di mezzo milione di sudanesi ha assistito al più imponente arrivo di profughi della sua storia; in Egitto (450mila persone); in Etiopia (più di 50mila persone); in Uganda (30mila persone) e perfino in aree remote della Repubblica Centrafricana (2.200 persone). Secondo i dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal 2023 è aumentato di sei volte anche il numero di profughi sudanesi che sbarcano in Europa.

Le stime sulle vittime della guerra sono molto più incerte. Il progetto Armed conflict location & event data (Acled) calcola che in un anno di guerra siano morte 14.800 persone, ma un rapporto delle Nazioni Unite dello scorso gennaio parla di almeno diecimila persone uccise in una sola città del Darfur, El Geneina.

Per chi rimane la vita quotidiana è segnata dalla fame, dall’insicurezza estrema, dall’interruzione dei servizi di base, dalla minaccia di violenze e stupri.

Dove si concentrano i combattimenti?

Negli ultimi tempi i mezzi d’informazione internazionali hanno dato notizia dei primi attacchi con i droni nello stato di Al Gadaref, nell’est, una regione prevalentemente agricola in mano all’esercito, che finora era stata risparmiata dalla guerra. Per questo ospitava quasi mezzo milione di sfollati provenienti da altre parti del paese.

Le forze di Al Buhran dominano il nord e l’est del paese, in particolare i porti sul mar Rosso come Port Sudan, la città dove si è trasferito quel che resta del governo e dove arrivano gli aiuti portati dalle Nazioni Unite. Da gennaio l’esercito ha lanciato un’offensiva intorno alla capitale per strapparla alle Rsf, che controllano anche lo stato di Gezira (centrosud) e buona parte delle regioni del Darfur e del Kordofan (ovest). In queste zone i civili sono spesso vittime di attacchi. Nell’area di Gezira, riporta il sito sudanese Ayin, la popolazione corre il rischio della carestia, nonostante sia un territorio a vocazione agricola, perché le Rsf hanno impedito ai contadini di lavorare nei campi e hanno saccheggiato i raccolti.

Chi aiuta chi?

Le recenti conquiste dell’esercito sudanese sono attribuibili alla disponibilità di droni iraniani, spiega l’agenzia Reuters. Secondo alcune fonti sul campo, i droni sono usati per sorvegliare i movimenti delle Rsf, prendere di mira le loro posizioni e attaccarle con l’artiglieria a Omdurman, la città che sorge di fronte a Khartoum sul lato opposto del fiume Nilo. Il sostegno di Teheran al Sudan non è confermato da dichiarazioni ufficiali, ma alcuni analisti ipotizzano che l’Iran stia cercando di approfondire i rapporti con un paese che gode di una posizione strategica sul mar Rosso.

Mentre la comunità internazionale latita (il giornalista Fred Oluoch scrive su The East African che in un anno il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato una sola risoluzione sul Sudan), altri paesi sono coinvolti in vari modi nel conflitto. Gli Emirati Arabi Uniti sono stati spesso accusati da Al Buhran di aver contrabbandato armi nel paese a vantaggio delle Rsf. Il paese del Golfo avrebbe grandi interessi economici in Sudan, come l’estrazione dell’oro da giacimenti che si trovano nei territori controllati dai paramilitari. Anche Ciad e Repubblica Centrafricana sono considerati alleati delle Rsf; mentre l’Egitto, governato dal maresciallo Abdel Fattah al Sisi, sostiene Al Buhran, che come il presidente egiziano è un esponente dell’esercito.

Il Sud Sudan è stato spesso visto come il paese nella posizione migliore per fare da mediatore, poiché può esercitare una certa influenza su entrambe le parti. Al momento, però, subisce anche i danni del conflitto: la sua economia rischia di crollare se non torna in funzione l’oleodotto che attraversa il Sudan e serve per esportare il petrolio prodotto in Sud Sudan (il 90 per cento delle entrate del governo di Juba deriva dalla vendita di greggio).

Oggi le principali speranze su una mediazione sono affidate all’organizzazione regionale Intergovernmental authority on development (Igad), che il 26 marzo ha nominato un nuovo inviato speciale per il Sudan, l’avvocato sudsudanese Lawrence Korbandy. E potenze come gli Stati Uniti fanno pressioni per la ripresa dei colloqui ora che è finito il mese sacro di Ramadan.

A un anno dall’inizio dei combattimenti, la pace sembra ancora tutta da costruire. Soprattutto finché ci sono delle parti che traggono profitto dalla guerra.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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