A un mese dalla presentazione del nuovo governo in Senegal sono usciti vari articoli di femministe senegalesi che criticano la scarsa presenza di ministre nel nuovo esecutivo. Pubblicata a inizio aprile, la foto della squadra guidata dal primo ministro Ousmane Sonko mostra uno stuolo di uomini in completo giacca e pantaloni blu, tra cui spiccano quattro figure in abito lungo tradizionale di colori più chiari. Dei venticinque ministeri e sottosegretariati solo quattro sono stati affidati a donne, in un paese dove queste ultime costituiscono il 49,4 per cento della popolazione. L’economista Yacine Fall è diventata la ministra dell’integrazione africana e degli affari esteri; Fatou Diouf quella della pesca; Maimouna Dieye quella della famiglia e della solidarietà; Khady Diène Gaye quella della gioventù e dello sport.

Ha fatto discutere anche la decisione di trasformare il ministero delle donne in un nuovo dicastero “della famiglia e della solidarietà”. Se già sotto la presidenza di Macky Sall la rappresentanza femminile era scarsa (il 18 per cento), sotto il neoletto Bassirou Diomaye Faye è scesa al 13,3 per cento. Non un grande segno di rottura con il passato, certamente non quella che si aspettavano le sostenitrici del partito Pastef, il cui candidato si è imposto alle elezioni del 24 marzo.

Questi annunci hanno suscitato le proteste delle femministe senegalesi, che il 4 maggio hanno pubblicato un manifesto per rivendicare una maggiore rappresentanza femminile nelle istituzioni.

“La rottura sarebbe stata un governo rappresentativo e inclusivo rispetto alle donne”, scrive la commentatrice Aminata Dia sul sito Seneplus. “Invece l’esecutivo cristalizza un sistema patriarcale già ben radicato”.

Come fa notare su Africa is a Country Marame Gueye, che insegna letteratura africana alla East Carolina university, negli Stati Uniti, “la composizione del governo e la scomparsa del ministero delle donne potrebbero far pensare a una possibile regressione dei diritti delle donne, una tendenza che si sta diffondendo in tutta la regione”.

Strumentalizzate

L’anno scorso il leader del Pastef, Ousmane Sonko, era finito sotto processo per le accuse di stupro e minacce di morte mosse contro di lui da Adji Sarr, una giovane dipendente di un centro estetico di Dakar. Molti avevano visto nel processo un tentativo dell’allora presidente Macky Sall di usare la denuncia per eliminare un temibile avversario politico. I giudici hanno stabilito che Sonko non era colpevole di stupro e minacce di morte, ma l’hanno condannato a due anni di carcere per “corruzione della gioventù”, dal momento che Adji Sarr al momento dei fatti non aveva ancora ventun anni. All’annuncio del verdetto nel paese sono scoppiate violente proteste contro il presidente Sall, che hanno portato ad almeno venti morti e cinquecento arresti.

Oggi la situazione è totalmente cambiata: Bassirou Diomaye Faye è presidente e Sonko è il capo di un nuovo governo a cui i senegalesi e le senegalesi hanno affidato le loro speranze di cambiamento. Sonko era potuto uscire dal carcere grazie a un’amnistia approvata poco prima delle elezioni per calmare l’atmosfera, infuocata dopo la decisione del presidente Sall di rinviare il voto a dicembre (anche Diomaye Faye, a sua volta in carcere con altre accuse, aveva beneficiato del provvedimento).

Come previsto dal programma ispirato a un panafricanismo di sinistra con cui il Pastef si è presentato alle elezioni, il nuovo governo si sta concentrando su temi come la lotta alla corruzione e le riforme economiche. Di fronte a queste enormi sfide, agli occhi di alcuni senegalesi la parità di genere nelle alte sfere del potere può sembrare meno urgente. Tuttavia, ribatte la commentatrice Aminata Dia, “la posta in gioco non è solo dare incarichi alle donne, ma capire che nessun cambiamento sistemico può avvenire senza una leadership inclusiva”.

Le fa eco la ricercatrice Fatoumata Bernadette Sonko: “La rottura promossa dal governo, che mette l’accento sul benessere collettivo, comincia all’interno della famiglia. Per ottenere quest’obiettivo, le donne devono essere al centro del projet”, cioè del programma politico del Pastef.

A quello sulla rappresentanza politica si è presto affiancato un secondo dibattito: quello sulla poligamia. Per la prima volta il Senegal ha un presidente con due mogli. Sonko ne ha tre. Nel paese a maggioranza musulmana la poligamia è molto radicata, a volte anche tra le famiglie cristiane. Si calcola che più di un terzo dei matrimoni sia poligamo. Su X la sociologa e femminista senegalese Fatou Sow Sarr ha difeso questa forma di matrimonio come “parte della cultura tradizionale”, che ritiene “in competizione” con i matrimoni omosessuali.

In realtà in Senegal ci sono anche voci molto critiche verso la poligamia. Il fenomeno, secondo Marame Gueye, è tornato di moda in tempi recenti, visto che queste unioni sono molto più diffuse oggi di quanto lo fossero quarant’anni fa (negli anni settanta erano circa il 17 per cento). Secondo Gueye, “sono il segno di una mascolinità patriarcale”. La poligamia, nota la studiosa, a molte donne viene presentata come la necessaria conseguenza di uno squilibrio demografico tra uomini (pochi) e donne, cosa che non corrisponde alla realtà. La poligamia è piuttosto uno strumento che gli uomini usano per imporre la loro volontà. Inoltre, secondo le statistiche, non è economicamente vantaggiosa: il 47 per cento delle famiglie poligame vive in povertà, contro il 36 per cento di quelle monogame.

“Le donne della mia generazione scelgono la poligamia perché vogliono evitare lo stigma del nubilato”, spiega Awa Seck su Seneplus. “È triste vedere tante donne ben istruite, che non hanno bisogno di essere sostenute economicamente da un marito, ma che scelgono la poligamia a causa delle pressioni sociali”. Come fa notare Déguène Elisabetta MBow, ingegnera italosenegalese che vive e lavora a Dakar, anche all’interno di un matrimonio monogamo “le donne possono subire violenze equivalenti o peggiori della poligamia: non è il modello di matrimonio che è violento, ma l’uso che se ne fa”. Secondo lei, il vero problema – oltre alla legge discriminatoria che legalizza la poliginia ma non la poliandria (alle donne infatti non è permesso avere più mariti) – è l’idea che viene inculcata alle bambine fin da piccole per cui per una donna “il matrimonio dev’essere sempre un punto di arrivo, uno status da mantenere anche a costo di essere discriminata”.

Le femministe denunciano da anni la condizione delle mogli che condividono lo stesso marito. L’attivista e politica Awa Thiam, ricorda Seck, fu la prima negli anni settanta a parlare della poligamia come oppressione, invitando le donne ad abolirla, con “una lotta continua e accanita”.

Gli uomini, conclude Seck, fanno bene ad avere paura di mettere le donne in posizioni di potere.

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Questo testo è una versione espansa e aggiornata di quello uscito sulla newsletter Africana.

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