Il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha annunciato che “vi sarà una riforma per garantire il tempo pieno su tutto il territorio nazionale che possa dare effettiva possibilità alle famiglie – e soprattutto alle donne – di inserirsi nel mercato del lavoro”. La proposta di ampliare il tempo pieno nella scuola primaria e secondaria di primo grado è giusta e potrebbe rappresentare un investimento di grande importanza, da sostenere con convinzione in queste settimane in cui si decidono le priorità riguardo al cosiddetto recovery fund. Credo tuttavia che la motivazione addotta sia parziale e dunque sbagliata per almeno due motivi: perché non vi è alcun automatismo tra disponibilità di tempo e possibilità di occupazione e perché non mette al centro la questione educativa. Ancora una volta si guarda alla scuola pensando ai genitori piuttosto che ai figli.
Si ripete così l’errore compiuto esattamente cinquant’anni fa, quando l’orario delle elementari e delle medie nelle zone industriali e nelle città più attente alla promozione educativa passò da 24 a 40 ore settimanali. Fu una vera rivoluzione, prevista già dal 1962 con l’introduzione della scuola media unica, che non è mai riuscita a estendersi a tutto il territorio nazionale per la maledizione italiana di lasciare le riforme a metà.
Nel 1971 fu introdotto il tempo pieno, ma dipendeva dalla richiesta e dalla discrezione delle scuole, non lo si propose come bisogno formativo generalizzato. E naturalmente le scuole che lo adottarono furono soprattutto quelle delle città e regioni dov’era più diffusa l’occupazione femminile.
Il vero nodo
Viviamo in una società complessa in cui tutto è collegato, ma è assai diverso proporre di aumentare il tempo scuola per contrastare in modo radicale la crescita delle povertà educative o per facilitare la vita lavorativa di entrambi i genitori. Motivare la necessità di prolungare il tempo scuola solo per permettere alle mamme di lavorare si presta a un’obiezione che va affrontata alla radice: quella che imputa l’assenza del tempo pieno nella maggioranza delle scuole alla mancata richiesta da parte delle famiglie.
Il nodo è sempre quello, riemerso potentemente nel tempo della didattica a distanza: vogliamo più scuola perché crediamo nel ruolo essenziale che gioca l’istruzione pubblica nella crescita culturale, sociale e dunque anche economica del paese, o pensiamo di aumentare il tempo scuola solo per andare incontro all’organizzazione lavorativa dei genitori?
Le due cose non sono in contraddizione, certo, ma se non restituiamo la priorità che merita al drammatico bisogno di istruzione nel nostro paese, nessuna riforma troverà la forza di imporsi su ignoranze, pigrizie mentali e scarsa assunzione di responsabilità politica verso il più grave ostacolo nella costruzione di un futuro socialmente più equo ed ecologicamente meno distruttivo.
Disuguaglianze
Oggi in Italia due terzi delle ragazze e dei ragazzi che frequentano la scuola di base sono esclusi del tempo pieno e l’aspetto più grave è che questa riduzione d’orario è concentrata nelle regioni dove la dispersione scolastica arriva a percentuali spaventose che superano il 30 per cento.
Un bambino lombardo può contare su 40 ore di scuola settimanali, mentre in Sicilia il 92,8 per cento degli alunni deve accontentarsi di sole 27 ore, che in rari casi diventano 30.
È prevedibile che ci saranno molte resistenze a un’estensione del tempo pieno da parte di numerose famiglie, di regioni, di comuni a cui spetta l’organizzazione delle mense, e delle stesse scuole che potrebbero ostacolare il processo in nome di una autonomia male intesa. Poiché penso, invece, che il tempo pieno dovrebbe essere generalizzato e obbligatorio come non lo fu cinquant’anni fa, elenco sette buone ragioni per impegnarci e lottare a suo favore.
1. La scuola è più democratica delle case
Durante la clausura forzata dovuta alla pandemia è emerso in modo evidente quanto le case siano più ingiuste della scuola perché marcano disparità che spesso portano alla discriminazione.
Più tempo bambine e bambini possono trascorrere in luoghi pubblici ricchi di stimoli e proposte, più tempo ragazze e ragazzi hanno modo di studiare, ricercare insieme e confrontarsi in un corpo a corpo vivace con la cultura, più libertà di scelta avranno nel costruire in autonomia e libertà il proprio futuro.
2. Abolire i compiti a casa
Avere più tempo a disposizione a scuola limita drasticamente l’assurdità di riempire bambini e ragazzi, fin dalle prime classi, di compiti a casa che spesso costringono i genitori (quasi sempre le donne) a un impegno e a una funzione non loro, che spesso crea dissapori e appesantisce le relazione familiari, che dovrebbero fondarsi sulla libera condivisione di giochi e interessi nell’informalità dello scambio reciproco di conoscenze e desideri, lontano da obblighi esterni.
3. Le mense
Godere di un pasto comune, che dovrebbe essere totalmente gratuito per chi ne ha bisogno, va incontro alle esigenze delle centinaia di migliaia di minori che, sempre più numerosi, si trovano a vivere in condizioni di povertà assoluta.
Le mense, che sono a pieno titolo anche un momento formativo, nel divenire obbligatorie ed estendersi a tutte le classi dovrebbero essere ripensate alla radice. Creerebbero occupazione e potrebbero sostenere il passaggio a un’economia più sostenibile fondata sulla prossimità, incentivando un’alimentazione capace di valorizzare i prodotti locali e abituando i più piccoli a una maggiore differenziazione alimentare e a una relazione qualitativamente migliore con il cibo necessaria in un paese in cui sempre più adolescenti si dibattono tra anoressia e obesità.
4. L’intreccio tra educazione formale e informale
Nelle scuole aperte mattina e pomeriggio (e magari anche la sera e nei fine settimana) si potrebbero realizzare più intrecci e scambi tra apprendimenti formali e informali, contando anche su collaborazioni con operatori del terzo settore e del volontariato sociale.
Non si tratta solo di allungare il tempo scuola, ma di ripensare con flessibilità e intelligenza l’intera offerta formativa di una scuola aperta al territorio. Si potrebbero introdurre, infatti, accanto allo studio e alla ricerca intorno a saperi di base imprescindibili, proposte varie, anche opzionali, che valorizzino la conoscenza di sé e del mondo attraverso attività espressive come la musica, le arti plastiche, il teatro e la produzione di video, alimentando l’aspetto culturale e di ricerca di linguaggi largamente praticati dai più giovani in modo.
5. Ripensare la scuola secondaria di primo grado
A differenza della scuola primaria, dove il tempo pieno raggiunge il 42 per cento di bambine e bambini, nella scuola media il tempo prolungato, che può andare da 36 a 40 ore settimanali, riguarda solo il 13 per cento di studenti.
La scuola secondaria di primo grado è da decenni l’anello più fragile del percorso formativo. Personalmente mi fa disperare vedere bambine e bambini arrivare in prima elementare pieni di desiderio di imparare, e osservare la disaffezione di troppe ragazze e ragazzi, che frequentano stancamente gli ultimi anni delle medie.
La crescita dell’alienazione riguardo allo studio e al desiderio di cultura dovrebbe interrogare profondamente noi insegnanti sul modo in cui proponiamo ai preadolescenti l’incontro con le conoscenze nella scuola. La mia impressione è che troppo spesso le diverse discipline sono insegnate tutte allo stesso modo. Si legge un capitolo o si ascolta una lezione, la si memorizza, e poi c’è una verifica o un’interrogazione che certifica quanto ciascuno ha appreso di quel contenuto.
Raramente si incontra la geografia come esplorazione dello spazio – e dunque uscita dalla scuola e osservazione di ciò che c’è intorno –, e disegno e realizzazione di mappe. Non capita spesso che la storia sia organizzata come una raccolta di documenti da rendere vivi con comparazioni e dialoghi; o che la geometria sia insegnata come confronto e discussioni a partire dall’osservare il mondo con gli occhi della mente; oppure che la letteratura sia affrontata come un intreccio vitale tra parola scritta e parola detta, da animare con letture ad alta voce e tanto teatro.
Più si differenziano le proposte e meno studenti si perdono. Più si è capaci di coinvolgerli a partire dalle loro domande e inquietudini, e più porte si aprono al futuro, arricchendo l’immaginario dei più giovani. Ma per attivare questi processi è necessario disporre di tanto tempo per offrire con cura la bellezza e le conoscenze sedimentate nel passato, per realizzare esperienze diverse fondate sul dialogo, in cui ragazze e ragazzi si sentano protagonisti dei percorsi di esplorazione e di ricerca. Solo in un contesto di ascolto capace di moltiplicare gli stimoli è infatti possibile sviluppare il rigore e l’impegno necessario a ogni vero apprendimento, e contrastare sul nascere la dispersione scolastica.
6. Scuola e città
La scuola ha bisogno di aprirsi alla città e la città si avvantaggia enormemente quando la scuola diviene un luogo attivo di ricerca, capace di partecipare attivamente e stimolare la creazione di frammenti e fermenti di comunità educanti. Anche se in modo strumentale per via del covid, la scorsa estate la proposta di stipulare Patti educativi di comunità per sostenere le scuole ha trovato conferma persino nei documenti del Ministero dell’Istruzione.
Sono decenni che si parla di allungare gli orari delle scuole, ma troppo poco finora si è fatto per attuare e generalizzare questo proposito. Rimettere all’ordine del giorno il tempo pieno potrebbe finalmente permettere di affrontare le questioni normative riguardo alla sicurezza, alla responsabilità e ai costi da sostenere in collaborazione con i comuni, per rendere finalmente le scuole luoghi di incontro e di creazione culturale aperti alle collaborazioni più diverse.
7. Abitare i luoghi educativi
Il prolungamento del tempo a scuola, infine, comportando la costruzione di mense e possibilmente di cucine in ogni istituto, pretende un ripensamento e una nuova progettazione degli spazi, per adattarli a un uso molteplice. Comporta dunque una gran quantità di interventi di edilizia scolastica, necessari e urgenti in un paese dove il 58 per cento dei fabbricati è ancora privo di agibilità. L’adeguamento e la riprogettazione dei luoghi dell’educare e degli spazi che circondano le scuole – curando o creando zone pedonali e di verde pubblico –, potrebbe e dovrebbe prevedere una partecipazione attiva di bambine e bambini, di ragazze e di ragazzi, e dell’intero corpo docente, perché noi insegnanti abbiamo molto da imparare sui nuovi modi di abitare gli spazi educativi.
“Più parlo e più trovo le parole”
Le riforme, sempre difficili nel nostro paese, riescono solo quando c’è una spinta convergente dal basso e dall’alto. Quando buone leggi interpretano esigenze necessarie, dando fiato e vigore a pratiche che hanno teste e gambe su cui camminare. Nel 1971 l’introduzione del tempo pieno poté contare su una forte spinta di maestre e maestri molto motivati, che stavano praticando e diffondendo nella scuola di base i princìpi della scuola attiva.
A Torino, per esempio, numerose maestre e maestri del Movimento di cooperazione educativa anticiparono di un anno il tempo pieno in sei scuole della periferia operaia. Raccontando l’incontro con uno dei maestri pionieri del tempo pieno, un ragazzo immigrato dalla Puglia e bocciato più volte perché non comprendeva l’italiano, disse: “Qui mi trovo bene perché più parlo e più trovo le parole”.
Il 12 per cento di chi frequenta oggi la scuola media ha genitori immigrati di ogni parte del mondo, e ha altrettanto bisogno di avere tempo, tanto tempo, per praticare il dialogo, trovare le parole e affinare il linguaggio. Il 5,6 per cento è composto da alunni affetti da disturbi specifici dell’apprendimento dovuti a diverse ragioni, mentre le ragazze e i ragazzi con disabilità sono saliti da 3,9 a 4,25 per cento nel 2019.
I dati raccolti negli ultimi anni confermano che circa un terzo degli studenti che escono dalla scuola media non sono in grado di comprendere un testo perché imprigionati in uno sterile analfabetismo funzionale.
Sono profondamente convinto che classi disomogenee possano migliorare le competenze sociali e aiutare l’apprendimento di tutti. A condizione che si abbia il tempo per metterci tutti a ricercare e cominciare sperimentazioni all’altezza delle grandi sfide educative che ci affida questo nostro tempo pieno di trasformazioni attese e inattese.
Ecco perché vale la pena battersi per un’introduzione obbligatoria e generalizzata del tempo pieno dai tre ai quattordici anni, perché questa scelta potrebbe rivelarsi tra le più efficaci riguardo al recovery fund che, non dimentichiamolo mai, ha il nome di “next generation EU”, e dunque va usato in primo luogo per risarcire i nostri figli e nipoti su cui stiamo rovesciando un debito pubblico di enormi proporzioni.
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