Qualche giorno fa mi è stato chiesto di consultare la mia “sfera di cristallo” per dire come sarebbe andata a finire la vicenda nordcoreana: ci sarà la guerra? E atomica per di più? Ho dunque interpretato la mia personalissima boccia vetrata, che in realtà è umana nonché anonima, e ho appreso con soddisfazione che anche lei è giunta alla mia stessa conclusione scolpita nel marmo: non-lo-so.

Certo, la sensazione è che Donald Trump abbia bluffato. Quando il 15 aprile il mondo guardava con nervosismo alla Corea del Nord, dove si teneva la grande parata militare per celebrare il compleanno del fondatore della nazione – Kim Il-sung – e i mezzi d’informazione speculavano su un possibile attacco preventivo degli Stati Uniti, la portaerei Carl Vinson e la “armada” al seguito si trovavano più di tremila miglia a sudovest di Pyongyang e dintorni. Pericolo scampato? Chissà.

Io e la mia sfera siamo infatti concordi nel rimpiangere i bei tempi della prevedibile imprevedibilità di Kim Jong-un, il quale tutto sommato lancia missili e fa esperimenti nucleari con intelligibile razionalità; ora si è aggiunta la variabile impazzita “The Donald”. Quindi aspettiamo, prima di trarre le conclusioni. Il dossier è sempre aperto.

Labbra e denti nuovi
Quello di cui sono piuttosto sicuro, invece, è che buona parte dei cinesi non ne può più di quel vicino scomodo chiamato Corea del Nord. Si tratta soprattutto delle generazioni nate negli anni settanta, ottanta e novanta – cresciute in una Cina moderna, cosmopolita, aperta sul mondo – che non hanno memoria della guerra da “paesi fratelli” degli anni cinquanta e tanto meno della famosa frase di Mao, che con anatomica precisione aveva definito i comunisti cinesi e coreani “vicini come le labbra e i denti”. “Quelli sono pazzi”, ha tagliato corto un’amica qualche tempo fa, riferendosi ai nordcoreani, non so se nella parte di labbro o di dente.

Al livello istituzionale, un tale sentimento è stato reso esplicito da Shen Zhihua, il più famoso storico cinese sulla guerra di Corea. Come riporta il New York Times, durante una recente conferenza Shen, 67 anni, è andato giù pesante: “Considerando la situazione attuale, la Corea del Nord è un nemico latente della Cina mentre la Corea del Sud potrebbe essere amica della Cina”, ha dichiarato Shen, secondo una trascrizione della conferenza pubblicata online. “Dobbiamo comprendere che la Cina e la Corea del Nord non sono più fratelli in armi e nel breve termine non c’è possibilità di miglioramento nei loro rapporti”. Ha pronunciato l’indicibile, lui, massima autorità in materia.

Ma anche i più compassati mezzi d’informazione governativi cominciano a mostrare impazienza. Di fronte alla possibilità che il giovane Kim decida un nuovo test nucleare, il Global Times – costola ultranazionalista del Quotidiano del Popolo – ha di recente pubblicato un seccatissimo editoriale sostenendo che Pechino avrebbe dovuto aumentare le sanzioni economiche contro Pyongyang.

Ma più che in termini di opinione pubblica che discute freddamento del dossier nordcoreano, credo che si debba pensare ai cinesi come a una moltitudine decisa a cogliere il meglio da qualsiasi situazione. E il governo cinese plasma le sue politiche su questo dato di fatto.

Nel 2009, con il padre dell’attuale Kim al potere in Corea del Nord, passai qualche giorno a Dandong, la città cinese sul confine nordcoreano che in questi giorni è percorsa dai giornalisti di tutto il mondo in attesa di un ipotetico conflitto e dei profughi che in tal caso cercherebbero di fuggire dalla Corea del Nord.

Da un misto di turismo della tensione e contrabbando, i cinesi di Dandong traevano il proprio reddito

Allora, come oggi, si trattava di una città in piena espansione, dove migliaia di persone si riversavano ogni sera sulla passeggiata lungo il fiume Yalu – quello che divide la Cina e la Corea del Nord – a giocare, mangiare, ballare, cantare, fare casino.

Parallelamente, decine e decine di attività economiche basate sul “vicino scomodo” davano impulso all’economia locale: dalle agenzie di viaggi specializzate nel tour nordcoreano, ai fotografi che ti immortalavano in abiti tradizionali coreani sul moncherino del ponte bombardato dagli americani durante la guerra degli anni cinquanta; dai ristoranti nordcoreani, alle mille attività transfrontaliere, lecite e illecite, proprio come succedeva fino a pochi anni fa con gli “sfrosadori” del lago di Como.

Da un misto di “turismo della tensione” e contrabbando, i cinesi di Dandong traevano il proprio reddito. E alla sera, sbattevano in faccia ai dirimpettai, che vivevano sulla sponda buia del fiume Yalu, la loro ruspante gioia di vivere.

La stessa strada della Cina
Così, immagino, la leadership cinese pensa alla lenta transizione della Corea del Nord: un quotidiano assorbimento di un’immagine viva, quella dei benefici materiali al di là del fiume. Senza le rischiose fughe in avanti volute dai cowboy venuti da lontano. Ci vorrà magari un’altra generazione, forse non succederà mai, ma per loro è l’unica strada. Perché è stata la strada della Cina stessa.

In quei giorni, con il pretesto di visitare un pezzo di grande muraglia di epoca Ming, a cinquanta chilometri da Dandong si accedeva al punto in cui il fiume Yalu è largo solo una decina di metri. Barcaioli cinesi ti portavano fino alla rete metallica che segnava il confine con la Corea del Nord, così provavi il brivido di buttare un occhio dall’altra parte.

La mia barca si avvicinò troppo, un soldato nordcoreano sbucò da dietro un terrapieno e cominciò a prenderci a sassate. Mentre le pietre fortunatamente cadevano in acqua intorno a noi, il mio barcaiolo fece una rapida virata e mi gridò dietro di smetterla di fotografare in quella direzione, che fotografassi invece la grande muraglia Ming, che diamine.

E certo, come no, eravamo lì tutti per fotografare la grande muraglia. Si fa e non si dice, sul confine tra Cina e Corea del Nord.

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