Nel giugno del 2016, sul settimanale pechinese Sanlian Shenghuo, uscì un articolo che raccontava la triste parabola del mastino tibetano, il cane molossoide, quasi mitico per stazza e ferocia, descritto da cronisti e viaggiatori fin dall’antichità. Già frutto di incroci e selezioni naturali, ha una fama terribile, tant’è che su tutte le guide dei paesi himalayani si legge prima o poi “fate attenzione ai cani”.
E si capisce, il mastino tibetano deve difendere le greggi dai lupi in un ambiente per lo più ostile: quindi è aggressivo, ha una corporatura notevole e il pelo lungo, come una specie di grizzly domestico, per quanto domestica possa essere la vita nomade. Di recente, durante una sosta in pieno altipiano del pulmino su cui stavo viaggiando, mi sono avvicinato a una casa rurale per scattare qualche foto. Una ‘creatura’ enorme e nera è saltata fuori all’improvviso e ha cominciato a ruggire. Sì, ruggiva. Ho immediatamente alzato i tacchi e sono tornato al pulmino.
Il mastino ha cominciato a essere un oggetto di culto per la nuova borghesia cinese dalla fine degli anni ottanta, dopo che un attore di Taiwan se ne era procurato un esemplare ed era finito su tutti i rotocalchi con cane al seguito. All’inizio – si legge nell’articolo – i nomadi tibetani non volevano venderlo perché lo consideravano parte della famiglia; al limite lo scambiavano con oggetti altrettanto utili, come una radio o un set di lampadine elettriche.
Così, come nella migliore tradizione del conquistador che incontra il buon selvaggio, qualche furbo allevatore cinese fece incetta di carabattole e le usò per procurarsi alcuni preziosi esemplari del molossoide, che diventarono i progenitori del mastino tibetano ‘da salotto’. Da quel momento in poi, anche il do-khyi – questo il nome originario che significherebbe “cane da legare” – è diventato oggetto di una bolla speculativa, come la maggior parte di quello che va di moda in Cina.
Nei primi anni duemila un esemplare di razza del mastino costava l’equivalente di decine di migliaia di euro, fino a raggiungere prezzi da record. ‘Di razza’ è un eufemismo, dato che per incentivare il pedigree i cani tibetani sono stati incrociati con i terranova (così il pelo era più lungo), con i chow chow (per rimodellarne testa e zampe posteriori), con i san bernardo (per farli diventare più grossi) e con gli afgani (perché così avevano “la zampa con il pelo a 360 gradi”, cioè il vello distribuito uniformemente anche dove nel modello originale non c’era).
Ma soprattutto, il feroce bestione dell’altipiano era diventato un Frankenstein di peluche da appartamento, perdendo tutta la sua aggressività. Il mercato era impazzito. Ricordo che nel parcheggio di fronte al mercato degli animali di Shilihe, a Pechino, li vendevano mettendoli in esposizione nei portabagagli delle auto.
Il cane tibetano diventato un animale da cortile è un altro esempio di come la Cina sta colonizzando il Tibet
Finché la bolla è esplosa, per la semplice ragione che come tutte le bolle speculative non può gonfiarsi all’infinito. E oggi il mitico cane cantato dai cronisti dell’antichità e dai baguwen – i saggi in otto parti di epoca Ming e Qing – non esiste più, dice l’articolo del Sanlian Shenghuo. Anche sull’altipiano la graduale scomparsa della vita nomade ha reso il do-khyi sempre più un innocuo cane da cortile (a parte quello che ha fatto battere in ritirata il sottoscritto, s’intende).
Ecco un esempio di come la Cina sta ‘colonizzando’ il grande Tibet, quell’area che oltre all’attuale regione autonoma comprende anche parti dello Yunnan, del Sichuan, del Qinghai e del Gansu. Più che la negazione dell’autonomia politica e ‘l’educazione politica’ dei monaci, che pure esistono, è attraverso il mercato (o il ‘mercato con caratteristiche cinesi’ che travolge un ecosistema fragile e tende a modificarlo a sua immagine) che Pechino, intenzionalmente o no, sta uccidendo la biodiversità: ridotta a folclore da cartolina, come un cane da salotto.
Il regolatore supremo
Certo, il processo porta anche dei benefici, che chiamiamo ‘progresso’. Ecco quindi il tassista tibetano che esalta le strade di nuova costruzione; ma un ex monaco lamaista che ha lasciato la tunica e messo su famiglia e a cui ho chiesto come mai le casette a schiera che il governo costruisce per i nomadi dell’altipiano siano vuote e già cadano a pezzi mi ha risposto: “Perché noi tibetani abbiamo bisogno di spazio, se no dove mettiamo gli animali? E poi le famiglie non possono stare troppo vicine l’una all’altra. È la nostra cultura”. La villetta a schiera, pur comoda e riscaldata, non piace a tutti. Non è possibile standardizzare il mondo.
Qualche anno fa il dalai lama disse che in Tibet “intenzionalmente o meno, si sta verificando un genocidio culturale”. Credo sia questa la chiave per porsi il problema non solo di quell’area o dello Xinjiang in Cina, ma anche delle decine di luoghi nel mondo investiti da un’idea univoca e omologante di sviluppo: il mercato come migliore allocatore di risorse, regolatore supremo che decide cosa può vivere e cosa deve scomparire. Distruttore di biodiversità.
Forse sta proprio qui il difetto della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta finora. E forse concepire uno sviluppo davvero egualitario, che non distrugga la complessità del mondo, è il compito del presente: un work in progress che non riguarda solo la Cina e le razze canine.
Gabriele Battaglia sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 30 settembre 2017 per presentare il suo libro, Buonanotte signor Mao.
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