Si chiama Xinjiancun, “Villaggio di nuova costruzione”. Lo stanno radendo al suolo. Forse potrebbero ribattezzarlo Xinchaicun, “Villaggio di nuova demolizione”. È qui, nel sobborgo meridionale di Daxing, a Pechino, che il 18 novembre un incendio ha ucciso diciannove persone, tutte immigrate dalla Cina rurale.

Gli ingressi del villaggio urbano sono presidiati dalla polizia, al suo interno le ruspe tirano giù tutto e le macerie si accumulano. Insieme alla ricercatrice universitaria che mi accompagna siamo entrati perché abbiamo incontrato il signor Avanti!, che con la sua auto dai vetri oscurati si è offerto di farci fare un giro tra i vicoli. Qianjin – “avanti” appunto – è lo pseudonimo che questo funzionario del governo locale si è scelto su WeChat. Avanti! come il socialismo secondo caratteristiche cinesi che entra in una nuova era.

Lui fa parte di una danwei – unità di produzione – che si occupa di “sviluppo e sicurezza”, cioè praticamente i due cardini della Cina di Xi Jinping. Non ho mai sentito che esistesse un dipartimento del genere, per cui quando ci carica in auto è lecito il sospetto che ci stia portando al più vicino posto di polizia, dove di solito ti arrestano per qualche ora, giusto il tempo di toglierti di torno e spaventarti un po’. Non lo fa. È una brava persona, il signor Avanti!

Negli ultimi trent’anni, i villaggi formalmente rurali ma diventati urbani si sono trasformati in terre di nessuno

Xinjiancun è un villaggio urbano. Si tratta di ex comunità rurali che sono state inglobate dalla metropoli in espansione ma mantengono un’amministrazione diversa da quella cittadina, perché in Cina vige un doppio statuto dei terreni – urbani e rurali, appunto – e poi perché costerebbe troppo pagare le indennità ai contadini e trasferirli in città. Quindi, nell’urbanizzazione galoppante degli ultimi trent’anni, i villaggi formalmente rurali ma diventati urbani si sono trasformati in terre di nessuno circondate da grattacieli – come a Guangzhou – oppure da aree industriali. Questo è il caso di Xinjiancun, che sorge – anzi sorgeva – di fronte a un moderno polo che produce soprattutto abbigliamento.

Qui la vita è un universo parallelo: mentre i terreni agricoli scompaiono, i vecchi residenti si riciclano in affittacamere per i migranti che vengono in città a lavorare. All’originaria casa contadina di un piano si aggiungono così altri piani costruiti alla bell’e meglio, come succede anche in Italia nelle aree ad alto tasso di speculazione edilizia. Se affitto a cinque persone, perché non a venticinque mettendole una sopra l’altra? Nel villaggio che si riempie di umanità, nascono nuove attività commerciali e industriali. Si crea una nuova comunità.

Quello andato a fuoco era un tipico edificio san he yi, duo he yi, “tre in uno, tutto in uno”, che integrava cioè produzione-magazzino-abitazione. Al piano terra c’erano diverse attività, tra cui un ristorante e una manifattura di vestiti; al piano superiore, avevano costruito 350 stanze in cui vivevano 400 persone. Sotto terra, c’era un laboratorio di trattamento del pollame, con le celle frigorifere. Per isolare l’ambiente refrigerante, avevano usato la schiuma di poliuretano, ma l’impianto elettrico non era a norma, una scintilla ha provocato l’incendio che ha fuso la schiuma, sprigionando una sostanza tossica. E ha ucciso diciannove persone, tra cui otto bambini.

Vedo la palazzina annerita di fronte a me. I poliziotti impediscono di scattare foto.

Scorrendo la lista dei diciotto arrestati subito dopo l’incidente, salta all’occhio che sono tutti migranti pure loro. Gli elettricisti, i gestori dello stabile, i manutentori; hanno sulla coscienza operai tessili, corrieri espressi, camerieri, in un sovrapporsi di lavori e province: Shandong, Hebei, Henan, Shaanxi, più uno dello Xinjiang e uno dell’Heilongjiang.

Una società parallela a quella dei pechinesi. Sono i waidiren, i forestieri. Ma nel linguaggio comune e anche sui mezzi d’informazione ha ormai preso piede un altro appellativo: diduan renkou, “popolazione di fascia bassa”. Sembra detto senza intento di nuocere, come se fosse un fatto naturale. Non più gongren – operai – e neppure mingong – lavoratori migranti; ora la “popolazione fluttuante”, il cui lavoro ha prodotto il boom cinese, è privata dell’identificazione con quello stesso lavoro.

E che farne di loro, dunque?

Dopo il disastro, il governo di Pechino ha ordinato la demolizione di migliaia di abitazioni abusive in tutta la città e la rimozione del loro contenuto umano. Succede a Haidian, la parte occidentale della metropoli; succede a Tongzhou, la zona che diventerà il nuovo centro amministrativo della megalopoli Jingjinji, quella che terrà insieme Pechino, Tianjin e la provincia dello Hebei; è sotto sgombero anche la comunità operaia di Picun. Si susseguono le notizie e gli appelli sui social network. Rispetto ad altre volte, colpisce la rapidità con cui si espelle e si demolisce.

Ingegneria sociale
In questi casi non si sa mai se la misura sia corretta, perché la gente deve vivere e lavorare in sicurezza; oppure se l’incendio sia il pretesto per compiere l’ennesima operazione di ingegneria sociale, quella per cui i waidiren, i forestieri, non hanno più cittadinanza a Pechino. L’economia è cambiata, ora servono i servizi ad alto valore aggiunto e le intelligenze, non c’è più bisogno di loro.

Dove andrà questa gente? Avanti! è convinto che ci penserà il governo, in qualche modo. Lui ci crede, al “suo” governo. Una signora osserva le ruspe che sventrano Xinjiancun, è un’operaia della fabbrica tessile giusto di fronte alle macerie. Dice che molti dei suoi compagni vivevano proprio lì. “Adesso continuano ad avere il lavoro, ma hanno perso la casa”. Un tempo, l’unità di lavoro provvedeva al welfare, oltre che al controllo degli operai. “Ma adesso in fabbrica la danwei non c’è più”, – dice la signora, “quindi la casa devono procurarsela da soli”.

Rifiuti e oggetti personali dei lavoratori che hanno abbandonato le loro case tra le strade di Xinjiancun, 25 novembre 2017. (Jason Lee, Reuters/Contrasto)

Loro, i lavoratori senza più casa, sono spariti: un’assenza-presenza. Si è creata una rete solidale di individui, gruppi, ong, che cercano di ospitarli finché non trovano il modo di tornare al villaggio d’origine. Sembra che la società civile sia in qualche modo scossa, circolano articoli in rete che paragonano la Pechino dell’accoglienza ai tempi delle olimpiadi del 2008 con la Pechino del calcio in culo di oggi.

Tra i pechinesi c’è chi pensa che la demolizione-espulsione sia una misura giusta, sono la versione locale degli amanti del decoro e dei popoli delle spugnette. Ma per la prima volta, forse, sorge qualche perplessità e mal di pancia.

Il fatto è che la “popolazione di fascia bassa” non è poi così inutile.

Il prossimo balzo in avanti
Un’amica cinese mi racconta che la sua a’yi – donna di casa – è stata spedita così lontano che ora ci mette due ore e mezzo per venire a lavorare a Pechino. Migranti sono anche i kuaidiyuan della logistica, i muratori che compiono l’infinita ricostruzione. Lavoratori al passo dei tempi, altro che vecchia e inutile forza lavoro: xin gongren, come amano definirsi a Picun.

Quindi, perché li stanno mandando via?

Il boom economico e la liquidità in eccesso – quella con cui investitori cinesi stanno comprando rami d’impresa, squadre di calcio e immobili anche in Italia – nascono fondamentalmente da due forme di valorizzazione del capitale: lo sfruttamento del lavoro migrante e la speculazione immobiliare.

Adesso sembra che queste due ricette del recente passato entrino in conflitto tra loro, perché per pompare l’ennesima ondata speculativa i migranti li devi allontanare dalla città divenuta “salotto” e polo d’eccellenza. Che tipo di ingegneria sociale si sta pianificando?

Osserviamo le espulsioni mentre sentiamo di duecento “città sostenibili” di nuova costruzione dove dovrebbero essere spediti gli espulsi; e poi c’è l’alta velocità che potrebbe tenere assieme questa Cina a compartimenti stagni ma comunicanti. Sembra che tutto rientri nel prossimo “balzo in avanti” che è già qui e ora. Ma noi vogliamo raccontare gli umani che ci stanno dietro e sotto.

Avanti! indica i due lati della strada che divide l’ex “Villaggio di nuova costruzione” e il polo industriale del tessile. Dice come la pensa: “Lo sviluppo è incompleto, qui è già città, lì è ancora campagna. Il nostro compito è quello di far diventare città la campagna”.

Lo sviluppo è diventato idea che si astrae dal lavoro vivo che lo produce.

“Da una tragedia, può anche venir fuori una cosa bella”, dice Avanti! Ma io non ho ancora capito dove andranno quelle migliaia di persone sgomberate.

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