C’è una frase che promette di diventare di uso comune, almeno in Cina: “Cong you mei you zhuanxiang hao bu hao”. Più o meno significa: “Promuovere l’economia cinese dal ‘non avere’ a ‘è buono o no’”. L’ha pronunciata Confucio o qualche personalità del passato? Niente affatto, l’ha detta il presidente Xi Jinping una settimana fa parlando a un gruppo di imprenditori cinesi e stranieri. Quello che Xi ha voluto dire è: “Cari imprenditori, spina dorsale della Cina, dovete passare dal chiedervi ‘Ne abbiamo abbastanza?’ al chiedervi ‘È di buona qualità?’”.
La produzione in Cina deve passare dalla quantità alla qualità. E l’iniziativa Made in China 2025 è lo strumento per raggiungere questo obiettivo: un dispositivo per far diventare la Cina un’economia avanzata.
Identifica dieci settori industriali in cui Pechino vuole diventare competitiva da subito e poi, entro la fine del secolo, potenza dominante: robotica, veicoli elettrici, biotecnologie, aerospaziale, trasporti e logistica d’avanguardia, elettronica, nuovi materiali (come quelli usati negli schermi video e nelle celle solari), information technology di nuova generazione, macchine agricole, trasporti marittimi.
Sfida tecnologica e sostenibile
Dall’ultima voce emerge la necessità cinese di modernizzare l’agricoltura per garantirsi l’autosufficienza alimentare e anche, possibilmente, per conquistare nuovi mercati nei paesi in via di sviluppo. Nel 2017 a questi settori è stata aggiunta anche l’intelligenza artificiale (Ai): entro il 2030 la Cina vuole diventare il principale centro di innovazione al mondo proprio nell’Ai.
Buoni propositi, ma come si realizzano? Recentemente ho visitato la Byd, che sta per Build your dream (costruisci il tuo sogno), una fabbrica di Shenzhen specializzata in auto elettriche e ibride. È nata nel 1995 come semplice manifattura di batterie al litio. Dal 2003 ha cominciato a costruire veicoli. Oggi tutti gli autobus di Shenzhen, città da undici milioni di abitanti, sono elettrici e costruiti dalla Byd. Sono circa 16mila e qualcuno l’hanno pure venduto all’azienda dei trasporti di Torino.
Le autorità cinesi isolano un’area del paese e fanno le prove generali: l’intero paese può diventare un laboratorio
A Shenzhen stanno riconvertendo anche la flotta dei taxi: sono diciassettemila ed entro il 2020 saranno tutti ibridi. Il che significa soprattutto elettrici, perché la propulsione a benzina si usa solo nei lunghi viaggi extraurbani e serve sostanzialmente a ricaricare la batteria attraverso il moto del veicolo. In città non ce n’è bisogno perché hanno installato distributori di elettricità.
“D’accordo, non producete smog grazie ai veicoli elettrici, se poi però l’elettricità viene dalle centrali a carbone, non è che fate grandi progressi”, ho detto al loro addetto alle pubbliche relazioni che ha replicato: “Nel calcolare le emissioni complessive dei nostri veicoli, mettiamo già in conto quelle causate dall’energia elettrica che consumano e vediamo che comunque sono inferiori a quelle dei veicoli a motore. E poi la nostra azienda produce anche pannelli solari, quindi l’obiettivo del futuro è quello di creare una filiera completa, dalla creazione di energia pulita al consumo sostenibile dei veicoli”.
Crescita, sperimentazione e sussidi
Prima osservazione: l’innovazione cinese è incrementale, graduale. Seconda osservazione: è un tipico caso di advantage of backwardness, vantaggio dell’arretratezza. Significa che i cinesi, a differenza di altri paesi, non hanno un’industria automobilistica sviluppata, che fa lobby contro le misure ambientali. E quindi possono sperimentare da subito tecnologie alternative. Terza osservazione: i cinesi tengono sempre presente il vantaggio economico. Sanno benissimo che non possono competere con la Volkswagen, la Bmw e la Toyota sulle automobili tradizionali sul piano dello status symbol. Allora si concentrano sulle auto elettriche e in quel settore sono da subito i numeri uno.
Mi hanno fatto provare un suv della Byd. La guida è piacevole, morbida, silenziosa, tutto è estremamente tecnologico, ci sono buone probabilità che queste auto, i cui modelli hanno i nomi delle dinastie imperiali cinesi, diventino un nuovo status symbol.
Quarta osservazione: i sussidi. I nuovi segmenti di mercato possono crescere perché dietro c’è lo stato cinese che ci mette risorse, attraverso gli ordini del settore pubblico dei trasporti – gli autobus, i taxi – e gli incentivi: oggi, un cinese si può comprare un suv della Byd per meno di diecimila euro. Quinta osservazione: l’identificazione di punti sperimentali. Come già quarant’anni fa, Shenzhen è scelta come “zona speciale”, ma per sperimentare la mobilità sostenibile. Tra l’altro in alcuni distretti della città si stanno anche provando le telecomunicazioni 5G.
Quindi le autorità cinesi isolano un’area del paese, una città o una regione, e fanno le prove generali: ricordiamo le “zone economiche speciali” create dal 1980, dove si sperimentavano le riforme di mercato; e la recente “free-trade zone” di Shanghai; poi ci sono i “distretti dell’innovazione” che sorgono qua e là.
In questo modo, l’intero paese può diventare laboratorio. Ma non solo: grazie agli incentivi, i sussidi e la protezione più o meno strisciante, tutta la Cina diventa anche mercato per i prodotti della zizhu chuangxin, l’innovazione domestica. Quale imprenditore del pianeta non vorrebbe aiuti dallo stato, un grande laboratorio dove sperimentare i prodotti e poi il più gigantesco mercato del mondo dove venderli?
Camminare sulle proprie gambe
La Cina cerca così di creare un “ecosistema dell’innovazione” dove le idee e i prodotti crescono pian piano, ma sono anche immediatamente commercializzabili. Finché le aziende di casa sono fragili, lo stato le protegge e intanto cerca di procacciarsi le tecnologie utili a fargli fare un salto di qualità.
Quando quelle imprese sanno camminare con le proprie gambe, allora Pechino apre alla concorrenza, ben sapendo che i suoi campioni nazionali godono dell’economia di scala, dei grandi numeri, giocano in casa e difficilmente perderanno quote del mercato.
Abbiamo alcuni esempi che vengono dal passato. Prendiamo l’ecommerce: quando eBay è arrivata in Cina, è stata massacrata da Alibaba, che aveva già avuto modo e tempo di farsi le ossa. Oppure il car-sharing: di recente c’è stato il caso di Uber, fatta a pezzi da Didi Chuxing e anzi poi rilevata dalla stessa Didi. Per cui noi oggi possiamo chiamare un’auto usando sia l’app di Didi sia quella di Uber – diversificazione del prodotto – ma dietro c’è sempre comunque Didi.
Per ammorbidire Donald Trump, Xi Jinping lascia intendere possibili aperture nel settore finanziario e in quello automobilistico, ma è molto probabile che in quest’ultimo Pechino si senta già le spalle coperte. Faccio un’ipotesi: la statunitense Tesla, con i suoi veicoli elettrici e pannelli solari, sembra abbia intenzione di sbarcare in Cina. Ma qui si scontrerebbe proprio contro Byd, non a caso soprannominata la “Tesla cinese”, un colosso che ha già sia esperienza sul campo sia un mercato consolidato. Mi pare che il “costruisci il tuo sogno” di Byd coincida parecchio con il zhongguo meng, il sogno cinese, del presidente Xi.
Nella guerra commerciale che si prospetta, la Cina non farà nessuno sconto se l’obiettivo statunitense è tarpare le ali al progetto Made in China 2025. Oggi ci troviamo proprio a questo punto. Gli americani hanno qualche ragione nel dire: nel nostro rapporto non c’è reciprocità, voi proteggete le vostre imprese, ci impedite di entrare nel vostro mercato e quando lo consentite è solo per rubarci la proprietà intellettuale. I cinesi sarebbero disposti a fare concessioni, ma si dice che le trattative siano incagliate su un punto: gli Stati Uniti, agitando l’ideologia di mercato, chiedono che la Cina la smetta di sussidiare le proprie aziende high-tech.
Ma ai cinesi non importa nulla dell’ideologia di mercato, a meno che non sia funzionale alla propria “crescita pacifica”.
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