Nelle giornate dal 15 al 25 dicembre 1989 in Romania le proteste portarono alla deposizione del dittatore Nicolae Ceaușescu.
Il 17 marzo 1989 il poeta romeno Mircea Dinescu raccontava al quotidiano francese Libération la vita sotto la dittatura. L’intervista è stata pubblicata nel volume 1989, il nuovo numero di Internazionale extra sulla caduta del muro di Berlino e la fine dei regimi comunisti. Si può comprare in edicola, in libreria e online.
Nuove condanne internazionali per la Romania. La Comunità economica europea ha deciso di sospendere i negoziati commerciali con il paese di Nicolae Ceaușescu. È quanto ha annunciato ieri, 16 marzo, al parlamento europeo il commissario per le relazioni esterne Frans Andriessen, dopo il voto dell’assemblea di Strasburgo su una risoluzione di condanna delle violazioni dei diritti umani in Romania. Andriessen ha anche sostenuto il piano per “adottare” le migliaia di villaggi romeni che il regime minaccia di distruggere. Sempre ieri sera il ministero degli esteri francese ha sottolineato che la Francia è “molto preoccupata” per la situazione in Romania e ha annunciato di aver richiamato per consultazioni l’ambasciatore francese a Bucarest. La riunione della commissione mista franco-romena, prevista per il 21 marzo a Parigi, è stata rinviata. Tuttavia all’interno della Romania sono poche le voci che si levano per condannare il regime di Ceaușescu. Ma ci sono segnali di cambiamento. Sei ex dirigenti del Partito comunista romeno hanno fatto arrivare in occidente una lettera aperta molto dura nei confronti del regime. E anche il poeta Mircea Dinescu, che abbiamo incontrato pochi giorni fa a Bucarest, ha deciso di rompere il silenzio. Questo trentottenne dall’ironia graffiante ha pubblicato nel suo paese una decina di libri di poesia. Considerato l’enfant terrible della letteratura romena, Dinescu traccia in questa intervista un quadro terribile della Romania del conducător.
Come reagisce un intellettuale che vive in un regime di dittatura del proletariato?
C’è una barzelletta che circola da noi da quasi vent’anni. Racconta dell’esperimento fatto dal regime socialista sul topo intellettuale, sul topo operaio e sul topo contadino. Sottoposti alle stesse esperienze e tenuti nelle stesse condizioni di laboratorio, dopo un certo periodo i topi reagiscono in modo diverso: il topo contadino e quello operaio ingrassano e stanno bene, mentre il topo intellettuale appare fragile e nevrotico. Quando gli chiedono se mangi troppo poco, risponde: “No, mi nutrono come gli altri, ma ogni tanto mi fanno vedere il gatto”. In realtà ormai la situazione si è democratizzata: oggi il gatto lo mostrano a tutti. L’allergia agli intellettuali è passata di moda. Fino al 1950 chi portava un cappello era subito etichettato come borghese e rischiava di essere mandato in “rieducazione”. Conformemente alla dialettica marxista, le cose si sono evolute e, nello stesso modo in cui il caffè è stato sostituito da surrogati, così sono apparsi anche dei surrogati di intellettuali. I nostri complessi di una volta si sono trasformati in complessi di superiorità. Ormai i compagni possiedono collezioni di cappelli inglesi, di dottorati, di diplomi universitari e conoscono meglio la storia del calcio che il marxismo. Molti di questi collezionisti immaginano che il Manifesto del partito comunista di Marx sia una specie di manifesto clandestino che il filosofo barbuto attaccava di notte sui muri. Specialisti in ogni cosa, questi nuovi rappresentanti del sapere hanno insegnato ai contadini come tenere una zappa, agli operai come piantare un chiodo e agli scrittori come scrivere da sinistra a destra.
Spesso si parla del sonno degli intellettuali romeni. Come lo spiega?
Le condizioni sono ideali per l’ibernazione, ci si iberna professionalmente in tutti i settori. L’ultima conferenza nazionale degli scrittori risale al 1981, anche se è specificato negli statuti dell’Unione degli scrittori che i suoi componenti devono riunirsi a maggioranza ogni quattro anni per eleggere a voto segreto una nuova direzione. Ma mentre gli scrittori di professione non sono autorizzati a riunirsi, i poeti dilettanti contadini – messi in posa e telegenici – sono riuniti ogni anno per ballare la sîrba (un ballo popolare romeno) sul carro del festival Cantiamo la Romania, allo scopo di dimostrare che il dilettantismo è diventato la chiave di volta della nostra epoca. Nel 1981 la nostra unione aveva 1.300 iscritti, oggi ne ha solo un migliaio: quasi 150 sono emigrati e altri 150 sono morti. I giornali servono solo come carta da pacchi e la foresta di antenne che sovrasta Bucarest è rivolta verso Sofia o Mosca, ma la classe dirigente non vuole saperne nulla. I pompieri culturali rintanati al ministero dell’interno hanno una sola ossessione: mantenere la loro poltrona. Per questo motivo sono pronti a soffocare la più piccola scintilla di liberalismo, a bloccare i veri libri e le sceneggiature di film autentici, spaventati dall’idea di un ipotetico ritorno della ragione nella vita quotidiana.
Finora le reazioni individuali a questa situazione sono state poche…
In un certo senso la vigliaccheria è stata istituzionalizzata. Sono le istituzioni che, tramite i dirigenti – maestri consumati nell’arte di truccare la realtà –, si esprimono in nome degli individui. L’opinione individuale è stata abolita. Qualunque tentativo di annunciare delle verità sgradevoli è considerato un’eresia e subito sanzionato. Quando oggi si legge il testo della costituzione, sembra di trovarsi di fronte a una meravigliosa favola uscita dalle Mille e una notte. Perché non solo in Romania sono stati banditi i diritti umani fondamentali, ma anche gli organi che dovrebbero difenderli – la magistratura e i mezzi d’informazione, per non parlare della polizia e della polizia segreta, la Securitate – si sono trasformati in strumenti di intimidazione e di terrore. Da ciò deriva questa rivolta muta della piazza, l’apatia di questo popolo meridionale, in passato conosciuto per la sua esuberanza e l’umorismo con cui sapeva rendere la vita più gradevole.
In che modo i romeni riescono a sopportare questa situazione?
Non esiste un discorso presidenziale in cui la parola felicità non sia ripetuta in tutte le salse. Basta guardare le persone del partito, questi volti eternamente scuri e chiusi, mai sfiorati dalla brezza leggera di questa parola. Basta osservare le persone normali che riempiono le stazioni con la loro aria inquieta e preoccupata, con le loro borse colme di pane, con i loro vestiti grigi che esprimono perfettamente il loro stato d’animo. Oppure quei viaggiatori concentrati sui loro autobus o quei pedoni tormentati da segreti pensieri, per concludere che il popolo romeno non è un popolo felice. Da vent’anni sembra di assistere alla proiezione di un film muto, dove alcuni milioni di comparse interpretano dei ruoli per i quali non hanno alcuna vocazione. Non siamo dei nordici. Da noi si rideva di cuore, cosa che ci ha portato talvolta a essere definiti “balcanici”, perché il nostro umorismo toccava ogni cosa, comprese le tragedie. Oggi il sorriso è diventato una merce rara.
Esiste una soluzione a questa crisi che sembra senza fine?
Può sembrare strano ma lo stalinismo è stato molto utile al socialismo: la negazione della persona come fine ha permesso di far lavorare gli uomini in gregge, cosa molto redditizia ed efficace per il regime. Vuole sapere il famoso segreto delle piramidi, sul quale storici, architetti e matematici si sono scervellati fin dalla notte dei tempi? Ebbene è semplice: è stato dato l’ordine di costruire e l’ordine è stato eseguito. Tutto qui. Ai nostri giorni esiste ancora una sorta di socialismo di caserma, con l’unica differenza che lo chiamano in un altro modo. Dopo il virus stalinista, la convalescenza del socialismo, cioè i tentativi di ritorno alla normalità (come quelli che si osservano in alcuni paesi vicini), non può certo piacere agli stalinisti di professione, che considerano un pericolo e una debolezza il fatto che ormai gli uomini si rifiutino di lavorare come bestie, che osino pretendere dei sindacati liberi, che vogliano vestirsi in modo divertente e colorato, che reclamino dei sabati liberi e che rivendichino il diritto di dire “no!” quando si dovrebbe dire “no!”. Di recente, i dirigenti del partito, in concorrenza con la Genesi, hanno progettato di creare in Romania l’uomo nuovo. Purtroppo la schiacciante maggioranza della popolazione è composta di “persone di vecchio stampo”, ancora sensibili alla fame e al freddo, e incapaci di affrontare le condizioni da laboratorio rigide e glaciali necessarie alla creazione dell’“uomo di Ceaușescu”, cresciuto a base di ideologia e infagottato nella retorica grossolana della propaganda. La riscoperta per i dirigenti comunisti di alcuni sensi perduti, come quello della misura o della realtà, e la rinuncia al misticismo di partito: ecco cosa potrebbe riportare la luce sul volto di queste persone di vecchio stampo, che si considerano ancora cittadine della vecchia Europa.
A questo proposito si parla sempre di più di una “casa comune europea”. Qual è la sua opinione in proposito?
Quando a Parigi o nella lontana Mosca gli architetti politici abbozzano i contorni di un’eventuale casa comune europea, possiamo già essere sicuri che mancherà una finestra, la Romania. Al posto di questa ipotetica finestra ci sarà un muro, dietro il quale milioni di abitanti aspettano inebetiti il momento del loro ingresso ufficiale nel nuovo continente. Se pensiamo che una lettera spedita da Parigi arriva a destinazione a Bucarest – ovviamente dopo essere già stata letta, e sempre che ci arrivi – dopo 45 giorni, possiamo lecitamente chiederci se facciamo ancora parte dell’Europa. La Romania, che in passato era definita un’isola di latinità in un mare slavo, è diventata un’isola in tutti i sensi, non solo dal punto di vista della geografia linguistica, ma anche dal punto di vista della geografia esistenziale. Un’isola circondata da tutti i lati dalle acque agitate del riformismo politico. Acque che i romeni vorrebbero assaggiare, anche semplicemente per bagnarsi le labbra con questo elisir miracoloso che porta il nome di glasnost e perestrojka, capace a quanto pare di resuscitare il cadavere del socialismo, ma da cui ci tengono a distanza, come quando da bambini ci impedivano di bere la diabolica Coca-Cola, la droga arrivata direttamente dagli Stati Uniti. Il motto “Dimmi chi sono i tuoi vicini e ti dirò chi sei” non vale più, perché la terrificante immaginazione del potere in una notte sola può erigere tra la Romania e il mondo civile un muro più imponente di quello di Berlino, può demolire una città dalle tradizioni europee per inorgoglirsi dei suoi pasticcini in cemento armato, vere e proprie pagode staliniste, e può avvelenare l’aria, l’acqua e la terra con i suoi giganteschi kombinat chimici. Tutto ciò per constatare, dopo quasi mezzo secolo di sviluppo socialista, che abbiamo ricevuto in eredità una parte del pallore asiatico: bambini emaciati e denutriti, genitori con gli occhi trasformati dall’odio e dalla disperazione.
Eppure in occidente ci si interessa sempre di più alla Romania. Come se lo spiega?
Il fatto è che dalle nostre parti regna un irreale esotismo sociale: i mancati suicidi di chi non può immolarsi con il fuoco sulla pubblica piazza perché mancano i fiammiferi, di chi non riesce a impiccarsi perché non trova né corda né sapone. È Bucarest, che sta diventando la prima città laica d’Europa, dove i poliziotti sono più numerosi dei piccioni e i contrabbandieri sono riusciti a stampare una nuova moneta: le sigarette Kent. Ma è anche la malattia del gigantismo, che misura la felicità dell’essere umano in metri cubi di cemento; è questo territorio assurdo in cui la polizia di frontiera punta le armi verso l’interno del paese, dove il grano è mietuto in tv ma marcisce nei campi, dove gli operai sono definiti proprietari in modo da potergli rivendere quello che secondo la costituzione gli spetta di diritto: gli strumenti di lavoro. Gli autisti dei tram sono così costretti a comprare il loro tram, gli operai la trivella, i contadini la veranda sul loro cortile. Quando torna nel suo paese, in Francia, dica che Dio non pensa più ai romeni.
Oggi si ha l’impressione che Gorbačëv possa rappresentare una speranza per i romeni.
La Romania ha sempre guardato a est con timore, un sentimento che ha radici storiche per un popolo situato alla periferia di un impero. Inoltre lo stalinismo non è arrivato da Honolulu ma dai silos ideologici importati dal Cremlino. Per anni ci è stato sussurrato all’orecchio o accennato che il sistema si sarebbe liberalizzato, ma che l’Orso orientale stava impedendo questo processo. E la popolazione ci ha creduto. “Le truppe sovietiche fanno manovre alla frontiera romena”: erano le parole che le autorità ci ripetevano sempre quando cercavamo di far salire un po’ la pressione. Non so se i popoli che vivono al di là del Prut considerino Gorbačëv uno zar buono o cattivo, ma per i milioni di esseri umani che in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania orientale e Romania hanno taciuto nell’umiliazione per decenni, il leader sovietico incarna la buona novella, è il messia del socialismo dal volto umano.
La rivolta degli operai di Brașov contro le politiche economiche di Ceaușescu, scoppiata il 15 novembre 1987, non ha avuto effetto. Perché?
“Sta’ attento a non farti investire da un’auto!”, “Non dimenticare che hai dei figli!”, “Fa’ attenzione a non farti espellere!”. Questo è quello che ti dicono i tuoi migliori amici quando gli parli dell’idea di inviare alle autorità un semplice memorandum sulla disastrosa situazione della cultura. Un grande scrittore, autore di romanzi e con un’invidiabile popolarità, ha risposto così all’invito di sottoscrivere questo memorandum: “Lo firmerei molto volentieri, ma alla mia età temo di non poter più resistere alle botte nelle celle sotterranee della polizia”. Com’è possibile che un artista di ottant’anni debba temere delle conseguenze così terribili, visto che non siamo un paese fascista ma socialista? Me lo può spiegare? E com’è possibile che milioni di persone siano costrette a parlare a bassa voce, anche dentro le loro case? Pochi popoli hanno la vocazione al martirio. Dopo Brașov si è sparsa la voce che i promotori della rivolta erano stati sottoposti a radiazioni. Ma chi può dirlo? I mezzi d’informazione tacciono. La giustizia ha gli occhi bendati e la bocca imbavagliata. La paura di morire è più umana che animale.
Mi ha chiesto perché gli artisti stanno zitti. Fanatici e kamikaze non sono mai stati molto numerosi da queste parti. Anche i nostri poeti sono stati dei buoni padri di famiglia e potevano, in piena monarchia, scrivere tranquillamente degli articoli o dei versi antimonarchici. Quando i tempi sono favorevoli capita ancora che qualcuno di noi si dimostri coraggioso, ma la vigliaccheria e la bassezza ritornano appena la situazione peggiora. La gente si è abituata a vegetare in attesa che cadano le statue, perché il socialismo è anche questo: una continua demolizione di statue. Negli anni cinquanta furono distrutti i capolavori dello scultore Ivan Meštrović, come il monumento a re Carol, fondatore della Romania moderna; nel 1958 è stata fatta scomparire la gigantesca statua di Stalin; nel 1968 è stato fuso il busto del leader stalinista Gheorghiu-Dej; nel 1970 è scomparsa dai giardini pubblici la statua di Vasile Roaită, eroe dei giovani comunisti, perché negli archivi si era scoperto che il suo nome figurava sul libro paga della polizia. In Romania si ha l’impressione che ci sia molto marmo, ma c’è anche molta pazienza.
Molti intellettuali non hanno questa pazienza e preferiscono lasciare il paese.
La nevrosi collettiva che ha colpito la popolazione fa anche molti danni tra gli artisti, umiliati, spinti alla doppiezza e condannati a un lento suicidio. In Romania la verità, maltrattata, è moribonda, ma gli scrittori non possono più essere definiti dei chirurghi della realtà, perché sono stati trasferiti al reparto cosmetico del potere e incaricati di travestire la bruttezza, di truccare la menzogna, di glorificare la mediocrità. Gli specialisti del compromesso sono diventati aggressivi nei confronti di chi si allontana dalla cerchia dei poeti di corte. Per sopravvivere ci sono solo due soluzioni: accettare una vita di privazioni, nell’ipotetica speranza che un giorno i propri manoscritti usciranno dal cassetto, o emigrare. L’esilio esterno è nella maggior parte dei casi la conseguenza dell’esilio interno. Ma nulla è più tragico di vedere la Romania perdere i suoi artisti, che sono sempre stati il sale di questa terra.
Cosa farà se un bel giorno Ceaușescu dovesse scomparire?
Una cosa del genere è impossibile. Ceaușescu non può scomparire perché sua moglie è immortale.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Da sapere
- 15 dicembre A Timișoara decine di persone manifestano contro il trasferimento del pastore protestante Lászlo Tőkés, che aveva criticato il regime e la politica della cosiddetta sistematizzazione. Le proteste continuano nei giorni seguenti. È l’inizio della rivoluzione romena.
- 21 dicembre A Bucarest un discorso pubblico del leader comunista Nicolae Ceaușescu viene interrotto dalle grida di protesta dei presenti. I manifestanti prendono il controllo della piazza. Le proteste continuano tra scontri e violenze.
- 22 dicembre Ceaușescu e la moglie Elena lasciano Bucarest in elicottero. I rivoluzionari li arrestano e li trattengono in una caserma.
- 25 dicembre Dopo un processo di un’ora, sono condannati a morte. La condanna è eseguita alle 14:50. Il potere è provvisoriamente in mano al consiglio del fronte di salvezza nazionale. Nei giorni della rivoluzione romena ci sono tra i 700 e i 1.300 morti e tremila feriti.
Questa intervista è stata pubblicata nel volume 1989, il nuovo numero di Internazionale extra sulla caduta del muro di Berlino e la fine dei regimi comunisti. Si può comprare in edicola, in libreria e online.
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