Il 2021 doveva essere l’anno della ripartenza, della ripresa dei concerti in tutto il mondo, dei ritorni discografici di tanti artisti rimasti nell’ombra, insomma della “normalità”. Come sappiamo bene, non è stato così. Molti grandi appuntamenti sono stati rinviati ancora una volta. E molti dischi, come quello di Kendrick Lamar, sono ancora chiusi nel cassetto, arriveranno forse nel 2022. Altri però, per fortuna, sono usciti, rendendo il 2021 un anno un po’ più florido rispetto al precedente, nel quale lo shock per la pandemia aveva davvero fermato (quasi) tutto. Diventa difficile, visto lo stato in cui versa tuttora il mondo, identificare delle tendenze e fare delle riflessioni di fondo: sarebbero troppo parziali. Meglio provare a mettere in fila la musica migliore che è uscita, e riascoltarla.

10. HEY WHAT, Low
Dopo Double negative, un disco capace di decostruire il rock come pochi negli ultimi anni, i Low, due mormoni del Minnesota che da anni fanno dischi hanno pubblicato HEY WHAT, un altro album di canzoni scritte con la chitarra e suonate con la chitarra, ma che sembra una creatura aliena arrivata da un altro pianeta. Rispetto al precedente, c’è molta più melodia, come nei singoli White horses e Days like these, che senza distorsioni potrebbero tranquillamente essere delle canzoni folk vecchie di duecento anni.

9. Call me if you get lost, Tyler, The Creator
Il rapper californiano Tyler, the Creator ama indossare maschere e vivere di contraddizioni. In Call me if you get lost, il suo sesto album, ha deciso di ribaltare ancora una volta il tavolo. Nel precedente Igor si era quasi allontanato dall’hip hop, avvicinandosi sempre di più all’rnb e al neosoul. Ora torna al rap puro, a tratti arrogante. Sembra ritrovare le sue origini, quelle di quando faceva parte del collettivo Odd Future. L’alter ego scelto dal rapper per questa occasione è Tyler Baudelaire, giramondo che si ispira al poeta francese Charles Baudelaire. Ma il tema che domina Call me if you get lost è la rivendicazione dei suoi successi. E, come spesso gli capita, l’artista gioca con la sua sessualità, raccontando liberamente flirt e storie d’amore.

8. KICK ii, KicK iii, kick iiii, kiCK iiiii, Arca
Dopo aver pubblicato Kick ii il 30 novembre, l’artista venezuelana Arca l’8 dicembre 2021 ha fatto uscire ben tre dischi in un solo giorno: KICK ii, KicK iii, kick iiii e kiCK iiiii. La sua musica elettronica è così ricca di spunti da disorientare l’ascoltatore, mentre l’estetica che viene fuori dai video gioca abilmente con un immaginario transgender e cyberpunk. Ma la serie di Kick è una delle cose più accessibili che ha fatto. Prendete i sintetizzatori dolci di Estrogen, uno dei brani di kiCK iiiii, che sembra quasi un pezzo di Laraaji o di Aphex Twin. Oppure i ritmi spezzati di Bruja (KicK iii) o il simil reggaeton di Prada (KICK ii), che potrebbero quasi andare in radio per quanto sono orecchiabili. Arca, il cui vero nome è Alejandra Ghersi Rodriguez, ha definito i nuovi pezzi “mutant club music”, un termine che prendiamo in prestito volentieri.

7. Vulture prince, Arooj Aftab
Arooj Aftab ha la fortuna di saper stare in equilibrio tra le sue radici pachistane e la tradizione occidentale, tra classica e jazz. Nata a Lahore, ma trapiantata a Brooklyn, Aftab ha dedicato lo splendido Vulture prince al fratello Maher, morto proprio mentre l’artista stava lavorando all’album. Vulture prince tocca vette di grande poesia e intensità, come con Mohabbat, brano creato attingendo a un antico ghazal, poema recitato della tradizione araba che esprime il dolore per la perdita ma anche la bellezza dell’amore.

6. Black to the future, Sons of Kemet
Sassofonista e clarinettista cresciuto tra Londra e le Barbados, Shabaka Hutchins è il leader di tre progetti molto interessanti: Shabaka and the Ancestors, The Comet is Coming e Sons of Kemet. In passato ha collaborato con la Sun Ra Arkestra, gli Heliocentrics e non solo. La sua musica è contaminata: mescola jazz, dub e tradizione africana. Dopo Your queen is a reptile, manifesto antimonarchico e antirazzista, i Sons of Kemet sono tornati con Black to the future, un album che lo stesso Shabaka ha definito un poema sonoro frutto di “rabbia, frustrazione e percezione emerse dopo la morte di George Floyd e le proteste di Black lives matter”. Anche i titoli delle canzoni, messi in fila, sono un mini poema sull’identità nera. Jazz militante, e soprattutto ispirato.

5. Ignorance, The Weather Station
C’è un disco che, un po’ a sorpresa, ha conquistato la critica internazionale nel 2021: è Ignorance degli Weather Station, una band canadese guidata dalla cantante Tamara Lindeman. I dieci pezzi dell’album mettono insieme temi globali come la crisi climatica e le disuguaglianze economiche, con microstorie su amori finiti, fughe e separazioni. È un album grandioso, che fa venire in mente tanto i Fleetwood Mac quanto Joni Mitchell. E contiene uno dei brani che ho ascoltato di più negli ultimi dodici mesi, Robber. “L’immagine del rapinatore è una metafora. Sappiamo tutti che stanno distruggendo il nostro pianeta in nome del profitto dell’1 per cento del mondo. E questo succede di fronte ai nostri occhi, senza una vera condanna di chi lo fa. La canzone parla anche della mia ingenuità e della mia incapacità di vedere questo processo, di capire chi è il vero rapinatore che ci sta rubando il futuro”, ha raccontato Lindeman.

4. Spiral, Darkside
Ogni epoca ha il suo Brian Eno. Noi in questo momento abbiamo Nicolas Jaar, un musicista così bravo e poliedrico da meritare un posto nella storia della musica elettronica e sperimentale. Dopo due meravigliosi dischi solisti nel 2020 (in particolare Cenizas) l’artista statunitense di origini cilene ha rimesso in piedi il duo Darkside insieme al polistrumentista Dave Harrington. E ha fatto un altro album clamoroso, colpevolmente sottovalutato dalla critica internazionale. Siamo fortunati ad avere Nicolas Jaar.

3. The nearer the fountain, more pure the stream flows, Damon Albarn
La carriera solista di Damon Albarn è arrivata alla seconda tappa. E forse sarà questo il percorso da tenere d’occhio con maggiore attenzione nei prossimi anni, anche più dei Gorillaz ed eventualmente dei Blur. Perché Albarn ha raggiunto una maturità autoriale talmente profonda che quando non ha l’obbligo di firmare pezzi pop di successo emerge ancora di più. Sono i paesaggi dell’Islanda ad aver ispirato i nuovi brani, che erano nati come bozzetti orchestrali strumentali. Sfruttando il tempo a disposizione durante il lockdown, il musicista britannico li ha trasformati in canzoni. E che canzoni.

2. Sometimes I might be introvert, Little Simz
Nella carriera di ogni artista c’è un disco nel quale provi a fare il grande salto, a passare a un livello successivo. Per Little Simz probabilmente quel disco è Sometimes I might be introvert. La rapper e attrice londinese di origini nigeriane, il cui vero nome è Simbiatu Abisola Abiola Ajikawo, ha solo 26 anni, ma è già da tempo un nome di punta del rap britannico. Con questo lavoro le sue ambizioni sembrano crescere parecchio. Se gli album del passato, nonostante la qualità degli arrangiamenti, inseguivano un’estetica tutto sommato underground e molto legata alla scena hip hop britannica, Sometimes I might be introvert è un affresco ad ampio spettro, che cita i grandi nomi della musica nera (Nina Simone, Lauryn Hill, Etta James, lo Smokey Robinson campionato nel pezzo Two worlds apart), pesca dal jazz e dal funk con lo spirito di chi cerca di scrivere un classico.

1. Promises, Floating Points, Pharoah Sanders & The London Symphony Orchestra
Quando è uscito questo album, a marzo, io e altri colleghi abbiamo usato la parola capolavoro. Abbiamo esagerato? Può darsi, ma se dovessi conservare un solo disco del 2021 non avrei dubbi. Promises nasce da un incontro tra due musicisti di generazioni diverse, con percorsi molto differenti, che però hanno trovato un terreno comune sul quale dialogare. Dura 46 minuti, è diviso in nove movimenti, ma è pensato come un’unica traccia. È difficile accostarlo a un solo genere, sospeso com’è tra jazz, ambient e misticismo puro. A tratti la musica, composta da Floating Points, ma arricchita dall’improvvisazione del sassofono di Sanders, uno dei più grandi jazzisti viventi, custode della tradizione di Sun Ra e John Coltrane, si rifà proprio a certi episodi dei dischi del jazzista statunitense; in altri momenti fa venire in mente il minimalismo di Steve Reich; in altri ancora fa pensare ad Ambient 3. Day of radiance, il capolavoro di Laraaji e Brian Eno. Nonostante i tanti strumenti usati – il sassofono, il piano, qualche sintetizzatore, un clavicembalo, e ovviamente gli archi della London Symphony Orchestra – si ha sempre una sensazione di leggerezza totale, come di fronte a un paesaggio celeste. Il momento più commovente forse arriva nel quarto movimento, quando Sanders canta con la tecnica dello scat. È la voce di un uomo anziano che ne ha viste tante, ma somiglia anche al primo vagito di un bambino.

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