La polvere ha una tradizione nobile nella musica americana. Le tempeste di polvere che spingevano i contadini a fuggire dall’Oklahoma alla California negli anni trenta, le stesse raccontate da John Steinbeck nel romanzo Furore, erano il fulcro delle Dust bowl ballads, il capolavoro folk di Woody Guthrie. Nel 2005 invece Bruce Springsteen invocava polvere e diavoli ritraendo un disorientato soldato statunitense in Iraq nella ballata acustica Devils & dust.
C’è un altro gruppo statunitense che viene dalla polvere e alla polvere ritorna sempre: i Calexico. La band fondata a metà degli anni novanta a Tucson, Arizona, da Joey Burns e John Convertino si alimenta della sabbia del deserto che attraversa l’Arizona e il Messico del Nord. La sua musica di frontiera esalta anche la tradizione meticcia del sud degli Stati Uniti, pescando dall’America Latina, a partire dalla tradizione della cumbia, ma anche da Cuba e ovviamente dal mariachi messicano. E non è un caso che uno dei pezzi migliori del nuovo album del gruppo, El mirador, in uscita l’8 aprile, s’intitoli proprio Cumbia del polvo e canti di polvere nei capelli e nelle scarpe e dell’arrivo della stagione dei monsoni.
Del resto El mirador è un ritorno alle origini della band, che mancava da tempo a Tucson perché da qualche anno Burns e Convertino si sono trasferiti rispettivamente a Boise, Idaho, ed El Paso, Texas. Nell’estate del 2021, in piena pandemia, si sono ritrovati con vecchi amici e collaboratori per lavorare ai nuovi brani. Si sono stabiliti nello studio casalingo del collaboratore di lunga data Sergio Mendoza e sull’onda dei ricordi hanno scritto una lettera d’amore alla terra che li ha ispirati per vent’anni. Molti di questi pezzi sono cantati in spagnolo, ancora più che in passato, e suonano allegri. Non sembrano certo un frutto del lockdown.
“Non ci vedevamo da tempo, quindi è stato catartico ritrovarci, come una festa. Ci mancava molto stare sul palco, avere una connessione con il pubblico e con gli altri musicisti. Per questo abbiamo fatto un disco che ricalca il nostro modo di stare sul palco”, racconta Joey Burns in collegamento da un hotel di Los Angeles, la città dov’è nato e dove attualmente vivono le sue figlie. Indossa un piumino blu e un cappellino nero da basket .
“Volevo scrivere canzoni in grado di chiamare la gente a raccolta. E niente può farlo meglio del ritmo. Per questo i brani del disco sono così ballabili. Il nostro amico e compagno di tour Sergio Mendoza si era costruito uno studio nel giardino dietro casa, e abbiamo scelto di fare tutto il disco lì: cucinavamo, suonavamo e stavamo semplicemente insieme. Era luglio, la stagione dei monsoni, e da quello che mi ricordo a Tucson non ha mai piovuto così tanto: sembrava un atto di dio. Quando succede, il deserto cambia, da marrone e secco diventa umido e verde. Escono fuori animali di ogni tipo: ho visto tante farfalle e anche i trombidiidae, delle specie di piccoli ragni rossi. A un certo punto abbiamo dovuto interrompere le registrazioni perché la pioggia colpiva il tetto dello studio così forte che il rumore copriva gli strumenti. Ci siamo fermati a guardare la cascata d’acqua che cadeva sul deserto. Cumbia del polvo parla proprio di questo, del risveglio del deserto”.
El mirador rappresenta bene la tradizione musicale di Tucson, e non è un caso che molti ritornelli siano cantati in spagnolo, come conferma Burns: “Il disco precedente, The thread that keeps us, aveva uno spirito molto californiano e indie-rock. Stavolta volevamo fare una cosa diversa. Durante il suo mandato l’ex presidente Donald Trump aveva scoperchiato tutto il razzismo e l’odio nascosto nel paese, e volevamo rispondere con un inno all’inclusività, celebrare la bellezza della comunità di Tucson e del deserto di Sonora. Ma anche ripercorrere la storia della nostra band, nella quale entrano ed escono persone di diversa provenienza come Gaby Moreno, che è nato in Guatemala, o Camilo Lara, che è di Città del Messico, o lo stesso Sergio Mendoza, che è nato a Nogales, al confine tra Messico e Stati Uniti”. Il musicista parla in modo rilassato, scandendo molto le parole. Spesso ride, sembra divertirsi durante le interviste.
Un altro brano che s’impone fin dai primi ascolti è Cumbia peninsula, che parla di persone in fuga e di una ricerca senza fine. È un testo criptico. È una canzone sui migranti che attraversano la frontiera tra Messico e Stati Uniti? “Sinceramente non ti so dire precisamente di cosa parla. Mi piace scrivere perché siano altri a trovare un significato in quello che facciamo. Ti faccio un esempio: nel 2021 Robert Plant e Alison Krauss hanno fatto la cover di un nostro pezzo, Quattro (World drifts in). Secondo la loro interpretazione Quattro parlava di migranti che si lasciavano tutto alle spalle cercando una vita migliore. Ma io in realtà l’avevo scritto pensando ai nativi tarahumara, originari dello stato messicano di Chihuahua, per i quali correre per lunghe distanze serve per comunicare tra villaggi diversi, ma anche ai narcotrafficanti che costringono le persone a lavorare l’oppio e l’eroina nel nord del Messico. Non c’è un’interpretazione giusta o sbagliata della musica, vanno tutte bene. Cumbia peninsula,per esempio, l’ho composta pensando a come la tecnologia ci connette ma ci rende anche dipendenti. Siamo come bambini dentro un negozio di giocattoli che non riescono a uscire. Pensavo anche all’estremismo politico, alla crisi climatica, ai miei amici. Tutti questi temi sono dentro la canzone, ma filtrati attraverso l’astrazione. E mi piace il contrasto tra la musica festosa e i testi cupi”.
I Calexico hanno un rapporto abbastanza stretto con l’Italia e torneranno nel nostro paese per due concerti (il 26 aprile all’Auditorium parco della musica di Roma e il 27 all’Alcatraz di Milano) per la prima volta dopo la pandemia. “Mi manca il vostro paese, non vedo l’ora di tornare”, dice Burns. “L’ultima volta che siamo stati in Italia ho incontrato Dori Ghezzi, moglie del cantautore Fabrizio De André. Mi ha dato due cd, le raccolte In direzione ostinata e contraria, e mi ha raccontato la vicenda del loro rapimento in Sardegna e altre storie. La musica di De André mi ha colpito molto, soprattutto i brani dei suoi primi anni di carriera e quelli di Creuza de mä. Non l’ho mai detto a nessuno, ma quelle canzoni hanno ispirato Cumbia peninsula, in particolare i cambi di accordi. Amo la sua voce, il suo timbro, il modo in cui racconta storie. Dopo il mio incontro con Dori avevamo pensato di partecipare a un tributo a De André, ma non siamo riusciti a organizzarci. Poi siamo amici di Vinicio Capossela e del chitarrista Alessandro ‘Asso’ Stefana, che a loro modo stanno portando avanti quella tradizione cantautorale ”. Ma le influenze di El mirador sono tante. “In studio ascoltavamo di tutto, dal reggaeton agli Arcade Fire, dai Bomba Estéreo al rapper Lis Nas X, che ho scoperto grazie alle mie figlie. Da lui ho preso spunto per scrivere il ritornello della canzone Constellation, per esempio”.
Cosa bisogna aspettarsi dal tour della band statunitense? Sicuramente tante persone sul palco, spiega Burns. “Saremo in sette, una piccola orchestra. Altri canteranno con me, aiutandomi in particolare con lo spagnolo. Volevamo un suono il più ricco possibile, un ritorno in grande stile. Ovviamente faremo diverse canzoni del disco, ma anche brani del nostro vecchio repertorio. Stiamo provando anche una famosa cumbia chiamata Cariñito, ma anche Dear god degli Xtc, una band che amiamo molto. Sono molto attuali. Vedendo quello che sta succedendo in Ucraina ho pensato al verso del loro brano Generals and majors: ‘I generali e i maggiori sembrano sempre così tristi, a meno che non facciano la guerra’”.
Oltre alla polvere, c’è un’altra cosa senza la quale la musica dei Calexico non potrebbe esistere: la frontiera. Il nome stesso della band evoca l’omonima città californiana al confine con il Mexico. E la frontiera è evocata anche in questo disco, nel brano El paso , le cui parole sono firmate dalla cantautrice e poeta Pieta Brown. “Combattiamo per un confine che è difficile da capire e più difficile da trovare della verità in queste terre”, recita la canzone. El Paso, la città dove vive un altro cantore della frontiera, Cormac McCarthy, da sempre fonte d’ispirazione per la band.
“Le persone tendono a essere più aperte mentalmente se vivono al confine tra due stati. Quell’apertura è importante per noi, ce ne nutriamo da sempre dal punto di vista artistico. E poi migrare è naturale, lo fanno gli animali come gli uomini. Quando mi sono trasferito per la prima volta a Tucson ho sentito subito l’influenza degli europei che l’avevano fondata. Ho capito che non aveva niente a che fare con altri posti che amo come il Kansas o il Montana. A me piace il cibo speziato, la varietà, la circolazione di idee e di forme d’arte. I confini non sono che simboli. Invece che pensarli come dei limiti, mi piace immaginarli come una finestra aperta su qualcosa”, conclude Burns.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it