Ci sono musicisti ossessionati dal futuro. Altri che preferiscono guardare indietro e affidarsi ai maestri del passato. La musica americana delle origini, per Alessandro “Asso” Stefana, è da sempre un faro da seguire. Il musicista di Brescia, chitarrista e polistrumentista scoperto da Paolo Benvegnù quando era ragazzo, sembra aver fatto sua la lezione dell’etnomusicologo Alan Lomax, che diceva che “il folk è la mappa del canto”. Come lui, quando ha bisogno di orientarsi, Stefana si rivolge al folk, al blues e al country delle origini.

Ed è forse grazie a questa sensibilità che la sua carriera ha seguito una parabola originale e interessante, lontana dai riflettori, ma vicina ad alcuni dei migliori artisti italiani e internazionali: da vent’anni è un collaboratore fidato di Vinicio Capossela, che accompagna in tour ma anche in studio (ha lavorato alla produzione del disco del 2008 Da solo e ad altri brani del cantautore); ha prestato la sua chitarra a PJ Harvey, suonando nel disco The hope six demolition project, ed è andato in tour con lei; ha suonato insieme ai Calexico, a Mike Patton e ai Penguin Cafè, band di Arthur Jeffes, il figlio di Simon Jeffes della storica Penguin Cafè Orchestra; ha pubblicato quattro dischi con la sua band, i Guano Padano, e di recente ha prodotto due album del cantautore texano Micah P. Hinson.

È stata proprio PJ Harvey, che ha definito la sua musica “misteriosa e bellissima”, ad aiutare Stefana in veste di produttrice esecutiva del suo nuovo disco, pubblicato il 17 maggio: Alessandro “Asso” Stefana è una raccolta di brani in gran parte strumentali, che compie un viaggio quasi ascetico. Comincia dalla polvere del folk, dalle chitarre acustiche e dai violini, per innalzarsi verso le stelle. A tratti sembra quasi un disco ambient. Nella seconda parte ci sono anche tre brani cantati, in cui c’è la voce di Roscoe Holcomb, figura fondamentale della musica popolare americana del novecento, che Stefana ha recuperato dagli archivi della Smithsonian folkways. Gli ha costruito attorno tre arrangiamenti eterei per tre brani tradizionali come Born and raised in Covington, I am a man of constant sorrow e Moonshiner.

“Ho registrato questo disco nel corso di tanti anni e in diversi luoghi. La maggior parte dei brani li ho incisi nel mio studio, mentre un pezzo, The wandering minstrel, l’ho fatto durante lo Sponz fest a Calitri, nello studio di Vinicio Capossela, insieme a Mikey Kenney, un musicista britannico che suona il fiddle, il violino folk. I pezzi di Holcomb li tenevo in un cassetto, come si conservano le cose preziose. Quasi non volevo pubblicarlo, questo disco, come quando i genitori non vogliono far uscire i figli di casa. Poi a un certo punto mi sono lasciato andare, perché dovevo togliermi questo peso di dosso”, racconta Stefana in collegamento su Zoom dalla sua casa a Brescia. In testa, come sempre, porta un cappello.

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Il ruolo di PJ Harvey, conferma il musicista, è stato fondamentale per mettere insieme i brani: “Quando sono stato in tournée lei si dimostrava sempre interessata alla musica che facevo. Un giorno mi ha detto: ‘Quando fai qualcosa di nuovo, mandamelo’. Avevo questi pezzi da parte e glieli ho inviati. Senza che le abbia mai chiesto una mano in modo ufficiale, si è messa subito a lavorare sul disco. Mi ha dato consigli su quali pezzi tenere e quali scartare, ma anche su quale direzione prendere nei momenti in cui avevo dei dubbi. Mi ha aiutato molto anche a scegliere i titoli dei pezzi, una cosa che da solo avrei faticato a fare”.

Come ha lavorato alle canzoni con la voce di Holcomb? È stato difficile? “Sono attratto dalla materia folk, blues e country delle origini. È il mio punto di riferimento sonoro da sempre. Ma apprezzo anche la musica ambient. Nel disco volevo mischiare queste due cose. Se avessi trattato la voce di Holcomb con un arrangiamento folk classico sarebbe stato più scontato, invece ho cercato di portarla in un altro mondo. Dopotutto lui faceva il minatore e ha scavato per tutta la vita, per cui cucirgli attorno una musica un po’ eterea in un certo senso significava portarlo dall’altra parte, verso il cielo. Volevo cospargerlo di polvere di stelle”.

La musica di Stefana, come dimostrano altri brani tipo la malinconica The house, che unisce la tecnica del fingerpicking alle chitarre elettriche e al piano, o la già citata The wandering minstrel, ha una casa ideale oltreoceano: “Quello per gli Stati Uniti è un amore idilliaco e un riferimento poetico, penso anche al cinema. È una terra che è sempre nei miei sogni, anche se non posso andarci spesso. Sono stato, però, varie volte in Arizona con Vinicio Capossela: il deserto è un posto che ti resta nel cuore e racchiude tutta l’epopea musicale statunitense. Io sono appassionato soprattutto di folk delle origini, da Woody Guthrie a Hank Williams, e di blues acustico, come quello di Skip James. In quegli artisti trovo la verità. Con quelli successivi, a partire da chi ha fatto blues elettrico, divento più selettivo”.

Un altro punto di riferimento assoluto per il musicista di Brescia è Bob Dylan: “È un grande conoscitore della storia della musica, anche negli ultimi dischi ha fatto cose straordinarie. Un album suo che mi è piaciuto tantissimo è Tempest. L’ho comprato per caso a un dollaro negli Stati Uniti. L’ultima volta agli Arcimboldi a Milano sono andato a vederlo con Vinicio. Gli ho telefonato e gli ho detto: ‘Capo, cosa fai oggi? Lo sai che c’è dio in città?”. Abbiamo trovato due biglietti all’ultimo minuto. È stato un concertone”.

Asso Stefana porterà presto il suo nuovo disco in tour. Ha già chiuso una serie di date che saranno annunciate nei prossimi giorni. “Vorrei essere accompagnato da Emanuele Maniscalco, un batterista e pianista molto bravo. Nel disco non c’è la batteria, ma dal vivo vorrei aggiungere quel tipo di pulsazioni. E poi ogni tanto mi piacerebbe fare dei concerti completamente da solo, è una dimensione che mi piace sperimentare”. Da solo, o in compagnia, seguendo la mappa del canto.

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