Un giorno nella giungla con Joseph Kony
Conoscevo già le gesta di Joseph Kony prima di incontrarlo. Avevo seguito per anni gli attacchi che il suo gruppo ribelle, l’Esercito di resistenza del Signore (Lra), aveva condotto in Uganda, compreso uno avvenuto nel 1996 che non dimenticherò mai. Era accaduto nel villaggio di Acholpii, dove i suoi seguaci avevano massacrato un centinaio di persone. Come in altri attacchi dell’Lra, il villaggio era stato dato alle fiamme e i cadaveri sparpagliati tutto intorno. Tuttavia non è stato questo a colpirmi. Mentre mi addentravo nella boscaglia ai margini del villaggio, ho visto un neonato vivo che succhiava al seno di sua madre. Lei era morta.
L’Lra ha raso al suolo molti villaggi come questo. Nell’aprile del 1995 trecento persone sono morte ad Atiak, nel febbraio del 2004 ne sono morte più di duecento a Barlonyo. Kony, un sedicente mistico e profeta, ha lanciato una trentina di anni fa una sanguinosa ribellione contro il governo di Kampala nel tentativo di imporre la sua versione dei dieci comandamenti nel nord dell’Uganda. Da allora la sua milizia ha massacrato più di centomila persone e rapito più di sessantamila bambini.
L’Lra è stato allontanato dall’Uganda nel 2004, dopo una serie di fallimentari colloqui di pace con Kony e i suoi luogotenenti. È questo il contesto in cui ho conosciuto lui e i suoi comandanti, tra cui Dominic Ongwen, che all’inizio di dicembre è stato processato alla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja per settanta capi d’imputazione per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È il primo combattente dell’Lra a essere processato.
Quando nel 2006 sono stati annunciati nuovi colloqui di pace ho fatto di tutto per andarci. Il posto designato era un villaggio congolese che in pochi erano in grado di localizzare su una mappa. Ho fatto la prima parte del viaggio per raggiungere la destinazione a bordo di un Antonov delle Nazioni Unite, che mi ha portato fino alla famigerata città di Maridi, nell’attuale Sud Sudan. Siamo atterrati sotto una pioggia battente e i nervosissimi piloti russi non hanno neppure spento i motori per poter ripartire il più velocemente possibile.
Ho trovato riparo in un bar in cui i soldati sudsudanesi barattavano tazze di proiettili con lo stesso quantitativo di gin distillato in casa o con bottiglie di birra ugandese. Dopo se ne andavano barcollando nell’oscurità, con i fucili e le armi automatiche in spalle, tracannando alcolici e minacciando di sparare a chiunque gli si parasse davanti.
Un viaggio verso il nulla
Il giorno dopo abbiamo proseguito il nostro viaggio verso l’ignoto a bordo di un 4x4 diretto al confine tra Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana. Era quello il luogo in cui Kony aveva accettato di incontrare i giornalisti e i delegati ai colloqui di pace. Quella che abbiamo percorso difficilmente poteva essere definita una “strada”, e di sicuro era la peggiore che avessi mai visto. Ma questo non ha in alcun modo rallentato i militari sudsudanesi che ci facevano da autisti (alcuni dei quali ero sicuro di averli già visti al bar la sera prima, e altri continuavano a bere birra mentre guidavano).
Rami e spine mi stracciavano i vestiti mentre venivo sballottato nel retro del pick-up, aggrappato con tutte le mie forze al bordo del cassone. In almeno tre diverse occasioni gli autisti hanno fatto rovesciare i veicoli, mandando per aria i passeggeri e i loro bagagli.
Dopo una giornata molto lunga, abbiamo raggiunto Nabanga, un accampamento militare sudsudanese molto isolato. Qui ci sono state offerte per la notte delle capanne abbandonate, senza porte e infestate dalle pulci. Per i quattro giorni successivi ho utilizzato sacchi di mais come materasso e cuscini, e ho mangiato acqua e biscotti in attesa di vedere Kony. Non si è mai presentato.
Nonostante la delusione, ci ho provato ancora non appena si è presentata l’opportunità. Stavolta l’Onu ci ha trasportato in aereo fino a Nabanga, evitandoci il tragitto attraverso la foresta in mano ad autisti ubriachi che guidavano a tutta velocità. Da lì ci siamo addentrati in macchina nella giungla, fino a un posto chiamato Ri-kwangba, dove ad attenderci c’era Vincent Otti, il numero due di Kony, anche lui un noto assassino.
Al nostro arrivo siamo stati perquisiti da giovani ribelli dell’Lra con i dreadlock che sono poi spariti con i nostri bagagli non appena la marcia è cominciata. Per sei terribili ore abbiamo camminato attraverso la foresta e corsi d’acqua. E se Kony avesse cambiato idea e ci avesse uccisi tutti?
Con il calare delle tenebre abbiamo raggiunto una radura in cui si trovava il principale accampamento dell’Lra. Era nascosto sotto la fitta copertura offerta dalla foresta, con una roccia imponente che proteggeva il lato settentrionale e un’altra su quello orientale che fungeva anche da posto di vedetta. C’era una sorgente in cima a una delle rocce, che si pensava fosse un luogo sacro per Kony. L’acqua sgorgava pura, chiara e fresca, e zampillava in una stretta gola sovrastante l’accampamento. In un’altra radura c’erano orti di patate dolci, fagioli e verdure. In un certo senso era un idillio.
Ci è stato detto di aspettare. Non potevamo usare i telefoni o le macchine fotografiche finché non ci fosse stato dato il permesso. Quando la temperatura si è abbassata, è stato accesso un fuoco.
Più tardi mi è stata mostrata una capanna con il tetto di paglia all’esterno della quale era stato collocato un bacile pieno di acqua tiepida e un pezzo di sapone, un asciugamano e una spugna. Mentre mi lavavo, mi chiedevo come avrei fatto a ritrovare la strada per tornare in Uganda se le cose fossero andate male. Mi chiedevo se i ribelli ci avrebbero uccisi nel cuore della notte, o se l’esercito ugandese avrebbe lanciato un attacco. Mi chiedevo se Kony si sarebbe fatto vivo.
Abbiamo cenato con riso, pane di mais, patate dolci, verdure fresche e selvaggina affumicata. Un gradito cambiamento rispetto ai biscotti secchi della precedente spedizione. Dopo cena ho parlato con Otti davanti al fuoco. Era curioso di sapere come si vive a Kampala, la capitale ugandese.
Poco dopo l’alba ho visto Kony. Si trovava dietro una palizzata, indossava una maglietta e un cappello militare, e giocava con un neonato che sembrava di pochi mesi più grande di quello che avevo visto succhiare il seno della madre morta ad Acholpii.
Finalmente era venuto il momento di incontrare il famigerato signore della guerra e i suoi comandanti più importanti, tra cui Okot Odhiambo e Dominic Ongwen che, come Kony e Otti, erano ricercati per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale (Cpi). Oggi solo Ongwen è stato arrestato, dopo essersi consegnato spontaneamente. Kony è ancora latitante, mentre si ritiene che Otti e Odhiambo siano morti.
Abbiamo bevuto tè insieme, ma abbiamo parlato ben poco. Ongwen era particolarmente silenzioso e guardingo. Quando finalmente Kony si è fatto vedere, aveva indosso l’uniforme militare completa. Ci siamo stretti la mano.
Durante uno sconclusionato discorso di due ore Kony, che sostiene di essere guidato dallo spirito, si è mostrato spesso incoerente e propenso a ridacchiare timidamente. Ha negato di aver ucciso, sostenendo piuttosto di “combattere per il suo popolo”, cioè gli acholi del nord dell’Uganda. Otti ha poi chiarito che a volte è capitato che qualcuno “sia morto durante le sparatorie”.
Siamo rimasti lì per diversi giorni, mentre i tentativi di avviare dei negoziati di pace formali tra Kony e il governo ugandese andavano per le lunghe, e i combattenti e i leader dell’Lra si abituavano ad averci attorno. Una sera Kony si è unito a noi mentre guardavamo un film di kung fu di Jackie Chan sul lettore dvd portatile di Otti. Non ricordo di quale film si trattasse, ma ricordo che Kony spesso sorrideva, scoppiava a ridere e batteva i piedi mentre Jackie Chan distribuiva pugni ai suoi avversari.
Il giorno dopo abbiamo cominciato il lungo viaggio per tornare a Kampala. Purtroppo i negoziati non avevano portato a un un accordo di pace e anche se i massacri ugandesi di cui avevo parlato un tempo si erano fermati in Uganda, le violenze proseguivano altrove. Dopo essere stato allontanato dall’Uganda, l’Lra ha continuato a terrorizzare parte della Repubblica Democratica del Congo e della Repubblica Centrafricana.
Incontrare di persona alcuni degli uomini più ricercati del mondo è stata un’esperienza surreale. Nello stringergli la mano ho pensato alle centinaia, migliaia di persone massacrate a causa di quelle mani. Quando i nostri occhi si sono incrociati, lui è apparso nervoso e io ho distolto lo sguardo. Sembrava per la maggior parte del tempo immerso nei suoi pensieri, ma gli piaceva la compagnia di altre persone.
È stata un’esperienza utile, perché mi ha aiutato a capire meglio il conflitto e i suoi protagonisti. Non avrei mai pensato che Kony, un uomo presumibilmente responsabile di tanti morti e tante sofferenze, potesse essere affettuoso con i bambini. Le sue numerose mogli e i suoi tanti figli erano nell’accampamento dove siamo stati ospitati, e l’ho visto spesso giocare con i bambini. Ne faceva saltellare uno sulle ginocchia, altri li portava in giro in braccio.
Aveva molte mogli e i bambini erano seguiti da balie, ragazze giovanissime che erano state rapite dalle loro case e che alla fine sarebbero diventate a loro volta sue mogli.
Rideva. Non spesso, ma di solito scoppiava a ridere all’improvviso. Non fumava né beveva alcolici, ma mi ha offerto del vino scuro prodotto in loco che a suo dire era stato ricavato dalla linfa di alcuni alberi a Garamba e veniva servito solo agli ospiti importanti. Era dolce e mi ha reso alticcio per un po’, ma poi l’effetto è svanito quasi subito e mi ha lasciato un sapore amaro in bocca. Da bravo ospite, Kony mi chiedeva se avevo mangiato.
Ora non seguo più le incursioni dell’Lra, ma questa storia per me non è finita. Il prossimo passo, per me come per tante altre persone nell’Uganda del nord, sarà ascoltare la testimonianza di Ongwen al processo dell’Aja e seguire il corso della giustizia per le vittime dell’Lra, come la madre il cui figlio, tanti anni fa, è rimasto orfano nel villaggio di Acholpii.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Making-of dell’Agence France-presse. Nel blog, giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.