Se siete alla ricerca di certezze in questi tempi incerti, eccovi serviti: “Ci sarà un’altra pandemia”, promette Kathryn Jacobsen, epidemiologa dell’università George Mason di Fairfax, in Virginia. Non sappiamo quale sarà la malattia, dove e quando colpirà né quanto sarà pericolosa, ma faremmo meglio a prepararci, perché potrebbe arrivare in qualsiasi momento ed essere peggiore di quella in corso. “Non possiamo abbassare la guardia”, avverte Jacobsen.

In teoria la strategia per affrontare le epidemie globali è abbastanza chiara, spiega Kenneth Timmis, microbiologo dell’Università tecnica di Braunschweig, in Germania. “La strategia per combattere le pandemie è sempre la stessa: sorveglianza, interruzione delle catene di trasmissione e rafforzamento delle misure di prevenzione e delle strutture sanitarie”. Questo metodo, secondo Timmis, resta valido anche se l’evoluzione, la natura e la fonte dei nuovi agenti patogeni sono molto incerte. “Non sai per cosa ti stai preparando, quindi devi mantenere un approccio generico. Ci sono alcuni provvedimenti da prendere che sono uguali per ogni paese e ogni pandemia. Abbiamo dunque bisogno di un piano universale”.

Il mondo può già contare su un buon sistema di difesa, sotto forma di un accordo globale dal nome piuttosto prosaico considerando la drammaticità del tema: il Regolamento sanitario internazionale (Ihr).

Tutti i 194 paesi che fanno parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) hanno firmato il regolamento, una guida per una reazione d’emergenza in caso di pandemia. Secondo Jacobsen l’Ihr è un meccanismo adeguato. “Abbiamo bisogno di un accordo internazionale che ci permetta di lavorare insieme per scongiurare la prossima pandemia, ma non dobbiamo cominciare da zero. L’Ihr è un ottimo punto di partenza”. In poche parole, riassumendo una vicenda lunga e complessa, tutto ciò che il mondo deve fare per prepararsi alla prossima emergenza è applicare il regolamento.

Sei malattie da fermare
Sfortunatamente è più facile a dirsi che a farsi. L’Ihr affonda le sue radici nelle epidemie di colera che hanno martoriato l’Europa nell’ottocento. All’epoca l’emergenza sanitaria partorì un trattato sanitario globale, la Convenzione sanitaria internazionale del 1903. Dopo la fondazione dell’Oms, nel 1948, l’organizzazione adattò l’accordo precedente creando il Regolamento internazionale per la salute, sostituito nel 1969 dal Regolamento sanitario internazionale. Lo scopo dell’accordo era quello di prevenire la diffusione di sei malattie: colera, peste, tifo, febbre ricorrente, vaiolo e febbre gialla.

Nel 1995 l’Oms ha cominciato a rivedere l’Ihr per adeguarlo al nuovo panorama sanitario, segnato dalla scomparsa del vaiolo, dalla crescita della mobilità e del commercio internazionale e dalla minaccia di nuove malattie come l’ebola. Dieci anni dopo, i paesi dell’Oms hanno firmato il nuovo Ihr, che è entrato in vigore nel mese di giugno del 2007. L’obiettivo generale del nuovo regolamento era quello di “prevenire, controllare, proteggere e fornire una risposta sanitaria pubblica alla diffusione delle malattie a livello internazionale (in modo commisurato e limitato ai rischi per la salute, evitando interferenze superflue negli spostamenti e nel commercio)”.

Oggi le circa 80 pagine del regolamento sono disponibili in sei lingue. Le norme riguardano aspetti diversi, dal monitoraggio del rischio di contagio nei punti d’accesso frontalieri alle misure da adottare per proteggere i dati sanitari personali durante una crisi. Nel regolamento è indicato anche il tempo che dovrebbero impiegare i governi per valutare la situazione e intervenire dopo la comparsa di una nuova minaccia.

I paesi devono dichiarare e poi affrontare le Emergenze sanitarie di portata internazionale (Pheic), tra cui figurano le pandemie (il regolamento comprende anche una tabella per aiutare i governi a stabilire se un’emergenza risponde ai criteri fissati). Dal 2007 si sono verificati sei casi di Pheic: l’influenza H1N1 del 2009 (detta influenza suina), i passi indietro nell’eradicazione della poliomielite nel 2014, l’epidemia di ebola del 2014, il virus Zika del 2016 e l’attuale pandemia di covid-19.

Tutti i paesi avrebbero dovuto rivedere urgentemente i loro piani di sicurezza

Nel caso del covid-19, l’Oms ha dichiarato la Pheic il 30 gennaio, quando erano stati registrati casi di contagio in venti paesi tra cui Cina, Thailandia, Giappone, Francia, Australia, Germania, India e Stati Uniti. Regno Unito e Italia hanno annunciato di aver riscontratoinfezioni da Sars-cov-2 appena un giorno più tardi.

La dichiarazione dell’Oms ha immediatamente innescato le procedure previste dall’Ihr, con una riunione d’emergenza della commissione dell’Oms e la pubblicazione di una serie di raccomandazioni rivolte a tutti i paesi dell’organizzazione, tra cui quella di rivedere urgentemente i piani di sicurezza e prepararsi a identificare, isolare e assistere le persone contagiate, cercando al contempo di bloccare la trasmissione del virus.

L’Oms ha continuato a suonare l’allarme. Poche settimane dopo, in un rapporto sulla situazione in Cina, l’organizzazione ha dichiarato che tutti i paesi, anche quelli che non avevano registrato casi di contagio, avrebbero dovuto “aumentare la sorveglianza, perché il rilevamento tempestivo dei contagi è fondamentale per contenere la diffusione della malattia”.

Il messaggio, però, non è arrivato a tutti. L’11 marzo l’Oms ha dichiarato ufficialmente la pandemia. A quel punto Italia, Spagna, Francia e Germania – i paesi più colpiti in Europa, con una crescita esponenziale dei casi e più di novecento vittime in totale – facevano i test diagnostici (i tamponi) soltanto alle persone che manifestavano i sintomi della malattia, nonostante si cominciasse a capire che anche gli asintomatici potevano trasmettere il virus. L’Iran, il paese più colpito in Asia dopo la Cina, non aveva alcun piano per l’analisi dei campioni.

Il 16 marzo il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha sottolineato che il mondo non stava ancora facendo abbastanza, soprattutto per quanto riguardava i test diagnostici, l’isolamento e il tracciamento dei contatti, ovvero “la spina dorsale” della risposta al virus. “Abbiamo un messaggio semplice per tutti i governi: test, test, test”, ha insistito Ghebreyesus.

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Alcuni paesi hanno seguito il consiglio dell’Oms. La Corea del Sud aveva già messo in piedi un’estesa operazione di monitoraggio che comprendeva l’impiego di termocamere negli aeroporti. Le persone affette da covid-19 erano obbligate per legge a isolarsi, e tutti i loro contatti venivano tracciati (a volte in modo fin troppo invadente) e sottoposti ai test. Quei provvedimenti hanno permesso al governo di contenere rapidamente l’epidemia ed evitare l’imposizione di un lockdown. All’inizio di maggio le autorità sudcoreane hanno addirittura cominciato a eliminare alcune misure di distanziamento fisico, anche se poche settimane dopo sono state costrette a fare marcia indietro davanti a un aumento dei casi. Al 18 giugno la Corea del Sud ha registrato appena 12.257 casi e 280 decessi.

Ma ci sono stati paesi che hanno ignorato le raccomandazioni dell’Oms e non sono riusciti a contenere l’epidemia. Il Regno Unito ha avviato un programma di analisi e tracciamento dei contatti a febbraio, ma lo ha immediatamente abbandonato per motivi che, secondo la Commissione scientifica e tecnologica della camera dei comuni, non sono ancora stati adeguatamente chiariti. Al momento, il paese sta cominciando a cancellare le restrizioni pur avendo registrato circa 300mila casi e più di 42mila decessi.

Il ruolo degli esperti
È lecito supporre che i paesi già colpiti in passato da una pandemia abbiano preso la minaccia più seriamente, reagendo in modo tempestivo e ottenendo risultati migliori nel contenimento del virus. Nell’ultimo decennio, per esempio, Arabia Saudita, Corea del Sud ed Emirati Arabi Uniti hanno dovuto affrontare un’epidemia di Mers. Tutti e tre i governi hanno rapidamente imposto una serie di restrizioni per contrastare il covid-19.

Secondo Timmis un altro fattore che sembra aver avuto un ruolo decisivo sulla risposta alla crisi è la presenza di esperti di pandemia all’interno dei governi. “Senza competenze avanzate la reazione alle catastrofi è solitamente lenta, episodica e inadeguata”. La risposta degli Stati Uniti, per esempio, è stata molto criticata, e attualmente il paese è il primo al mondo per numero di casi e decessi. Un recente editoriale pubblicato dalla rivista medica The Lancet sottolineava che gran parte degli errori commessi nella gestione del contagio sono legati a decisioni politiche che hanno “[marginalizzato e ostacolato](https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)31140-5/fulltext)” i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc).

Eppure, molte ipotesi sulla discrepanza di risultati tra un paese e l’altro non sono supportate da prove concrete, sottolinea Thomas Hale, ricercatore dell’università di Oxford, tra i coordinatori di un progetto chiamato Covid-19 government response tracker. “C’è molta casualità. Il motivo risiede nell’effetto gregge: in condizioni di estrema incertezza i governi hanno copiato le soluzioni di altri stati”.

Secondo il funzionario dell’Oms Nirmal Kandel, il Regno Unito e la Corea del Sud sono partiti da livelli di preparazione elevati e sostanzialmente identici, soprattutto per quanto riguarda la capacità di monitoraggio (entrambi i paesi hanno ottenuto un punteggio del 100 per cento in una valutazione del 2018). Evidentemente la preparazione e la risposta sono due cose molto diverse, e questa è una lezione fondamentale da tenere presente in vista della prossima pandemia.

Altri paesi, invece, erano semplicemente impreparati. Quando la pandemia è stata dichiarata ufficialmente, Kendel e i suoi colleghi hanno valutato il livello di preparazione di tutti i paesi dell’Oms, basandosi sui rapporti più recenti inviati durante il processo di analisi annuale dell’Ihr. L’esame ha riguardato quattro categorie – prevenzione, individuazione, risposta e impegno (che di fatto si traduce nelle risorse finanziarie e umane) – creando un’unità di misura chiamata Livello di prontezza operativa. La squadra di Kendel ha rilevato che sui 196 firmatari dell’Ihr appena 104 erano operativamente pronti per la pandemia, e soltanto 38 presentavano livelli massimi di preparazione. Quattordici paesi, tra cui economie avanzate come la Grecia, non avevano raccolto alcun dato. I livelli più bassi di preparazione sono stati riscontrati tra i paesi con redditi bassi o medio-bassi. Anche nella regione europea (di cui fanno parte alcuni paesi dell’Asia centrale) soltanto 18 stati su 49 hanno ottenuti i punteggi massimi.

Il Regno Unito ha ottenuto risultati insufficienti nell’individuazione delle malattie infettive nei punti d’ingresso, come gli aeroporti

La maggior parte delle economie avanzate ha raggiunto buoni risultati, ma in diversi casi sono emersi punti deboli. Australia e Nuova Zelanda, per esempio, hanno manifestato una scarsa capacità di rilevare le malattie trasmissibili dagli animali, mentre il Regno Unito ha ottenuto risultati insufficienti nell’individuazione e nella risposta alle malattie infettive nei punti d’ingresso, come gli aeroporti, una carenza grave per un grande snodo della mobilità globale. Gli Stati Uniti hanno evidenziato una mancanza di risorse umane per rendere operativo l’Ihr. I paesi in via di sviluppo presentavano molteplici debolezze.

“Alcuni paesi hanno strutture più solide rispetto ad altri”, sottolinea Kandel. “Tuttavia molti sono impreparati e tutti dovrebbero lavorare per migliorare la loro capacità di risposta. È indispensabile aumentare al più presto gli investimenti”.

Accordi di difesa
Naturalmente la predisposizione costituisce soltanto metà dell’opera. Come dimostrano ampiamente le esperienze diverse di Corea del Sud e Regno Unito, anche i piani migliori possono essere successivamente compromessi. Inoltre, anche se la pianificazione dev’essere generica, la risposta va assolutamente tarata sulla pericolosità e la contagiosità dell’agente patogeno in questione. “Malattie diverse richiedono risposte diverse”, conferma Timmis. “Ma le caratteristiche specifiche si manifestano soltanto quando ci si trova ormai nel mezzo della pandemia”.

Cosa si può fare considerando queste problematiche e le diverse mancanze evidenziate? Secondo Kandel, nei cinque anni precedenti alla pandemia di covid-19 sono stati compiuti importanti passi avanti verso la completa applicazione dell’Ihr. Quindi forse è solo questione di tempo prima che il lavoro sia portato a termine, e una volta raggiunto il necessario livello di preparazione basterà mantenerlo.

Secondo Jacobsen, però, le cose non stanno così. L’Ihr dovrà continuare a essere alla base del piano preliminare globale contro le pandemie, ma dovrà essere applicato il prima possibile in tutti i paesi, a prescindere dal livello di ricchezza. Di conseguenza i paesi ad alto reddito dovranno aiutare gli altri a tenere il passo, non come gesto di carità, ma per difendere i propri interessi. “In realtà è un investimento sulla loro stessa sicurezza sanitaria. Nel caso delle malattie infettive dobbiamo tenere presente che un virus originato in un paese può diffondersi ovunque”, spiega. L’Ihr dovrà inoltre essere aggiornato alla luce del covid-19. “Non è un documento perfetto. Prevediamo che dopo la pandemia sarà modificato. L’esperienza attuale ci insegnerà cosa fare per prepararci alla prossima pandemia”.

Come notò Harvey Fineberg, presidente dell’Istituto di medicina di Washington, nella sua prefazione al resoconto dell’Oms sull’epidemia di H1N1 del 2009, “le pandemie possono essere terribili insegnanti”.

Secondo Jacobsen i governi del pianeta dovrebbero cominciare a costruire un ulteriore livello di difesa, applicando un accordo globale poco conosciuto chiamato Quadro di riferimento di Sendai per la riduzione del rischio di disastri, firmato da tutti i paesi delle Nazioni Unite nel 2015. “Il documento di Sendai riguarda prima di tutto la costruzione di una resilienza adeguata agli eventi associati al cambiamento climatico, ma cita anche le pandemie”, spiega. “L’idea è quella di creare una pianificazione rispetto a tutti i pericoli: se i paesi sono nelle condizioni di gestire un tipo di disastro, saranno più preparati ad affrontare anche rischi di altro genere”.

Un’altra opinione piuttosto diffusa è che la pianificazione per le pandemie debba basarsi su un approccio chiamato One health, che riconosce il legame intrinseco tra la salute degli esseri umani, della fauna e degli ecosistemi. L’iniziativa è stata sviluppata dall’Organizzazione mondiale della sanità animale, partendo anche dalla consapevolezza che la coesistenza ravvicinata tra una popolazione umana in crescita e gli animali selvatici aumenta le possibilità di trasmissione degli agenti patogeni tra una specie e l’altra.

Un aspetto fondamentale dell’approccio One health è il monitoraggio dei virus animali potenzialmente pericolosi. “Possiamo presumere che la fonte della prossima pandemia sarà un virus animale, probabilmente un coronavirus il cui ospite naturale sarà una specie selvatica, forse il pipistrello”, spiega Timmis. Si tratta di un altro ambito in cui il mondo deve impegnarsi di più.

Vaccini e terapie
Si è parlato molto della necessità di migliorare la capacità di sviluppare e produrre più rapidamente vaccini e cure in caso di un’epidemia. In questo settore sono stati fatti importanti progressi: nel 2016, proprio con questo obiettivo, è stata creata la Coalizione per le innovazioni in materia di preparazione alle epidemie. L’organizzazione sta contribuendo a sviluppare molti dei vaccini attualmente in fase di studio. Ma anche se i miglioramenti tecnologici sono sicuramente importanti per rafforzare la preparazione, non costituiscono l’elemento decisivo della prevenzione.

“Non possiamo affidarci alle nuove tecnologie”, sottolinea Jacobsen. “Uno dei problemi attuali è che molta gente pensa che alla fine avremo una tecnologia risolutiva in grado di venire a capo di tutto nell’arco di un paio di settimane o di mesi. Ma la verità è che in questo momento non siamo nemmeno sicuri che avremo un vaccino, quindi presupporre che la tecnologia ci salverà non è l’atteggiamento giusto”.

La buona notizia è che esiste una ricetta per scongiurare i disastri, basta sulle tecnologie e le conoscenze di cui siamo già in possesso. Tuttavia bisogna capire se la necessità di prepararsi per le prossime emergenze riceverà l’attenzione che merita prima dell’avvento di una nuova pandemia. Di recente il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato di ritirare gli Stati Uniti dall’Oms e interrompere i finanziamenti. Le conseguenze di una decisione simile per la regolamentazione in atto e per la preparazione in vista delle prossime pandemie sono difficili da prevedere, ma molti temono che Trump possa compromettere gli sforzi che mirano a garantire una risposta internazionale coerente.

Di sicuro serviranno grandi risorse economiche per prepararsi meglio, ma Timmis sottolinea che il costo sarà comunque inferiore rispetto a quello di una pandemia, oltre al fatto che i governi hanno il dovere di proteggere i propri cittadini dalle epidemie future.

Timmis riconosce che un governo potrebbe esitare davanti all’idea di spendere grandi quantità di denaro in risorse che, per definizione, non soddisfano una necessità immediata. Ma è anche vero che gli stati spendono somme enormi per attrezzature militari che sperano di non dover mai usare. La preparazione per le pandemie dovrebbe essere affrontata nello stesso modo. “È semplicemente una delle tante polizze assicurative che lo stato deve pagare”.

In questo momento non farsi trovare impreparati per le prossime pandemie viene percepito come un’ovvia priorità, ma Jacobsen sottolinea che i governi hanno la memoria corta. “Credo che alla fine dell’anno sarà più difficile convincere i paesi a investire nella preparazione”, spiega. “Le autorità tendono a operare in un’alternanza di panico e negligenza. Stiamo già osservando l’inizio della fase negligente con la corsa alla riapertura e il trasferimento delle risorse dalla gestione dell’emergenza sanitaria alla ripresa economica.

Nel 2011 l’Oms concluse che la pandemia di H1N1 avrebbe potuto avere conseguenze ben peggiori. “Stavolta siamo stati fortunati”, scrisse Fineberg. Forse in futuro ricorderemo la pandemia di covid-19 e penseremo di essere stati fortunati un’altra volta. Ma la fortuna non dura in eterno.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale britannico di divulgazione scientifica New Scientist

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