Questo articolo è stato pubblicato il 16 maggio 2014 nel numero 1051 di Internazionale.

La mattina del 24 ottobre 2010 Chhewang Nima, uno sherpa di 43 anni con una lunga esperienza di scalate, cominciò la faticosa salita del Baruntse, una ripida vetta a due spioventi vicino all’Everest, nel Nepal orientale. C’erano nuvole alte e raffiche di vento forte che trasportavano neve fresca. Il Baruntse, alto poco più di settemila metri e non particolarmente difficile, non è una delle cime che attirano le grandi spedizioni mondiali, ma è comunque una tappa popolare. Legato a Chhewang c’era Nima Gyalzen, uno sherpa poco più che trentenne di Rolwaling, una valle a ovest. Chhewang, che di solito lavorava per la società sportiva Alpine ascents international, partecipava a quella spedizione da freelance per mille dollari. L’unica cliente era Melissa Arnot, ventisei anni, una guida alpina di Sun Valley, nell’Idaho. Nima Gyalzen lavorava per un team iraniano. Quel giorno i due stavano aprendo la strada e sistemando le corde che Arnot, gli iraniani e varie altre squadre che si trovavano più in basso avrebbero usato per raggiungere la cima.

Melissa Arnot era nel campo alto. Aveva deciso di raggiungerli il giorno dopo per dare agli sherpa il tempo di lavorare. La neve era alta ma, ha raccontato Arnot, “avevo visto che loro si muovevano rapidamente e avevo pensato che forse erano arrivati fino in cima”. Intorno alle 14, a soli 180 metri dalla vetta, Chhewang stava piantando un picchetto nel ghiaccio quando sotto di lui il suolo si aprì come una catasta di legna e cedette. In quel momento si trovava in piedi su una cornice, una fragile formazione di neve indurita dal vento che dal crinale si protende nel vuoto. Senza neppure avere il tempo di farsi prendere dal panico o reagire, Chhewang Nima scomparve.

Da sapere
Sherpa in lutto

◆ Il 18 aprile 2014 una valanga ha travolto e ucciso 16 sherpa nepalesi sull’Everest. Gli uomini stavano lavorando sulla cascata di ghiaccio Khumbu per mettere in sicurezza il passaggio in vista dell’arrivo degli scalatori occidentali durante la stagione che dura circa due mesi fino a fine maggio. In seguito all’incidente, il peggiore nella storia dell’Everest, gli sherpa nepalesi hanno deciso di terminare la stagione delle scalate in segno di rispetto per i colleghi morti e hanno chiesto un sostegno a lungo termine per le famiglie delle vittime. Circa 300 alpinisti stranieri hanno rinunciato a scalare la vetta più alta del mondo dal versante nepalese, preferito a quello cinese dalle spedizioni commerciali. Dopo aver annunciato inizialmente un risarcimento di 400 dollari che ha provocato l’ira dei familiari delle vittime, il governo ha promesso ai parenti degli sherpa morti 15mila dollari tra indennizzo e assicurazione e aiuti per l’istruzione e il welfare. Nel 2013 l’industria del turismo ha portato alle casse del paese 370 milioni di dollari, pari al 3 per cento del pil. Negli ultimi anni il ministero del turismo nepalese ha ricevuto più di tre milioni di dollari all’anno dagli alpinisti che scalano l’Everest. Bbc


Stando al racconto di Nima Gyalzen, alcuni blocchi di ghiaccio, cadendo, avevano tranciato la corda facendo precipitare Chhewang e, con tutta probabilità, evitando a Nima di essere a sua volta trascinato nel precipizio. Non trovando più traccia del suo compagno, Nima Gyalzen cominciò a scendere freneticamente. Melissa Arnot, che lo accolse al campo alto, inizialmente scambiò la sua isteria per esultanza. “Gli portai del tè”, ricorda, “e in sherpa english, il dialetto dell’Everest, gli dissi: ‘Bravi, siete arrivati in cima?’”. “No, no, no, incidente”, rispose Nima Gyalzen. “Chhewang Nima finito”. E si accasciò nella neve. Arnot chiamò il suo agente locale chiedendo di mandare un elicottero per cercare un cadavere.

I pericoli della montagna
Prima della tragica stagione del 1996 descritta da Jon Krakauer in Aria sottile (Corbaccio 2005) – una tempesta travolse quattro spedizioni sull’Everest e Krakauer era tra i sopravvissuti – la sfortunata guida statunitense Scott Fischer aveva raccontato all’autore del libro: “Abbiamo costruito una strada di mattoni gialli che porta in cima”. Si riferiva ai chilometri di corde che oggi vengono disposti ogni anno lungo buona parte del Colle sud, la via che dal campo base porta agli 8.848 metri della vetta. Più precisamente, però, sono gli sherpa che realizzano l’opera e che, troppo spesso, ne diventano le vittime. Per via del loro lavoro, che consiste nel sistemare le corde, fare avanti e indietro portando provviste, e accompagnare i clienti che pagano per raggiungere la cima dell’Everest e di decine di altre vette himalayane, gli sherpa sono esposti ai pericoli più grandi che la montagna presenta: caduta di massi, crepacci, assideramento, sfinimento, trombi e ictus.

La primavera del 2013 ha segnato un’altra sconcertante catena di tragedie, che ben illustra quanto lavorare sull’Everest sia pericoloso. Il 7 aprile Mingma, uno dei leggendari “dottori della cascata di ghiaccio” – gli sherpa che mettono in sicurezza il percorso attraverso la cascata Khumbu per tutte le squadre che scalano la montagna – è caduto in un crepaccio nei pressi del campo 2. Il 5 maggio Eric Simonson, socio titolare della International Mountain Guides, scriveva che anche la sua squadra aveva “perso un membro della nostra famiglia sherpa”. DaRita, che ha 37 anni, si trovava al campo 3 quando ha accusato un malore ed è morto di lì a poco. Tre giorni dopo Lobsang, 22 anni, che stava tornando dal campo 3 per conto della Seven Summit Treks, è morto cadendo in un crepaccio. E il 16 maggio Namgyal, che lavorava per la Explore Himalaya, è morto, pare in seguito a un infarto, dopo aver raggiunto la vetta per la decima volta.

Stando all’Himalayan database, che tiene traccia di questi incidenti, sulle montagne del Nepal sono morti lavorando 174 sherpa, di cui quindici sull’Everest negli ultimi quindici anni. Nello stesso periodo, almeno altrettanti sherpa sono rimasti invalidi in seguito alla caduta di massi, all’assideramento e a malattie da altitudine come ictus ed edema. Uno sherpa che lavora al di sopra del campo base dell’Everest ha dieci volte più probabilità di morire rispetto a un pescatore statunitense – che secondo i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie è il mestiere più pericoloso in America in ambito civile – e oltre 3,5 probabilità in più di morire rispetto a un soldato statunitense nei primi quattro anni della guerra in Iraq. Come rischi messi in conto da chi paga per raggiungere la vetta, i pericoli della scalata possono avere un senso. Ma come dato statistico relativo alla sicurezza sul posto di lavoro, un tasso di mortalità dell’1,2 per cento è scandaloso. Al mondo non esiste un’altra industria che con tale frequenza uccide e procura menomazioni ai suoi lavoratori per offrire un servizio ai clienti.

A Kathmandu e nei villaggi della regione del Khumbu, le famiglie delle vittime rimangono senza una fonte di sostentamento, oppure, in caso di lesioni gravi, sono costrette a scegliere se occuparsi di un marito disabile o abbandonarlo. Prendiamo l’esempio di due sherpa rimasti paralizzati dopo un ictus. Ang Temba, che ha 54 anni, ha avuto il suo primo ictus sulla parete nord dell’Everest nel 2006, mentre lavorava per una squadra giapponese. Sua moglie Furba, 48 anni, che si prende cura di lui nella loro casa di Kathmandu, ricorda l’avvertimento del medico giapponese che lo ha visitato al campo base dopo che l’avevano soccorso: “Gli aveva detto di non salire più sulla montagna”. Un anno dopo, però, dopo essersi ripreso abbastanza rapidamente, Ang Temba ha ricevuto un’offerta di lavoro sull’Everest. “Non c’è alternativa alla montagna”, spiega Furba illustrando la scelta davanti alla quale si ritrovano tanti sherpa. “Se avesse dato retta a quel medico, adesso non sarebbe in queste condizioni. È stata una decisione sbagliata”. Un giorno del 2007, poco dopo che Ang era tornato da una scalata, Furba lo ha trovato sul divano privo di sensi. Oggi ha la parte destra del corpo paralizzata, e non riesce più a parlare. “È più faticoso che occuparsi dei bambini”, dice Furba. “I bisogni deve farli nella padella”.

E Ang Temba è stato relativamente fortunato: Furba è rimasta al suo fianco riuscendo a ottenere circa 5.500 dollari quando, dopo una disputa durata più di un anno, la società di assicurazioni del suo datore di lavoro ha riconosciuto che la disabilità del marito era completa, irreversibile e causata dal lavoro.

Lhakpa Gyalzen, che ha 65 anni, colpito da un ictus nel 2000 mentre scalava la montagna per una spedizione cinese, non è stato altrettanto fortunato. Riesce ancora a muoversi usando un bastone e ha problemi a parlare, ma la moglie e i figli se ne sono andati. Una sera dell’ottobre del 2012 sono andato a trovarlo a Phortse, un villaggio a venticinque chilometri dall’Everest. Quando sono arrivato, Lhakpa Gyalzen non era in casa, ma la mattina dopo l’ho trovato a letto. Mangiava un piatto di riso in bianco che si era preparato da solo. La sera prima, mi ha spiegato, era caduto mentre avanzava zoppicando sul sentiero verso il fiume per raccogliere del bambù. Non riuscendo a rialzarsi, era rimasto lì a terra quasi tutta la notte, per poi trascinarsi a casa al mattino. “Tanto freddo. Tanta fame”, dice della sua nottata all’addiaccio. Lhakpa Gyalzen si trovava a 8.230 metri quando fu colpito dall’ictus. Immobilizzato, dormì lassù per due notti, prima che la spedizione cinese mandasse alcuni sherpa a soccorrerlo. Una volta sceso dalla montagna, dovette provvedere alle cure mediche di tasca sua.

Il prezzo della conquista
Casi come questi capitano ogni anno ma rimangono relativamente nell’ombra. Quando muore uno sherpa sull’Everest, puntualmente seguono i tributi accorati degli scalatori occidentali. “Gli sherpa sono gli eroi dell’Himalaya”, scriveva un team dell’aeronautica statunitense dopo la morte del “dottore della cascata” Mingma. Nella maggior parte dei casi è previsto il pagamento di un indennizzo da parte di un’assicurazione imposta dallo stato (fino al 2013 era di 4.600 dollari, oggi è raddoppiato). Le polizze sono a carico degli agenti nepalesi che organizzano sul posto gli aspetti logistici delle spedizioni straniere. E se lo sherpa morto era famoso, oppure lavorava per un’organizzazione importante, può succedere che si raccolgano offerte, com’è successo nel 2012 dopo che Dawa Tenzing, uno sherpa della Himalayan experience, è morto colpito da un ictus al campo 1. Lo scalatore professionista Conrad Anker, accompagnato dal titolare della Himalayan Experience Russel Brice, ha raggiunto a piedi Phortse per consegnare circa 600 dollari alla vedova dello sherpa, Jangmu, una contadina.

A sinistra, lo sherpa Stephan Rai raccoglie il foraggio per i suoi dzo. A destra, Jangmu, vedova dello sherpa Dawa Tenzing. (Grayson Schaffer)

Nonostante questo, le agenzie occidentali che organizzano le spedizioni, le guide e i loro clienti di rado si rendono conto delle conseguenze della morte di uno sherpa. Nell’ottobre del 2010, quand’è morto Chhewang Nima, Melissa Arnot ha dovuto affrontare quella realtà in prima persona. Dopo aver cercato il corpo, con lo stesso elicottero Arnot e Nima Gyalzen hanno raggiunto il villaggio di Chhewang atterrando in un campo di patate dietro la piccola casa da tè con annessa pensione costruita dallo sherpa con i suoi guadagni. Nel frattempo la notizia aveva già raggiunto la famiglia. “Da fuori sentivo i loro lamenti”, ricorda Arnot. Entrando ha trovato la vedova di Chhewang, Lhamu Chhiki, e i suoi figli maschi, all’epoca di quattordici e dodici anni, in cucina. “Mi sono inginocchiata davanti a lei e le ho chiesto scusa. Poi è arrivato un lama, che mi ha fatto uscire dicendo: ‘Ora non può stare qui, se ne deve andare’”.

Quella a cui ha assistito Arnot è una scena che nell’Himalaya si ripete fin dal 1895, anno in cui per la prima volta una spedizione britannica assoldò due uomini della zona perché li aiutassero a scalare gli 8.125 metri del Nanga Parbat, in Pakistan. Morirono entrambi sulla montagna. Ventisette anni dopo, nel 1922, durante l’assalto all’Everest di George Mallory, una valanga travolse una cordata uccidendo sette sherpa. Nel 1935 il pioniere dell’Everest Tenzing Norgay si procurò il suo primo incarico da portatore perché l’anno prima, sempre sul Nanga Parbat, erano morti sei degli sherpa più navigati. In quei primi anni di esplorazioni, le vittime erano considerate un prezzo da pagare per la conquista. Ma oggi la vetta dell’Everest vale ancora questi sacrifici umani?

Attrazione turistica
Negli ultimi dieci anni l’Everest si è trasformato in un’attrazione turistica, pilastro di un’industria nepalese, quella del viaggio avventuroso, che ogni anno frutta 370 milioni di dollari. Grazie a una crescita esplosiva dei servizi di guida commerciali, gli oltre 300 clienti paganti che ogni primavera arrivano per tentare la via della cresta sudorientale possono ridurre il rischio personale affidando i compiti più pericolosi agli sherpa. Per la forza lavoro, tuttavia, poco è cambiato. Le famiglie degli uomini morti durante la spedizione Mallory del 1922 ricevettero alla fine 250 rupie ciascuna, un indennizzo che, adeguato all’inflazione, equivale ai 4.600 dollari di oggi. Ma come avrebbe scoperto Melissa Arnot, quei soldi non fanno molta strada. Quand’è arrivata al villaggio di Chhewang, diversi lama erano già scesi dal monastero vicino per avviare i preparativi del puja, una cerimonia buddista che ha lo scopo di accelerare il processo di reincarnazione dello spirito del defunto. Cerimonie come queste, che possono costare quanto l’indennizzo sulla vita, finiscono spesso per aggiungere al dolore della vedova i debiti. Poco dopo, Arnot si è trovata faccia a faccia con i famigliari di Chhewang che volevano organizzare immediatamente una costosa spedizione di ricerca del cadavere. La fretta derivava dall’apprensione per lo spirito di Chhewang, che doveva essere liberato al massimo entro sette giorni attraverso la cremazione, altrimenti rischiava di smarrirsi e continuare a vagare sulla terra.

“Li ho supplicati di non andare”, dice Arnot. Temeva che nel tentativo di recuperare il corpo morissero altre persone. Loro sono andati lo stesso, ma senza riuscire a superare il campo base per via della neve. Arnot ha pagato di tasca sua 19.700 dollari per l’elicottero e il suo sponsor, Eddie Bauer, gliene ha spediti altri 7.000 per coprire le spese della puja. In seguito, Arnot si è assunta l’impegno di dare alla famiglia di Chhewang circa quattromila dollari all’anno fino a quando continuerà a lavorare come guida, anche se nemmeno questo è servito a metterle a posto la coscienza. “È il senso di colpa per il fatto di aver assunto una persona che in realtà non aveva scelta”, mi ha detto Arnot nell’ottobre del 2012 in Nepal, dove l’avevo raggiunta durante la sua seconda visita annuale, a piedi, alla vedova di Chhewang. “La mia passione ha generato un’industria che fa morire le persone. Tratta gli esseri umani come se fossero usa e getta, ed è questa la cosa più difficile da accettare”.

Il villaggio sherpa di Chhewang, Thame, si snoda su un alto costone di pascoli verdi affacciato sul fiume Bhote Kosi. A tre quarti d’ora di cammino verso valle c’è Thamo, dove vivono altre quaranta o cinquanta famiglie. Insieme occupano il primo appezzamento di terra arabile a valle del Nangpa La, il valico a 5.800 metri d’altezza vicino al Cho Oyu, che da cinquecento anni gli sherpa usano per raggiungere il Nepal dal Tibet. In questi due villaggi hanno anche vissuto alcuni degli sherpa più famosi della storia delle grandi scalate. Tenzing Norgay abitò a Thame prima di trasferirsi, nel 1932, a Darjeeling, in India, dove si organizzavano le spedizioni quando la monarchia nepalese non aveva ancora aperto il paese agli occidentali. Ang Rita, 65 anni e anche lui di Thamo, è salito sull’Everest dieci volte senza bombole di ossigeno, un record che gli ha procurato il soprannome di Leopardo delle nevi. E il Super sherpa Apa, sempre di Thamo, che oggi ha 53 anni, nel 2011 ha stabilito un record scalando l’Everest per la ventunesima volta.

Lo sherpa Tsering Tenzing (primo da destra) con i genitori e la sorella a Thamo, 2012. (Grayson Schaffer)

Con il suo fisico atletico, per Chhewang Nima diventare uno scalatore era inevitabile. Anche per lui, come per tutti i ragazzi del villaggio diventati adulti negli anni ottanta, supereroi come Ang Rita e Apa erano modelli da imitare. A quei tempi le spedizioni sull’Everest erano appannaggio esclusivo di squadre nazionali d’élite, ma fargli da supporto era già l’attività più redditizia. Gli scalatori riconoscevano la resistenza superiore degli sherpa ad altitudini elevate, un dono genetico confermato da studi scientifici: gli sherpa riescono a usare l’ossigeno in modo più efficiente. Loro, allora come oggi, erano consapevoli tanto dei rischi quanto delle opportunità.

Chhewang cominciò la sua carriera nel 1993, a 25 anni, come apprendista del cugino Lhakpa Rita presso la Alpine Ascents. Nel giro di tre anni il governo del Nepal arrivò a concedere un numero illimitato di permessi per la popolare via della cresta sudorientale. Questa scelta inaugurò l’era commerciale moltiplicando le occasioni per quei ragazzi che sognavano di farsi una reputazione sulle montagne. Grazie al lavoro di Chhewang e Lhakpa Rita, da vetta riservata a pochi e sceltissimi scalatori, l’Everest è diventato la meta di pacchetti-vacanza che costano fra i 30mila e i 120mila dollari e che chiunque abbia una carta di credito può prenotare online. Questo cambiamento ha trasformato Thame e Thamo in due specie di cittadine aziendali dove la maggior parte degli abitanti lavora per la Alpine Ascents. Il rapporto è redditizio per entrambe le parti. Lhakpa Rita è diventato uno dei sirdar (i capi degli sherpa) più rispettati e oggi, da poco naturalizzato cittadino statunitense, si divide tra Seattle e il Nepal. Anche Chhewang si era affermato come uno degli scalatori più affidabili del settore. Quand’è morto, aveva scalato l’Everest 19 volte e si avviava, nel giro di due anni, a battere il record del non più giovanissimo Apa. Nonostante fosse uno dei più noti, Chhewang guadagnava seimila dollari a stagione per riparare corde, rifornire i campi e trasportare l’attrezzatura, il cibo, le tende e l’ossigeno dei clienti su e giù per la montagna, mentre le migliori guide occidentali, che trasportano carichi minori ma sono responsabili dell’incolumità dei clienti, possono arrivare a guadagnare, incluse le mance, 50mila dollari. Con il suo stipendio, Chhewang manteneva non solo la moglie e i figli, ma anche le famiglie di alcuni dei suoi otto fratelli.

Due misure
“Negli Stati Uniti, se qualcuno scalasse l’Everest 19 volte sarebbe in tutte le pubblicità della Budweiser”, dice Norbu Tenzing Norgay, cinquant’anni, cugino di Chhewang nonché il più anziano tra i figli ancora in vita del pioniere dell’Everest Tenzing Norgay. “Gli sherpa non ricevono gli stessi riconoscimenti”. Quando Chhewang è morto, Norbu si trovava in India per lavoro. Saltando da un canale tv all’altro, capitò sulla Bbc che dava la notizia dell’incidente. La tragedia gli ha instillato dei dubbi su quanto sia giusta la professione da cui tanti suoi familiari continuano a dipendere. “Ho perso vari parenti sull’Everest e su altre cime, e tutti mentre trasportavano la roba degli altri”, mi dice. “I tempi sono cambiati, non siamo più negli anni cinquanta. L’Everest è un business e gli sherpa sono costretti a scalarlo perché c’è gente disposta a pagare 60mila dollari”. Pur apprezzando gli sforzi che Melissa Arnot e altri scalatori occidentali fanno per aiutarli, Norbu sa che la buona volontà non basta a ricostruire le famiglie distrutte dalle spedizioni. “L’intenzione di aiutare non basta. Ho visto troppe promesse non mantenute”.

Negli ultimi dieci anni, qualche miglioramento per gli sherpa che lavorano sull’Everest c’è stato. Agli albori delle spedizioni, ricevevano pochissimo addestramento e dovevano fare affidamento quasi solo sulla loro capacità di lavorare ad altitudini elevate. Oggi, molti dei 10.695 sherpa registrati come sirdar e accompagnatori seguono corsi offerti dalla Nepal Mountaineering Association del Langtang o dal Khumbu Climbing Center, una scuola di addestramento non profit per facchini d’alta quota a Phortse. La scuola, dove Chhewang insegnava regolarmente, è stata fondata nel 2003 dagli scalatori professionisti statunitensi Conrad Anker e Peter Athans. In entrambi i centri, gli sherpa imparano a praticare il salvataggio con corde e a pendenze estreme. Una scalatrice del Montana, Luanne Freer, nel 2003 ha lanciato la Everest ER clinic al campo base e offre cure gratuite a tutti gli sherpa le cui spedizioni stipulano un contratto con la sua organizzazione. Oggi, poi, esiste una piccola rete di sicurezza obbligatoria per aiutare gli sherpa feriti o per fornire aiuto alle famiglie in caso di decesso.

Da quando nel 2002 fu approvato il Tourist act amendment, il ministero del turismo e dell’aviazione nepalese impone a tutti gli agenti che organizzano spedizioni a livello locale di acquistare per tutti i loro facchini polizze per il soccorso e sulla vita. Per gli sherpa che lavorano sopra il campo base, fino al 2013 servivano almeno 4.600 dollari di copertura in caso di morte e 575 per le spese mediche, mentre i portatori di bassa quota andavano assicurati per 3.500 dollari. Ogni spedizione doveva inoltre garantire ai suoi sherpa un’assicurazione di salvataggio collettiva di almeno quattromila dollari.

Tra alpinisti e organizzatori delle scalate continua a regnare una sorprendente ignoranza di come gli sherpa sono assicurati

Non ci vuole molto, tuttavia, per scoprire quanto siano inadeguate molte di queste misure. Se è vero che l’addestramento ha un ruolo rilevante, questo non mette gli sherpa al riparo dai rischi sempre più grandi a cui gli si chiede di esporsi sulle montagne. Attraversare la cascata Khumbu, un ghiacciaio che rischia costantemente di staccarsi, è considerato così pericoloso che alcuni organizzatori fanno acclimatare i loro clienti sulle vette vicine per evitare di attraversarlo. Mediamente, in una stagione, uno sherpa può fare anche una decina di viaggi andata e ritorno in quell’area, e alcuni guadagnano un bonus per ogni giro extra. Guide e clienti di solito ne fanno dai due ai quattro.

Quanto all’assicurazione per il soccorso, la copertura di quattromila dollari è irrisoria. I salvataggi in quota con l’elicottero, diventati abituali a partire dal 2011, hanno aumentato di molto le possibilità di sopravvivere a un incidente sopra il campo 2. Ma costano 15mila dollari l’uno, ovvero più di tre volte la copertura assicurativa obbligatoria. Un divario che ha già creato problemi imbarazzanti. Nel 2012 lo sherpa Lhakpa Nuru è stato colpito in testa da un sasso sul versante del Lhotse. Mentre giaceva sanguinante e semincosciente al campo 2, il capo della sua spedizione, Arnold Coster, trattava con l’agente di trekking locale sui 15mila dollari da pagare per l’elisoccorso. Dopo mezz’ora di trattative, una guida si è attaccata alla radio e dal campo 2 ha cominciato a chiedere alle altre spedizioni che si trovavano al campo base di fare una colletta prima che il salvataggio diventasse il recupero di un cadavere. “È possibile che l’agente esitasse ad accollarsi una spesa del genere”, ammette il titolare dell’agenzia per cui lavorava Lhakpa Nuru, Dan Mazur, che ha pagato alla fine 11mila dollari di tasca sua per la quota del volo non coperta. Lhakpa Nuru è sopravvissuto, e quando nell’ottobre del 2014 sono passato a casa sua, nel villaggio di Phakding, era già tornato al lavoro sulle montagne, nonostante i mal di testa ricorrenti e i problemi di equilibrio.

Anche i 4.600 dollari che l’assicurazione paga in caso di incidente mortale sono inadeguati. Se è vero che in un paese dove il reddito annuo pro capite è di 540 dollari sono una somma consistente, è raro che bastino per il sostentamento delle famiglie allargate che molti sherpa mantengono. Spesso a colmare le lacune intervengono gli scalatori occidentali, ma questo crea una spiacevole disparità di risultati. La famiglia Nima è fortunata perché Chhewang era molto popolare. Quasi tutte le guide e gli organizzatori veterani con cui ho parlato sono consapevoli che la rete di protezione è inadeguata, e molti si stanno impegnando per cambiare le cose. Athans e il suo socio stanno mettendo a punto un fondo che sperano di usare per fornire agli sherpa coperture assicurative extra. Nel 1999 il titolare della Alpine Ascents Todd Burleson ha creato lo Sherpa education fund per aiutare i figli degli sherpa a studiare a Kathmandu. Di recente Melissa Arnot e l’ex capoguida della Alpine Ascents David Morton hanno creato la Juniper fund, un’organizzazione non profit per aiutare le vedove degli sherpa, fare lobbying a livello governativo per rendere più rigidi i requisiti e incoraggiare gli organizzatori di spedizioni ad adottare prassi migliori. Di programmi come questi ce ne sono molti altri, gestiti sia dagli organizzatori sia dagli scalatori.

Malgrado tutte le buone intenzioni, tra clienti e organizzatori continua a regnare una sorprendente ignoranza di come gli sherpa sono assicurati. Molti degli organizzatori con cui ho parlato erano a conoscenza dei requisiti assicurativi, ma non avevano idea delle somme a cui corrispondono. Quando per esempio ho parlato con Peter Whittaker, il proprietario della Rainier Mountaineering, un’agenzia di lusso nota per organizzare viaggi molto esclusivi per gruppi ristretti, mi ha detto: “Confido nel fatto che il mio agente nepalese rispetti i requisiti, ma per i dettagli specifici delle assicurazioni ci dobbiamo risentire”. Una volta verificato con il suo agente in Nepal, Whittaker ha scoperto che fino al 2012 i suoi sherpa erano stati coperti per una cifra superiore alla media, ottomila dollari, che però nel 2013 è scesa al minimo richiesto.

Misure insufficienti
Bisogna sottolineare che quest’ignoranza in parte è incoraggiata dal sistema con cui sono assunti gli sherpa. Di solito i clienti che hanno bisogno di guide si rivolgono a organizzatori occidentali, che a loro volta sono tenuti per legge a usare agenzie di trekking locali. Sono di fatto queste agenzie che assumono gli sherpa, acquistano le assicurazioni e aiutano a riscuotere gli indennizzi dopo un incidente. Da un lato gli agenzie di trekking aiutano gli organizzatori a orientarsi nella disorganizzata burocrazia nepalese. Ma sono anche un comodo capro espiatorio quando succede qualcosa, perché tecnicamente i datori di lavoro degli sherpa sono loro. Questo sistema favorisce una situazione in cui tutti sono convinti di agire in buona fede e che a sbagliare siano gli altri. Mark Horrell, un inglese che nel 2010 si trovava sul Baruntse pochi giorni prima della morte di Chhewang, ha spiegato questa falsa convinzione in un ebook del 2011 intitolato The Tomb of Chhewang Nima. Dopo che la missione di recupero del corpo era stata abbandonata, il compagno di Horrell ha definito Melissa Arnot “una ricca scalatrice solitaria statunitense che paga un sacco di soldi perché altri vadano a sistemarle le corde lassù”. Horrell, nel frattempo, faceva notare che “tutti i nostri portatori sono assicurati dalla nostra agenzia”. Di fatto tutti adottano le stesse misure insufficienti.

È un mestiere ambito, come dimostra il numero di sherpa che, dopo essere rimasti feriti, tornano al lavoro già dalla stagione successiva

In Nepal, “il minimo è la norma”, spiega Dip Prakash Panday, amministratore delegato della Shikhar Insurance, una società di assicurazioni con sede a Kathmandu che copre molte delle spedizioni sull’Everest. Le agenzie di trekking che assumono gli sherpa non hanno nessun incentivo ad aumentare i minimi. Alcune di queste agenzie sono consapevoli del problema e disponibili a modificare le regole, ma temono che aumentare i premi assicurativi significhi perdere clienti. Il 4 giugno 2013, dopo la morte di altri quattro sherpa sull’Everest, il governo nepalese ha annunciato un aumento delle polizze minime, in vigore dal 2014. La copertura obbligatoria per i salvataggi è passata da quattromila a diecimila dollari, un aumento che però rimane inferiore alla somma necessaria per far volare un elicottero sopra il campo base. Alcune compagnie di assicurazione nepalesi sono disponibili a coprire chi svolge i lavori più pericolosi fino a 23mila dollari. Alle grandi agenzie di viaggio che al di sopra del campo base usano una ventina di sherpa, questo costerebbe meno di duemila dollari a stagione.

Una cosa a cui nessuno propone di rinunciare è l’aiuto degli sherpa sulle montagne dell’Himalaya. Senza i loro sforzi, nessuna spedizione commerciale riuscirebbe ad arrivare in cima. E si tratta di un mestiere ancora molto ambito, come dimostra il numero di sherpa che, dopo essere rimasti feriti gravemente, tornano al lavoro già dalla stagione successiva. Ai tempi di Edmund Hillary, la tattica dell’assedio alla montagna, praticata grazie agli sherpa e ancora oggi favorita dalle spedizioni commerciali, era l’unica possibile. Ma con l’affermarsi dei princìpi del cosiddetto alpinismo “leggero e veloce”, l’impiego degli sherpa al di sopra del campo base ha cominciato a diventare meno popolare, proprio come l’uso dell’ossigeno supplementare, perlomeno nell’élite degli alpinisti professionisti che ogni anno vanno sull’Everest per cercare di stabilire nuove vie d’accesso ed entrare nella storia.

Alta tensione
Nella primavera del 2013, l’ormai famigerata rissa sull’Everest ha evidenziato la distanza sempre più profonda tra gli alpinisti di primo piano e gli sherpa che vivono grazie al lavoro sull’Everest. Lo scontro ha avuto come protagonisti due scalatori di alto livello, l’italiano Simone Moro, 45 anni, e lo svizzero Ueli Steck, 36, più il loro fotografo inglese, Jonathan Griffith, 29 anni. I tre hanno ignorato la consuetudine di tenersi alla larga dal versante del Lhotse mentre una squadra di sherpa andava a fissare le corde. Le due squadre si sono accusate a vicenda di aver fatto cadere del ghiaccio addosso all’altra. Si sono messi a litigare parlando in inglese. A settemila metri c’è poco ossigeno, i nervi sono saltati e, secondo lo sherpa Karma Sarki, Moro gli ha dato dei chor (ladri). Moro ammette anche di aver gridato un machickne (figlio di puttana) che è stato intercettato dal radiomicrofono di uno sherpa e trasmesso per tutta la montagna.

La rissa vera e propria è scoppiata quando le due squadre sono tornate al campo 2. Moro e Steck sono stati presi a calci, pugni e sassate. Pur sanguinando, non hanno richiesto assistenza medica. Melissa Arnot, che era lì per tentare di raggiungere la sua quinta vetta, record assoluto per qualsiasi donna non sherpa, ha cercato di dividerli. Nei giorni successivi, Moro, Steck e altri alpinisti affermati hanno ribadito che avevano il diritto di trovarsi sul versante del Lhotse, e di non aver bisogno dell’aiuto degli sherpa. “Per andare lì paghiamo un sacco di soldi, perché non dovremmo poter scalare?”, ha dichiarato Steck. Ma l’idea stessa di poter scalare la parete sud dell’Everest senza assistenza è un’illusione. Quel giorno Steck e Moro avranno anche scalato per conto loro, ma per arrivare al campo 2 avevano comunque dovuto usare le scale messe dagli sherpa lungo la cascata di ghiaccio. Nel maggio del 2013, durante una cerimonia all’ambasciata britannica di Kathmandu per commemorare il 60° anniversario della conquista dell’Everest, Reinhold Mess-ner, il decano dell’alpinismo moderno, ha riservato parole dure agli alpinisti che vogliono tenere il piede in due staffe. “Quelli che usano le scale montate dagli sherpa sulla cascata Khumbu”, ha detto davanti al pubblico, “e poi proseguono senza corde credendosi speciali, sono dei parassiti”.

Scalando in stile alpino, inoltre, quel giorno il team europeo si era mosso molto più velocemente degli sherpa. “Gli altri sherpa erano furiosi perché quei tre ci avevano superato”, spiega lo sherpa Karma Sarki, “e l’avevano fatto sulla nostra montagna. Noi rischiamo la vita per scalare l’Everest e aiutare gli alpinisti stranieri. L’Everest per noi è tutto”. Nessuno di questi fattori giustifica le violenze degli sherpa, ma il fatto di tenere il piede in due scarpe – usare l’aiuto degli sherpa, ma solo in certi momenti – può forse spiegare come mai gli addetti alle corde fossero così arrabbiati.

Questo genere di incomprensioni avviene sempre più spesso. Gli scalatori famosi continuano a mettere a rischio gli sherpa, nonostante la convinzione sempre più diffusa che i professionisti debbano fare da soli il lavoro sporco. Nel 2012, sul Baruntse, Melissa Arnot sarebbe stata in grado di salire da sola, ma ha scelto di non farlo. Nel luglio del 2013, Lhakpa Rangdu, 44 anni, padre di tre figli, arrivato in cima all’Everest dieci volte, era stato assunto da tre occidentali per tentare la prima traversata in assoluto della cresta Mazeno verso gli 8.125 metri del Nanga Parbat, in Pakistan, “uno degli obiettivi più ambiti tra quelli rimasti nell’Himalaya”, stando al sito web della squadra. Insieme a un altro sherpa, Lhakpa Zarok, ha aperto la strada fino a circa 200 metri dalla vetta, per poi tornare indietro. “Ci avevano assunto per fissare le corde”, mi ha raccontato Lhakpa Rangdu nell’ottobre del 2012 nel piccolo appartamento a Kathmandu dove vivono in affitto lui e la moglie Lhakpa Diki, 36 anni. Sedeva con il piede sinistro appoggiato sul ginocchio, scoprendo una caviglia nodosa e segnata da cicatrici. Quand’è caduto rompendosi la caviglia, Lhakpa Rangdu era in cordata con la sudafricana Cathy O’Dowd. I due, insieme agli altri due sherpa del team, stavano scendendo, mentre gli scozzesi Sandy Allan e Rick Allen si dirigevano verso la cima. “Per fortuna eravamo a un giorno di distanza dalla valle”, dice O’Dowd. “L’indomani ha dovuto scendere con una caviglia rotta”. Dopo dieci giorni, un viaggio a cavallo verso la città e un volo per Kathmandu, Lhakpa Rangdu si è sentito dire da un dottore dell’Om Hospital che doveva essere operato. Alla copertura medica di 575 dollari ha dovuto aggiungerne altri 500 prendendoli dai tremila che aveva guadagnato con la spedizione. Anche in Pakistan è obbligatorio assicurare gli sherpa, ma nemmeno in questo caso gli alpinisti avevano badato più di tanto ai dettagli. “Se ne era occupato il nostro agente locale, perciò non so dirle come funziona”, dichiara O’Dowd. “Ma di certo gli sherpa erano assicurati”. Sandy Allan, che definisce Rangdu “un fenomeno, oltre che un carissimo amico”, gli ha spedito altri duemila dollari per aiutarlo a sfamare la famiglia mentre non lavorava.

Nell’ottobre del 2012 mi sono infilato in una piccola casa dalle pareti di fango a Namche Bazaar, dove la nipote di Lhakpa Rita (nonché cugina di Chhewang) Nima Lhamu cuoceva al vapore su una piastra elettrica dei momo per venderli. Con me c’erano anche l’ex guida David Morton, sua moglie Kristine Kitayama, e il loro figlio di due anni Thorne. Nell’aprile del 2006, Nima Lhamu era incinta di sei mesi del primo figlio, quando suo marito Dawa Temba e altri due sherpa morirono sulla cascata Khumbu. Aveva ventidue anni. Suo figlio Tenzing Chosang è nato poco tempo dopo. Due anni fa Nima Lhamu si è risposata con Karma Sarki, sherpa della Alpine Ascents, affidando il figlio ai suoi genitori. Morton e Kitayama si sono offerti di pagare gli studi di Chosang. Da più di cent’anni gli scalatori occidentali aiutano gli sherpa a superare la povertà, distruggendo senza volerlo intere famiglie per poi sforzarsi di aiutarle a ricomporsi.

Il giorno dopo ho fatto una camminata con Melissa Arnot fino a Thamo per andare a trovare la vedova di Chhewang Nima, Lhamu Chhiki. I figli erano tornati a casa per le vacanze. Lhamu Chhiki ci aspettava in cucina, con il tradizionale grembiule e l’aria cupa. Vedendo Arnot le si sono inumiditi gli occhi, ma poi ci ha fatto segno di accomodarci e ha servito il tè. Arnot le ha consegnato una busta piena di biglietti da cento dollari, un rituale che – mi ha spiegato Arnot – per lei rappresenta sempre il momento più difficile dell’anno. Dopo un quarto d’ora di chiacchiere ho chiesto a Lhamu Chhiki se potevo intervistarla da sola. “Voglio che i miei figli studino, così da grandi potranno fare altro”, mi ha detto. Le ho chiesto se incolpasse Arnot della morte del marito. “No”, mi ha detto, “non do la colpa a lei”.

Quella sera a Thame abbiamo incontrato di nuovo i Morton che avevano accettato di accompagnare Chosang a casa dei nonni a Marlung. Il mattino dopo, sulle terrazze affacciate a est del villaggio, l’aria era così ferma che si sentivano solo i campanacci degli dzo e il piccolo ruscello che scorre accanto alla casa. Fuori, abbiamo incontrato il fratello di Nima Lhamu, Mingma Tshering, un bel ragazzo dagli zigomi alti e sporgenti che parla bene inglese. Aveva appena finito le superiori a Kathmandu grazie a un benefattore tedesco, e ci ha spiegato che nel suo futuro vedeva delle alternative alla montagna. Ma è anche vero che è cresciuto ascoltando i racconti del padre, del cugino Chhewang e dello zio Lhakpa Rita. “Sogno di salire sull’Everest fin da bambino”, ha detto. “Voglio provare la vita di montagna. Magari sull’Everest ci salirò una volta sola, poi basta con i lavori pericolosi”. Gli hanno detto che, una volta cominciato, può essere difficile smettere.

(Traduzione di Matteo Colombo)

Questo articolo è stato pubblicato il 16 maggio 2014 nel numero 1051 di Internazionale.

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