Una ricerca a tappeto sulla popolazione per rilevare la presenza di anticorpi al Sars-cov-2 potrebbe fornire informazioni cruciali sul numero di contagi non diagnosticati, sul reale tasso di letalità del virus e sulla possibilità di allentare le misure di distanziamento sociale in caso di un’immunizzazione abbastanza diffusa. Tuttavia i primi risultati hanno generato più dubbi che certezze.
Secondo i dati raccolti in Germania, nei Paesi Bassi e in diverse aree degli Stati Uniti la percentuale di persone già infettate dal virus oscillerebbe tra il 2 e il 30 per cento. Queste cifre suggeriscono che i casi confermati di covid-19 sono solo una parte del numero reale di persone entrate in contatto con il virus, e che nella maggior parte dei casi i sintomi della malattia sono lievi. Tuttavia molti scienziati mettono in discussione l’affidabilità dei test sugli anticorpi e sottolineano che diverse équipe di ricerca hanno affidato i loro risultati ai giornali invece che alle pubblicazioni scientifiche o agli archivi di preprint (studi ancora non passati per la revisione paritaria), dove i dati possono essere esaminati dalla comunità scientifica. Ad alimentare i dubbi c’è anche il fatto che alcuni ricercatori, dopo essersi espressi in favore di un’interruzione delle misure di controllo, abbiano presentato dati che confermano la loro tesi iniziale.
Siamo solo all’inizio
Secondo alcuni osservatori la diffusone del virus tra la popolazione è appena cominciata. Di conseguenza, anche se i risultati delle ricerche sugli anticorpi fossero indicativi, questi non giustificano l’allentamento delle misure di controllo. “Sarebbe stato meglio se i positivi fossero stati il 45 o addirittura il 60 per cento”, dice Mark Perkins, esperto di diagnostica dell’Organizzazione mondiale della sanità. “Questo avrebbe significato la presenza di un’intensa trasmissione silenziosa e di una diffusa immunità tra la popolazione. Purtroppo non sembra che sia così. Anche i numeri più elevati sono relativamente contenuti”.
Nessuno sa quale sia il livello di anticorpi necessario per essere protetti dal covid-19 (sempre che ce ne sia uno)
I molti test per gli anticorpi esistenti, anche quelli già sul mercato, sono ancora in fase di perfezionamento e validazione. Possono rivelare se il sistema immunitario del soggetto è entrato in contatto con il virus, ma considerando che nessuno sa quale sia il livello di anticorpi necessario per essere protetti dal covid-19 (sempre che ce ne sia uno), i test non possono stabilire se un individuo è immune da un contagio futuro. Tra l’altro nessuno ha idea di quanto durerebbe questa teorica immunità.
La prima ricerca sugli anticorpi è stata avviata alcune settimane fa in Germania. Il 9 aprile, durante una conferenza stampa, il virologo Hendrik Streeck dell’università di Bonn ha comunicato i risultati preliminari relativi a una cittadina di 12.500 abitanti della zona di Heinsberg, duramente colpita dal covid-19. Streeck ha riferito che la sua équipe aveva rilevato gli anticorpi contro il virus nel 14 per cento delle 500 persone sottoposte al test. Rapportando la percentuale ai decessi, i ricercatori hanno ipotizzato che la letalità del virus fosse appena dello 0,37 per cento (quella dell’influenza stagionale è di circa lo 0,1 per cento). In una sintesi di due pagine, la squadra del professor Streeck ha concluso che “il 15 per cento della popolazione non può più contrarre il virus Sars-cov-2 e che il processo verso l’immunità di gregge è già in corso”. Gli scienziati hanno invitato i politici tedeschi a cancellare alcune delle restrizioni imposte nella regione.
Già prima di avviare la ricerca Streeck aveva sostenuto che il virus fosse meno pericoloso di quanto si pensasse, e che gli effetti di un blocco prolungato avrebbero potuto essere peggiori rispetto ai danni prodotti dalla malattia. Tuttavia, poche ore dopo la presentazione della ricerca, il virologo dell’ospedale universitario Charité di Berlino, Christian Drosten, ha dichiarato alla stampa che non era possibile trarre alcuna conclusione significativa dallo studio sugli anticorpi basandosi sulle scarse informazioni presentate da Streeck. Drosten ha ricordato l’incertezza sul livello di anticorpi necessario per l’immunità e ha sottolineato che l’équipe di Streeck aveva sottoposto ai test intere famiglie, rischiando di sovrastimare i casi positivi dato che i conviventi tendono a contagiarsi a vicenda.
Streeck e i suoi colleghi sostengono che il test commerciale usato aveva “una specificità superiore al 99 per cento”, ma un gruppo di ricercatori danesi ha riscontrato tre falsi positivi su 82 campioni, per una specificità del 96 per cento. Questo significa che sul campione di Heinsberg, composto da 500 persone, il test potrebbe aver prodotto più di una decina di falsi positivi sui circa settanta totali.
Lo studio di Santa Clara
Critiche simili hanno riguardato anche uno studio sierologico californiano condotto su 3.300 persone e diffuso come preprint a metà aprile. I principali autori dello studio, Jay Bhattacharya ed Eran Bendavid, esperti di politiche sanitarie dell’università di Stanford, hanno coinvolto i residenti della contea di Santa Clara attraverso una serie di annunci su Facebook. Cinquanta test per la ricerca degli anticorpi sono risultati positivi, circa l’1,5 per cento del totale. Dopo aver calibrato le statistiche in base alla composizione demografica della contea, i ricercatori hanno stabilito che probabilmente il virus ha colpito tra il 2,49 e il 4,16 per cento della popolazione di Santa Clara.
Secondo gli scienziati questo suggerisce che il numero reale di contagiati potrebbe superare quota ottantamila, ovvero cinquanta volte più di quanto confermato dai tamponi che rilevano la presenza di dna virale, e implica una mortalità bassa. Secondo Bendavid e John Ioannidis, coautore dello studio e docente di sanità pubblica a Stanford, questi dati permettono di valutare meglio l’opportunità delle misure di restrizione.
Nel giorno della diffusione del preprint l’altro coautore Andrew Bogan, un investitore nel settore delle biotecnologie con un dottorato in biologia molecolare, ha pubblicato un commento sul Wall Street Journal in cui si chiedeva: “Se i politici avessero saputo fin dall’inizio che il numero di decessi dovuti al covid-19 sarebbe stato vicino a quello dell’influenza stagionale, avrebbero davvero rischiato decine di milioni di posti di lavoro?”. Inizialmente il commento non precisava che Bogan aveva partecipato alla ricerca.
È probabile che il reclutamento su Facebook abbia attirato persone con sintomi attribuibili al covid-19 che volevano sottoporsi al test
I commenti su Twitter e su diversi blog hanno evidenziato una lunga serie di problemi nello studio di Santa Clara. Per esempio, è probabile che il reclutamento su Facebook abbia attirato persone con sintomi attribuibili al covid-19 che volevano sottoporsi al test, portando a una sovrastima dei contagi. Considerando che in termini assoluti la quantità di test positivi è piuttosto contenuta, la ricorrenza di falsi positivi potrebbe essere vicina a quella dei contagi reali. Inoltre lo studio ha coinvolto un numero relativamente ridotto di persone a basso reddito o appartenenti alle minoranze, dunque l’adeguamento statistico effettuato potrebbe essere inattendibile. “Penso che gli autori dello studio dovrebbero scusarsi”, ha scritto lo statistico e politologo della Columbia university Andrew Gelman in un commento online, sottolineando che “i numeri sono essenzialmente il prodotto di un errore statistico”. Bhattacharya sta preparando un’appendice allo studio per rispondere alle critiche, e ha già ribadito che “la tesi secondo cui il test non è abbastanza specifico per rilevare il contagio reale è profondamente errata”.
Bhattacharya e Bendavid hanno collaborato con Neeraj Sood, esperto di politiche sanitarie all’università della California del sud, per condurre uno studio simile nella contea di Los Angeles. I ricercatori hanno usato gli stessi test per gli anticorpi su 846 persone selezionate da una società di marketing per essere rappresentative della demografia della contea. In un comunicato stampa diffuso questa settimana gli autori dello studio hanno annunciato che circa il 4 per cento della popolazione adulta della contea presenterebbe anticorpi per il virus, ovvero 300mila persone (Sood ha specificato a Science che 35 test hanno dato esito positivo).
Dai Paesi Bassi a Boston
Una presenza di anticorpi simile emerge anche da un altro studio sierologico, condotto nei Paesi Bassi e presentato alla camera dei rappresentanti il 16 aprile. Hans Zaaijer, virologo della banca del sangue olandese Sanquin, ha contribuito alla ricerca e spiega che i test commerciali usati hanno “evidenziato ripetutamente un’ottima affidabilità” negli esami di validazione, senza però fornire ulteriori dettagli. Secondo i risultati dello studio il paese è ancora lontano dall’immunità di gregge in cui molti speravano. Tuttavia il 21 aprile il governo ha annunciato che nelle prossime settimane comincerà a revocare alcune restrizioni, riaprendo le scuole elementari e consentendo ai bambini di praticare sport di squadra.
Da un piccolo studio condotto nel comune di Chelsea, alla periferia di Boston, emerge la più consistente presenza di anticorpi riscontrata finora. Visto l’elevato numero di pazienti affetti da covid-19 provenienti da Chelsea, i patologi del Massachusetts general hospital (Mgh) John Iafrate e Vivek Naranbhai hanno rapidamente organizzato uno studio sierologico locale. Per due giorni si sono posizionati a un incrocio e hanno raccolto i campioni di duecento passanti. Hanno subito analizzato i campioni e hanno condiviso i risultati con un giornalista del Boston Globe. I positivi erano 63, ovvero il 31,5 per cento del totale.
Sull’operazione, però, aleggiano forti perplessità. I ricercatori hanno usato un test il cui produttore, BioMedomics, dichiara una specificità di appena il 90 per cento, anche se Iafrate sostiene che i test di validazione dell’Mgh abbiano riscontrato una specificità superiore al 99,5 per cento. Inoltre i passanti fermati per strada “non sono un campione rappresentativo”, ammette Naranbhai.
I due patologi riferiscono di aver presentato un articolo scientifico a una rivista specializzata e spiegano di aver anticipato i dati al Boston Globe perché “la situazione di emergenza a Chelsea giustificava la diffusione delle informazioni”. I ricercatori di Boston, comunque, non ritengono che le restrizioni andrebbero eliminate. Al contrario, sottolineano che a Chelsea sono necessarie ulteriori misure di contenimento per arrestare la diffusione del virus all’interno della comunità e più in generale nell’area di Boston.
Secondo Michael Osterholm, esperto di malattie infettive dell’università del Minnesota Twin Cities, le misure di controllo dovranno essere mantenute a lungo per evitare il sovraccarico degli ospedali, e questo anche se gli studi sugli anticorpi indicassero un tasso di mortalità ben al di sotto dell’1 per cento. “I dati sulla sieroprevalenza non fanno che confermare la portata di questa sfida, e i risultati [di questi studi] dimostrano quanto sia difficile vincerla”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sulla rivista scientifica statunitense Science.
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