Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2017 nel numero 1187 di Internazionale.
Serge Klarsfeld ha otto anni quando la Gestapo bussa alla sua porta. Siamo a Nizza nel settembre del 1943. Stretto alla madre e alla sorella nel doppio fondo di un armadio, sente suo padre aprire la porta ai tedeschi. Non vede nulla, percepisce delle voci. “Devo aver sentito quella di Alois Brunner. Era il suo commando, lui veniva di persona ad arrestare la gente”. Alois Brunner manda il padre di Serge Klarsfeld nel campo di concentramento di Drancy, in Francia, e poi ad Auschwitz.
Nato a Vienna nel 1912, nazista della prima ora, coordinatore della deportazione e dello sterminio degli ebrei d’Europa, Alois Brunner è descritto da chi gli è stato vicino come un ometto di scarsa levatura: malinconico e nervoso, gracile, con le gambe storte, gli occhi nerissimi, le labbra grosse e la voce monotona. Nelle sue memorie Adolf Eichmann, l’architetto della “soluzione finale”, dice di lui: “Era il mio uomo migliore”.
Responsabile della deportazione ad Auschwitz di 56mila ebrei da Vienna, 43mila da Salonicco, 14mila dalla Slovacchia e 23mila dalla Francia, dove dirige il campo di Drancy, Alois Brunner non pagherà mai per i suoi crimini. Alla caduta della Germania nazista approfitta della condanna a morte di un altro Brunner per confondersi nella massa di rifugiati, prendere il nome di un cugino e farsi assumere come autista di camion dall’esercito statunitense. Nel 1947 lavora in una miniera di carbone a Essen, in Germania, poi nel 1953 scappa in Egitto con il passaporto di un certo Georg Fischer. Poco dopo, nel 1954, fugge a Damasco.
Il gran muftì di Gerusalemme lo aiuta nella sua fuga. Condannato a morte per crimini di guerra dal tribunale militare di Parigi, Brunner ritrova in Siria il suo amico Franz Rademacher, ex capo del servizio per gli affari ebraici del terzo reich, che lo assume con il nome di Georg Fischer nella sua azienda, la Orient trading company (Otraco).È difficile ricostruire con precisione i primi dieci anni di Alois Brunner in Siria. Il suo fascicolo di 581 pagine è stato distrutto nel 1994 dal Bundesnachrichtendienst (Bnd, i servizi segreti della Germania Ovest). Interrogato dalla rivista Der Spiegel, il Bnd ha parlato di un “increscioso incidente”. Che Georg Fischer fosse un informatore dei servizi segreti della Germania Ovest non avrebbe nulla di sorprendente: il Bnd è stato fondato da Reinhard Gehlen, un ex nazista.
Spulciando la corrispondenza di un altro nazista scappato in Medio Oriente, alla fine degli anni cinquanta gli statunitensi capiscono che Georg Fischer è Alois Brunner. In una lettera firmata Fischer, Brunner raccomanda al suo amico di leggere attentamente Ich jagte Eichmann (Ho dato la caccia a Eichmann), il libro di Simon Wiesenthal pubblicato nel 1961, un anno dopo la cattura a Buenos Aires dell’architetto della “soluzione finale”.
Sempre nel 1961 il braccio destro di Eichmann perde un occhio ritirando un pacco bomba alle poste di Damasco. Brunner capisce di essere stato “localizzato”. Il primo paese a farsi avanti è l’Austria, che inoltra una richiesta ufficiale di estradizione. Le potenze del dopoguerra ormai sanno che il nazista vive sotto copertura in Siria.
Il patto tra Brunner e lo stato siriano risale formalmente al 1966. Quell’anno un certo Hafez al Assad diventa ministro della difesa grazie a un ennesimo colpo
di stato. Il nuovo uomo forte annovera nella sua cerchia un esperto con notevoli referenze. “L’uomo migliore” di Eichmann ha già offerto i suoi consigli al
pioniere dei servizi di sicurezza siriani, Abdel Hamid al Sarraj, come rivelerà Claude Palazzoli, ex docente all’università di Damasco vicino alla diplomazia francese.
Cinque anni dopo Hafez al Assad prende il potere. Con l’aiuto di Alois Brunner, il nuovo presidente siriano crea un apparato repressivo di rara efficacia. Complesso, diviso in vari rami che si sorvegliano e si spiano l’un l’altro, basato su una rigorosa compartimentazione, questo apparato si fonda su un principio: controllare il paese tenendolo perennemente nel terrore. Alla morte del dittatore nel 2000, il figlio Bashar al Assad eredita uno stato costruito con il pugno di ferro. Per trent’anni la macchina del terrore e del segreto non ha smesso di perfezionarsi. Presente a ogni livello del potere, controlla tutto ino ai minimi particolari della vita quotidiana.
Una persona che faceva parte della cerchia ristretta degli Assad conferma l’importanza di Brunner in questo apparato. “Hafez al Assad non rispettava gli ultimatum della diplomazia: nessuno stato era disposto a correre rischi per ottenere Brunner”. Scappato da poco all’estero, quest’uomo ricorda bene le sue paure d’infanzia: “Con i miei amici facevamo un gioco: ci spaventavamo guardando la casa di Brunner, che aveva le persiane sempre chiuse, anche quando c’era bel tempo. Era la nostra casa degli spiriti. Poi fu trasferito da un’altra parte”.
Prima di morire nel 2005, il cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal ha parlato del ruolo cruciale di Brunner in Siria. Lo racconta il comandante Philippe Mathy, della sezione di ricerca della gendarmeria nazionale francese, che ha indagato anche sui casi di altri due ufficiali, il nazista tedesco Klaus Barbie e il collaborazionista francese Paul Touvier: “Ho visto Simon Wiesenthal due volte a casa sua a Vienna. Era già anziano, ma era ancora lucido. Mi ha confermato che Brunner era stato reclutato al suo arrivo a Damasco, nel 1954, per costruire i servizi segreti siriani, ancora in fase di creazione”.
Serge Klarsfeld, che per tutta la vita ha dato la caccia a Brunner, conferma: “Un agente dei servizi segreti francesi molto attivo in Siria negli anni ottanta mi ha detto che Brunner era un consigliere del regime in materia di polizia politica”.
Il vero destino di Alois Brunner
Gli Assad padre e figlio hanno ripetutamente negato che Brunner si trovasse a Damasco, rispondendo ogni volta: “Non lo conosciamo”. Da sessant’anni il fantasma di Alois Brunner aleggia sulla Siria. Finora perfino la sua morte era un’ipotesi discussa. Secondo alcuni sarebbe deceduto nel 1992, per altri nel 2010 a 98 anni. E c’è chi crede che sia ancora vivo.
In una serie di interviste esclusive, tre siriani che lavoravano nelle unità segrete incaricate di proteggere l’ex nazista a Damasco rompono questa cappa di silenzio. Uno di loro parla a viso scoperto, gli altri due sotto pseudonimo. I loro racconti, terribili e sconvolgenti, concordano nei minimi particolari. Insieme a vari scambi con altri protagonisti della vicenda, le loro testimonianze illustrano una storia che ha origine in un passato considerato finora inaccessibile e aiutano a capire il dramma in corso in Siria.
Il vero destino di Alois Brunner può essere riassunto in poche parole. Rimasto nazista fino alla fine, l’uomo di Adolf Eichmann è morto nel 2001. Il suo corpo, lavato secondo l’usanza musulmana, è stato sepolto con grande discrezione nel cimitero Al Afif di Damasco. La guerra in Siria che dal 2011 devasta il Medio Oriente e riversa fiumi di morti e di profughi è, in parte, un retaggio di Brunner.
Nella sua casa nell’ottavo arrondissement di Parigi, Serge Klarsfeld, 81 anni, ci riceve in una stanza stracolma di libri sulla seconda guerra mondiale. Alla parete è appesa un’enorme pianta dettagliata del campo di Auschwitz. Prima d’incontrarlo, gli abbiamo presentato al telefono le conclusioni della nostra inchiesta. Ci ha chiesto di andare da lui.
“E così avete trovato Brunner?”, chiede il cacciatore di nazisti, seduto alla sua scrivania.
“Sì, pare di sì”. “Quando sarebbe morto?”.
“Nel dicembre del 2001”.
“Aveva il cuore robusto. E ha sofferto?”.
“Sì, ha sofferto”.
“Sentite, non potrò mai provare dispiacere per lui”, sussurra Serge Klarsfeld, sollevato.
Niente domande
L’inchiesta comincia quasi per caso a Istanbul, terra d’esilio per i siriani. Nel corso di una discussione esce fuori un nome: Georg Fischer, lo pseudonimo di Alois Brunner. E con il nome un dettaglio: “Conosco un tizio che è stato la guardia del corpo di questo tedesco, un nazista. Si chiama Abu Yaman e vive in Giordania”. A parlare è un siriano, una persona seria. Ma non si sa mai.
Andiamo in Giordania a incontrare Abu Yaman, l’uomo che dice di essere stato la guardia del corpo di Alois Brunner. Ci riceve a casa sua a Irbid, la seconda città della Giordania, in una stanza di cinque metri per tre, con una finestra, tappeti per terra, cuscini contro le pareti e come unico mobile un tavolo basso. Abu Yaman ha le spalle larghe, lo sguardo schietto, la barba squadrata, è un uomo forte, si vede subito.
Il tè arriva dopo il cafè beduino. Abu Yaman ci chiede se siamo stanchi, se abbiamo fame. Rispondiamo di no. Sorride e si siede a gambe incrociate davanti a un grande quaderno ad anelli: “Quando ho saputo che sareste venuti ho raccolto i miei ricordi in questo quaderno per non dimenticare nulla”.
Abu Yaman accetta di registrare l’intervista e di usare il suo vero nome, cosa che ormai in Siria non è disposto a fare più nessuno. Abu Yaman è il suo nome tradizionale. All’anagrafe è Mohamed Abdul Rahmanal Hammadeh. Comincia il suo racconto: “Sono nato nel 1968 nelle campagne di Damasco, sono sposato, ho sei figli. All’inizio del 1988 ho fatto il servizio militare obbligatorio”. L’addestramento dura sei mesi, poi i soldati di leva sono assegnati ai diversi reparti a seconda del loro grado d’istruzione.
Abu Yaman entra nella scuola dei servizi segreti siriani, il mukhabarat, dove si prepara a diventare una guardia del corpo. L’addestramento è duro, come dimostra il suo fisico muscoloso. “Poi sono entrato nella sezione 300, che si occupava del controspionaggio edera diretto da Bajat Suleiman. Era un incarico prestigioso”. Bajat Suleiman era un cugino di Hafez al Assad, il dittatore che terrorizzò il paese prima di cedere il posto al figlio Bashar. Quando parla di Bajat Suleiman, Abu Yaman dice “quel selvaggio”.
Addetto alla protezione delle ambasciate, il giovane è mandato nel quartiere del parco Sebki, a Damasco, dove vivono i ricchi e gli stranieri, con i palazzi anni sessanta e i viali pieni di belle macchine americane. La missione è semplice: c’è un uomo da proteggere, non deve succedergli nulla. “Mi presentarono alla squadra. Eravamo dodici, io ero l’unico ad aver fatto la leva, gli altri erano militari di carriera”. Abu Yaman riceve l’arma di servizio, poi il responsabile del gruppo lo trascina su per le scale, fino al quarto piano.
“Ero preoccupato e impressionato. Il mio capo aprì la porta. Vidi un uomo in biancheria intima. Aveva cicatrici su tutto il corpo. Gli mancavano l’occhio sinistro e tre dita di una mano. La conversazione durò appena cinque minuti”. Incuriosito, Abu Yaman chiede chi è quel tizio così malridotto. “Non fare mai domande a nessuno, mai!”, risponde il suo responsabile di unità, Mohamed Leksur, un uomo biondo e alto con gli occhiazzurri, un animale a sangue freddo che ha fatto l’università. “Se hai bisogno di qualcosa, vieni da me. Se non fai domande non ti succederà nulla”. Abu Yaman annuisce in silenzio. Prende servizio il giorno dopo. È il 1989.
La mattina presto firma un foglio di presenze ad Al Muhajerin, il quartier generale del ramo 300 a Damasco, riceve le istruzioni e raggiunge la sua postazione: all’ingresso, davanti alla porta o sul tetto dell’appartamento. I turni durano ventiquattr’ore: un giorno di servizio, un giorno di riposo. Passano le settimane, i mesi, senza che la curiosità della giovane guardia sia soddisfatta. “Volevo sapere chi era quell’uomo ma non potevo fidarmi di nessuno”. Si lega a Mohamed Leksur, il suo capo, il biondo, ea Mohamed Said Ahmed, che pianifica le attività dell’unità. Entrambi gli fanno un nome, Abu Hossein. “Capii che era un nome in codice. Il primo giorno il vecchio aveva detto di chiamarsi Fischer. Ma non bisognava mai usare quel nome, solo Abu Hossein, quando parlavamo di lui al ricetrasmettitore”.
Parlando, Abu Yaman rispolvera i ricordi. Quando gli chiediamo di ripetere il nome di una strada, disegna una mappa con la matita, su cui annota dei particolari. Alzando lo sguardo dal quaderno, chiede se dobbiamo fare una pausa. “Grazie, ma possiamo continuare”, rispondiamo. Abu Yaman prosegue: “Presi subito in simpatia quel vecchio. Aveva uno stile di vita molto sano. Mangiava poco, soprattutto verdure, latte, labneh, ogni tanto un po’ di carne”.
Alois Brunner, che si fa chiamare Abu Hossein, riceve uno stipendio regolare dal mukhabarat, il suo datore di lavoro. I servizi segreti gli procurano i vestiti – indossa solo cotone – e ogni mattina riceve i quotidiani locali Al Thawra, Tishreen e Al Baath, e quelli libanesi Al Sair e Al Hayat.
“Durante i miei primi sei mesi di servizio, gli permettevano di andare a fare la spesa nel quartiere di Shaalan, a cinquecento metri da casa. Lo accompagnavamo in quattro o cinque, seguendolo a distanza per non dare nell’occhio. Nella zona non c’erano molti stranieri. Ma con i suoi occhiali scuri Abu Hossein non sembrava un tedesco. Nessuno si stupiva vedendolo”.
Chiuso in casa
All’inizio del 1989 i servizi segreti rafforzano le misure di protezione del loro dipendente. Brunner, che ha 77anni, non può più uscire. “A forza di restare in casa, diventava isterico e insultava Hafez al Assad, i responsabili dei servizi di sicurezza e Bajat Suleiman (a capo del controspionaggio). Diceva: ‘Quel cane di Hafez! Quel porco di Bajat!’, e noi facevamo rapporto. Lo spedivano in una cella del quartier generale di Al Muhajerin e dopo qualche giorno lo riportavano nell’appartamento”.
Ogni mattina Alois Brunner accende la radio. “Sembrava un apparecchio da spie”, spiega Abu Yaman, evocando un’antenna con ampi gesti. Non aveva mai visto un attrezzo del genere, per farlo funzionare serviva un codice. “Un giorno Abu Hossein mi chiamò urlando: ‘Corri! Un pilota ha disertato ed è andato in Israele con il suo aereo! Un druso di Idlib! Hafez deve fargli fuori tutta la famiglia! Tutti quelli del suo villaggio!’. Era fuori di sé. Quel giorno capii che il suo apparecchio era speciale. Appresi la notizia quattro ore dopo dalla televisione ufficiale”. L’11 ottobre 1989 il pilota siriano Bassam Adel scappa in Israele.
Alois Brunner si rivolge sempre più spesso alla giovane guardia. Gli propone di imparare il tedesco, ma Abu Yaman non ha molta voglia, preferisce l’inglese. Stanchi dei capricci del vecchio nazista, gli altri componenti dell’unità rifiutano di obbedire o lo fanno in ritardo, mandando Brunner su tutte le furie. A volte fa chiamare il colpevole e lo aspetta nascosto dietro la porta con un coltello da cucina in mano. Le guardie lo sanno e riescono sempre a disarmarlo.
“L’unica persona che lo veniva a trovare era un signore di Jdeidet Artouz, una città a sudovest di Damasco. Arrivava con tutta la famiglia. A volte gli portava dei vestiti, delle conserve”. Scopriamo che quest’uomo, Nabil, è il figlio del primo autista di Brunner, all’epoca in cui percorreva le strade di Damasco in Range Rover. “Un giorno gli dissero di non venire più con la sua famiglia. E poi di non venire più e basta”, ricorda Abu Yaman. Solo nel suo appartamento di Damasco, Brunner a volte cade in preda alla nostalgia. “Il suo argomento di conversazione preferito era un grande quadro appeso alla parete”, il disegno di una giovane donna nuda. “Mi parlava delle sue curve, diceva che era l’amore della sua vita”, racconta ancora Abu Yaman.
Un altro argomento che appassiona il vecchio nazista è il presidente iracheno Saddam Hussein, il suo nuovo idolo. “Mi diceva che era un eroe, un grand’uomo, l’unico in grado di distruggere Israele”. Brunner detesta gli arabi del Golfo. “Gli sceicchi sono i cani degli americani”. Quando ce l’ha con il mondo intero, il vecchio nazista si pente di non aver ucciso tutti gli ebrei. “Non capiva perché Assad non aveva espulso tutti gli ebrei dalla Siria. Io molte cose non le sapevo, per cui stavo zitto”.
Stiamo parlando da ore, la stanza comincia a riempirsi dei profumi della cucina. Mangiamo. Abu Yaman rifiuta le visite abituali. I bicchieri si riempiono di tè. Il racconto riprende: “Un giorno Abu Hossein mi disse di aver ucciso venticinquemila ebrei francesi. Avevo capito che era una persona malvagia, ma che potevo farci? Nulla”, mormora, sinceramente dispiaciuto. Quando arriva internet in Siria, Abu Yaman va in un cafè per connettersi alla rete. “Scoprii che il vero nome di Abu Hossein era Alois Brunner e che aveva ucciso 130mila ebrei”. Guarda le rare fotografie di archivio e riconosce l’uomo che protegge. “Non sono particolarmente fiero di averlo protetto, ma in Siria non si esprimono i propri sentimenti, è troppo pericoloso”.
Un giorno la guardia del corpo vede in televisione un’intervista al presidente siriano. “Una giornalista statunitense intervistava Hafez al Assad, lo accusava di proteggere dei nazisti, e lui rispondeva: ‘Me lo dimostri’. Io sapevo ma non potevo parlare”. Abu Yaman non ha mai detto a nessuno cosa faceva all’interno del mukhabarat, nemmeno ai suoi familiari.
Passato e presente
Da questo momento in poi l’intervista prosegue al ritmo delle attività della famiglia. La mattina i figli vanno a scuola, il primogenito all’università. Si mangia quando si ha fame, si va a dormire quando si ha sonno, senza orari, senza regole.
Abu Yaman ha la mente aperta. L’inchiesta si trasforma ben presto in uno scambio: lui cerca di rintracciare le persone che hanno protetto il vecchio nazista mentre noi gli spieghiamo cos’erano la “soluzione finale”, le Schutzstafel (le Ss), il Sicherheitsdienst (l’Sd, i servizi segreti nazisti), la Geheime Staatspolizei (la Gestapo, la polizia segreta).Tra i pianti e le grida dei bambini, parliamo della ratline, la rete di complicità che permise ai nazisti di fuggire dopo la liberazione, del rapporto degli arabi con gli israeliani, e anche di Aleppo e Mosul, impantanate nella guerra.
Guardiamo video terribili dei prigionieri catturati nei quartieri ribelli di Aleppo. Alcuni uomini li colpiscono, una voce urla: “Bastardo alauita, sei qui per i soldi, eh? Sei qui per insultare Dio!”. Dietro, le pareti bianche sono chiazzate di sangue.
Tutti guardano queste immagini, anche i bambini. È impossibile sapere se sono vere, ma la loro diffusione rivela il grado di morbosità raggiunto in Siria, un paese dov’è normale che un gruppo di amici sorridenti si faccia un selfie sotto un cielo inondato di bombe al fosforo.
Mostriamo ad Abu Yaman una foto del 1985: Serge Klarsfeld che mostra all’obiettivo l’unica immagine conosciuta di Brunner in Siria.
“Chi è quell’uomo?”, chiede la guardia del corpo.
“È un cacciatore di nazisti”.
“Un cosa? Cioè sarebbe un uomo del Mossad? Un ebreo?”.
“È ebreo ma non fa parte dei servizi segreti. Suo padre è stato deportato da Alois Brunner e lui ha dedicato la vita a dare la caccia ai responsabili”.
“Capisco”.
Abu Yaman ha appoggiato quasi subito la rivoluzione del 2011. Guidava una brigata dell’Esercito siriano libero chiamata Saif al Sham (la spada della Siria). Ci mostra dei video in cui combatte con il fratello contro i soldati del regime. Esibiscono cadaveri di nemici, quaderni di appunti in farsi e in arabo, carte d’identità iraniane. Alcuni combattimenti si svolgono nella neve, si riconoscono le montagne del Golan, a due passi da Israele. È lì che Abu Yaman ha vissuto tutta la vita, ma non parla mai degli israeliani. La sua guerra è contro il regime. Dice che Assad è “peggio dei nazisti”. Ecco perché ha accettato di parlare.
Occhiali da sole
A Parigi, in rue de la Boétie, Serge Klarsfeld si dondola nella sua poltrona. Risale indietro nel tempo, fino all’inizio della sua caccia. “Nel 1975 andai a Vienna per incontrare la moglie e la figlia di Alois Brunner. La signora Anni Brunner occupava un appartamento di otto stanze in un bel quartiere”. A Vienna Klarsfeld ingaggia due investigatori privati. “Uno di loro riuscì a entrare in casa della figlia. Frugando nell’appartamento, trovò la prova che era stata in Siria, a Damasco. Avevamo l’indirizzo!”.
All’epoca Serge Klarsfeld sta dando la caccia a vari nazisti. Molto preso dai casi Touvier, Barbie e del collaborazionista francese René Bousquet, accantona momentaneamente il fascicolo su Brunner. Lo riprende nel 1982, quando ottiene il numero di telefono di un certo dottor Georg Fischer a Damasco.
Sua moglie Beate compone il numero, il 332090.
“Pronto?”.
“Signor Brunner, la chiamo da Bonn. Mio padre ha lavorato a lungo con lei e il mio capo è nei servizi segreti”, dice Beate in un tedesco perfetto.
“Le trasmetto il suo consiglio di non andare in Svizzera per curare il suo occhio. Il rischio di un attentato è troppo alto”.
“La ringrazio, signora. Dica al suo capo che prego per lui ma che non ho intenzione di andare in Svizzera”.
Beate riaggancia, chiama la moglie di Brunner a Vienna e ripete la scena: “Signora, avverta suo marito! Venire in Svizzera sarebbe troppo rischioso”. “Lo farò!”, ringrazia Anni Brunner, preoccupata.
Ormai certo che Georg Fischer è Alois Brunner, Serge Klarsfeld prende un volo per Damasco.
“Cosa intendeva fare una volta arrivato?”, gli chiediamo.
“Riprendere la caccia! All’epoca il caso era chiuso. Quando chiesi il fascicolo su Brunner al procuratore di Francoforte, fu difficile trovarlo. Erano vent’anni che nessuno lo apriva!”.
Serge Klarsfeld sa che non lo lasceranno andare molto lontano. Ma farsi arrestare in Siria nel tentativo di smascherare un criminale nazista è già qualcosa. Imbarazzate, la Francia e la Germania presentano due timide richieste di estradizione agli amici siriani.
La stampa reagisce cercando di trovare dei dettagli sulla tranquilla esistenza del dottor Fischer. Il settimanale tedesco Bunte riesce a fotografarlo nel 1985 a Tartus, una città di mare siriana. Lo scatto ritrae un uomo calvo con gli occhiali da sole e una camicetta a righe, che apre la bocca e allarga le braccia come se stesse raccontando una storia. Gli mancano tre dita alla mano sinistra.
L’immagine è inviata al laboratorio di antropometria della polizia criminale di Wiesbaden per essere confrontata con una fotografia di Brunner scattata nel campo di Drancy nel 1943. Il cranio, e soprattutto le orecchie – che sono uniche, come le dita – corrispondono. L’identificazione è ufficiale: è lo stesso uomo.
Un uomo meticoloso
A Irbid, in Giordania, il nostro ospite Abu Yaman ce la mette tutta per rintracciare i suoi ex colleghi. Moltiplicando le telefonate, ristabilisce un contatto con Abu Raad, che ha servito per ventidue anni nel ramo 300,dal 1978 al 2000. Oggi Abu Raad vive con la famiglia nell’immenso campo profughi di Zaatari, in Giordania.
All’inizio Abu Raad non vuole parlare, poi Abu Yaman lo convince, e così si presenta, ancora incerto, con la sua ampia galabia grigia e i suoi denti marci. Al tempo stesso ignorante, vanitoso, bugiardo e subdolo, con lo sguardo torvo e la voce rauca, Abu Raad corrisponde all’immagine caricaturale del boia del mukhabarat. Lo registriamo a sua insaputa.
“Ho trascorso diciotto anni con Brunner, diciotto anni! Ogni giorno firmavo un foglio di presenze che finiva direttamente ad Hafez al Assad. Eravamo pochissimi a sapere della sua esistenza, non ne parlavamo mai. Quando andava a fare una passeggiata, camminavo due metri dietro di lui. La cosa lo faceva imbestialire, ma se lo avessi lasciato solo mi avrebbero impiccato”, dice con voce piena d’orgoglio.
Un giorno un tizio va a trovare Brunner e gli dice: “Andiamo in spiaggia!”, ricorda Abu Raad. “Andarono a Tartus. Riuscirono a ottenere un permesso, ancora oggi non so come! Quel tizio aveva una macchina fotografica nell’orologio, è con quella che è stata scattata la foto che si vede dappertutto”.
A Damasco i servizi siriani sono in allerta. “Ce la siamo vista brutta dopo quella vicenda!”, esclama Abu Raad. Per ricordare a tutte le guardie l’importanza della loro missione, una copia del giornale con la foto di Brunner è tenuta in bella mostra. “Quando ricevevamo gli ordini, ce la sventolavano sotto il naso dicendoci di non essere stupidi come le due guardie che l’avevano fatto finire in prima pagina”, precisa Abu Yaman.
Abu Raad si fa più loquace. “Le lettere arrivavano all’appartamento, in viale Circassia, nel quartiere di Abu Rummaneh. Abu Hossein riceveva uno stipendio che andava a ritirare all’ufficio centrale delle poste. Male lettere smisero di arrivare nel 1980, dopo il secondo pacco bomba, quello che esplose nel suo appartamento”, strappandogli tre dita.
Abu Raad racconta, tutto tronfio: “Brunner non si fidava di nessuno per il cibo. Teneva sempre da parte diciassette o diciotto lire siriane per me perché sapeva che avevo una famiglia numerosa. Gli portavo uova e formaggio dal mio villaggio, burro ed erbe. Aveva un vaso in cui piantava il grano, sapete perché?”. Fa una pausa per assicurarsi che tutti lo stiano ascoltando. “Quando i germogli raggiungevano la grandezza di una mano, strappava le radici per mangiarle. Diceva che era un medicinale naturale”.
Descrive un uomo meticoloso, che conosceva le piante. “Immergeva i fiori di camelia nell’acqua bollente, li lasciava due giorni, poi versava tutto in un flaconcino e si metteva una goccia nell’occhio”. Le piante dovevano seccare all’ombra.
Per le schegge lasciate dai due pacchi bomba, il primo nel 1961 e il secondo nel 1980, Brunner ha un rimedio a base di olio, salsa chili e mostarda: “Faceva bollire la pozione e l’applicava dove gli faceva male. Sulla pelle metteva anche iodio e vino”
Il nazista di Damasco è abbonato alla rivista della società austriaca delle piante medicinali, che riceve per posta. “Era un grosso volume con le illustrazioni. Quando andava al parco Sebki, confrontava le piante del giardino con i disegni del libro, e quando ne trovava una che andava bene la tagliava e se la portava a casa”.
Abu Raad ricorda bene le manie del nazista: niente grassi, tranne un cucchiaio di olio d’oliva, i pomodori tagliati in tre, come l’aglio, le zucchine e le cipolle, il tutto immerso nell’acqua bollente per sessanta minuti, non uno di più. “E non metteva mai il sale nella zuppa. Il sale era vietato!”. Abu Yaman conferma: “Lo trovava disgustoso”.
“Ogni mattina appena sveglio faceva le pulizie. Era il suo modo di fare sport. Poi faceva colazione: pane integrale con un po’ di burro e marmellata di albicocche. Verso le dieci si vestiva come un emiro”. Abu Raad imita un uomo che si mette gli occhiali da sole e il cappello, incrocia le mani dietro la schiena e comincia a fischiettare prima di lanciarsi in una specie di sfilata militare. “Poi si metteva la vestaglia e cominciava a cucinare. A mezzogiorno mangiava, la sera prendeva solo un bicchiere di yogurt”.
L’ex impiegato dei servizi segreti s’immerge in un lungo silenzio. Si accende una sigaretta, ripete che deve andare, poi divaga ad alta voce sulla qualità del tabacco siriano rispetto alle schifose sigarette cinesi che fuma dalla mattina alla sera.
“Aveva anche dei conigli sul tetto”.
“Come, scusi?”.
“Diceva che non aveva figli e che quindi i conigli erano i suoi bambini. Non ho mai capito cosa intendesse, ma tre volte al giorno davo un pezzo di pane ai suoi‘figli’”.
I conigli non mangiano pane, e infatti il nazista va su tutte le furie e insulta la guardia dandogli del khumar, asino in arabo. “Diceva al capo: ‘Non voglio più vedere questo qua, è un khumar!’. Ah ah, ho trascorso diciotto anni con lui e giuro davanti a Dio che lo rispettavo! Credo perfino che fossimo amici”.
L’“amico” di Brunner si considera un privilegiato: “Quando ero di guardia potevo pisciare nel suo gabinetto. Dicevo piss e lui mi apriva la porta. Ero l’unico che aveva il diritto di pisciare nel suo appartamento”. È molto fiero. Abu Yaman conferma: “È vero! Le guardie chiedevano sempre d’installare i gabinetti sul tetto”.
Un ragazzo parla in un angolo della stanza. La cosa irrita Abu Raad, che posa il suo cafè alzando la cresta, la sua specialità: “Ci interrogavano ogni due o tre settimane per sapere chi avevamo visto, cosa avevamo fatto. Non mi apprezzavano perché ero coscienzioso e perché ero il più intelligente”. Poi di nuovo si chiude, agitandosi sul cuscino. “Non so nulla, facevo il mio lavoro e tornavo a casa, tutto qua!”. Cinque secondi dopo, svela un’altra informazione: l’esplosione del secondo pacco bomba lasciò una traccia sul pavimento dell’appartamento. Dev’essere ancora visibile.
“Alla ine anche con l’occhio buono non ci vedeva quasi più. La notte saliva sul tetto per guardare le stelle e, quando ne scorgeva una, era contento”. Abu Raad dice che Brunner aveva trasferito tutta la forza della sua mano deturpata sul pollice. “Prima toccava la serratura e poi apriva la porta con l’altra mano, la destra. Metteva ogni oggetto in un posto preciso, come se fosse cieco. Se spostavamo qualcosa, andava su tutte le furie!”.
Fuga da Berlino
Gli chiediamo perché Hafez al Assad proteggeva Brunner. Abu Raad schiva la domanda: “Per romperei coglioni agli israeliani!”. Gli porgiamo una sigaretta. “Mi raccontò la sua fuga da Berlino. Uscendo dalla città, si fece fermare da un soldato russo, inglese o americano, poco importa! Per superare il posto di blocco gli offrì il suo pacchetto di sigarette, e il soldato accettò. Quel giorno smise di fumare. Odiava quel soldato che lo aveva lasciato passare e ripeteva che il tabacco è traditore”.
Brunner passa gran parte delle sue giornate con l’orecchio incollato alla Bbc, ma è anche spiritoso. Quando imita Hitler, si esibisce nel passo dell’oca. Quando vede dei passanti senza cappello camminare nel freddo invernale, li chiama khumar. La guardia pronuncia la parola con l’accento tedesco e scoppia a ridere.
Nel corso degli anni ottanta Brunner esce sempre a passeggiare verso le cinque del pomeriggio. “Sulla via del ritorno passava da un tizio che aveva una stireria e parlava molto bene il tedesco, il francese e l’inglese. Chiacchieravano un po’, poi tornava a casa”.
“Chi era quel signore?”.
“Non so!”, taglia corto Abu Raad, e il suo sguardo lascia intendere che è inutile insistere.
La storia della lavanderia è confermata dal comandante Philippe Mathy, che ha indagato per anni sui criminali nazisti in fuga. Mathy viene a conoscenza dello “stiratore di Damasco” grazie a un giornalista della Kronen Zeitung: “Quel giornalista aveva incontrato un casco blu austriaco che aveva incrociato Brunner in una lavanderia di Damasco e l’aveva immediatamente riconosciuto”. Abu Raad fa il prezioso.
Sente che sta parlando troppo, s’interrompe. ‘Non so cos’è successo dopo, non so quando Brunner è morto. Mi hanno assegnato altrove’.
Tentiamo le lusinghe: “Come ti sentivi sapendo che ti avevano affidato questa importantissima missione?”. “Ogni giorno pensavo che gli americani sarebbero scesi dal cielo per attaccarci. Eravamo ventidue, due turni di guardia da undici. Quando nel 1996 il presidente francese Jacques Chirac venne in Siria per chiedere ad Assad di consegnare Brunner, le guardie diventarono dodici. È a quel punto che cambiammo posto”.
Sente che sta parlando troppo, s’interrompe. “Non so cos’è successo dopo, non so quando Brunner è morto. Mi hanno assegnato altrove”. Poi, senza che nessuno gli chieda nulla: “Tanto ormai è storia passata. C’era un altro posto, vicino alla residenza del presidente. Lo mandarono nel sottosuolo del quartier generale della sezione 300”.
In quel periodo, alla ine degli anni novanta, il comandante Philippe Mathy identifica un amico intimo di Brunner: il nazista Otto Ernst Remer, che si gode la vita in una villa piena di fiori sul mare a Marbella, sulla costa spagnola. “Non era cambiato”, racconta Mathy, che interrogò l’ex nazista in un salotto pieno di pile del suo libro, non molto venduto. Sulla copertina c’era Remer che, giovane ufficiale, stringeva la mano di Hitler.“Otto Remer era molto nervoso. Aveva un tono glaciale. Sua moglie invece parlò, aveva paura”, racconta Mathy. Sì, ammette la donna, hanno visto più volte Alois Brunner a Damasco. Seduto accanto a lei, il marito esplode. “La insultò, disse che era una bestia. Poi parlò”.
Otto Remer ammette di aver fatto “affari” con Brunner alla fine degli anni cinquanta. Da allora è andato a trovarlo diverse volte. Quando ha saputo dell’attentato del 1980, ha preso un aereo per andare al suo capezzale ma i servizi di sicurezza gli hanno negato l’accesso all’ospedale. Il comandante chiede se ha notizie più recenti.
“No, nessuna”.
“È morto?”.
“Se fosse morto, mi creda, sarei il primo a esserne informato”, risponde l’anziano nazista, indebolito da difficoltà respiratorie. Il comandante Philippe Mathyha ormai la certezza che Brunner è ancora vivo e si trova in Siria.
A due riprese, Mathy fa in modo che la questione Brunner sia sollevata direttamente con il presidente siriano. La prima volta è nel 1996, quando Hafez al Assad assicura a Jacques Chirac che “Brunner non è in Siria e non c’è mai stato”. Due anni dopo durante un’intervista al telegiornale in prima serata della tv francese Tf1 il presidente siriano sbotta: “Questa storia è campata in aria! Se voi sapete dove si trova Brunner, mando subito qualcuno ad accompagnarvi da lui”. Philippe Mathy non è sorpreso. “Sapevo”, racconta, “che Assad avrebbe negato ma volevo vedere la sua reazione. Era imbarazzato”.
Arrivano profumi dalla cucina, di nuovo. Appena il pranzo è servito Abu Raad si avventa sui piatti. Poi si stende e racconta la sua carriera. “Ero in un’unità speciale, ci chiamavano ‘l’unità suicida’. Ricevevamo un addestramento molto duro che durava quattro anni. Ci sparavano con proiettili veri. Facevamo lotta corpo a corpo, karate, jujitsu. Il nostro capo era Rifaat al Assad, il fratello di Hafez”. Abu Raad si offre volontario per servire nella sicurezza dello stato: “Bisognava far parte del partito Baath. Se tra i candidati c’erano un ingegnere che non era iscritto al partito e un analfabeta con la tessera del Baath, il posto di comando andava all’analfabeta”.
S’inchina per un’ultima preghiera, ci guarda portandosi una mano al cuore e pronuncia l’unica frase che conosce in inglese: “I’m sorry”. Poi in arabo, senza sapere che abbiamo registrato tutto: “Non vi dirò nulla, ma se parlassi potreste riempire dieci pagine”. Abu Yaman chiama un taxi, accompagna Abu Raad e gli strappa la promessa di rivedersi. La macchina si allontana. Ci guardiamo in silenzio, abbastanza sfiniti.
Riascoltiamo a caldo la registrazione. Abu Yaman storce il naso sentendo alcuni particolari. A proposito di un posacenere che Brunner avrebbe lasciato ad Abu Raad: “Mente! Quel posacenere l’ha rubato”. Poi, sul nome in codice Abu Hossein, che non sarebbe mai stato usato: “Anche qui mente, lo chiamavamo così tra di noi”. È chiaro che Abu Yaman è un nostro alleato. L’ex guardia di Brunner non è disposta a raccontare una cosa qualunque. Vuole la verità.
Lungo il binario
“Quando ci si lancia in una battaglia come questa, è impossibile sapere se andrà a buon ine. Con Klaus Barbie ci siamo riusciti. Con Brunner purtroppo le abbiamo provate tutte”, mormora Serge Klarsfeld. Nel 1986 l’avvocato spinge il capo dell’Interpol a lanciare un mandato di cattura internazionale. Nel 1990 prova a farsi arrestare a Damasco: “Avevo un appuntamento con il viceministro degli esteri, che mi diede buca. Così chiesi alla reception dell’albergo dove alloggiavo se potevo prenotare una sala. Il tema della mia conferenza era ‘I criminali nazisti: Klaus Barbie in Bolivia e Alois Brunner in Siria’”.
Arrestato immediatamente, Serge Klarsfeld è espulso sul primo volo per l’Europa, con destinazione Vienna. “Mi misi a sedere in un posto a caso e scoprii che il passeggero accanto a me era un vicino di Brunner a Damasco. Viveva parte dell’anno negli Stati Uniti. Diedi il suo nome alla gendarmeria, che andò a interrogarlo. Diventò il loro informatore principale. Fu lui che ci segnalò il trasferimento di Brunner negli anni novanta”.
Un giorno, dalla finestra di casa sua, il vicino vede il nazista di Damasco salire su un’ambulanza, chiaramente molto indebolito. Nei giorni seguenti, un uomo della guardia personale di Hafez al Assad prende possesso dell’abitazione vuota.
“Non si è mai chiesto perché il regime lo sosteneva a tal punto?”, chiediamo a Serge Klarsfeld.
“Un agente dei servizi segreti francesi, molto attivo in Siria negli anni ottanta, mi ha detto che Brunner era un consigliere del regime in materia di polizia politica”.
“Brunner addestrò i servizi di sicurezza?”.
“Era un consigliere, a quanto pare era esperto di tortura. Ma non ce lo vedo che tortura qualcuno, rifiutava di toccare gli ebrei”
La mano che colpiva portava un guanto bianco. “Era un sadico, il più crudele di tutti. Nel dicembre del 1942 l’ho visto gettare secchiate di acqua gelida su un gruppo di donne anziane”, racconta nel 1945 la superstite Regine Wiener. Un altro sopravvissuto ai campi, Serge Smulevic, descrive il suo incontro con Brunner il 17 dicembre 1943: “Abbiamo appena lasciato Drancy e siamo allineati su un binario della stazione di Bobigny. Sono in prima ila, tra i miei due migliori amici, Maurice Fainstein e François Sandler. Davanti a noi c’è un treno merci e, schierati lungo il convoglio, i soldati delle Ss armati di mitra. Vediamo avvicinarsi lentamente Alois Brunner”.
Un civile traduce gli ordini. Se qualcuno cerca di scappare, tutti gli occupanti del vagone saranno uccisi. È vietato portare con sé coltelli o altri oggetti appuntiti con cui provare a bucare il pavimento del vagone, ricorda Smulevic. “Poi Brunner comincia ad aprire dei bagagli a caso. Si ferma davanti al mio amico François, apre la sua borsa e si mette a rovistare. Tira fuori un coltellino per pelare le patate. Si alza, con un sorriso sarcastico sulle labbra, e avvicina il coltellino agli occhi di François, passando rapidissimo da un occhio all’altro come se volesse cavarglieli. D’un tratto, con un gesto veloce e preciso, gli taglia più di metà dell’orecchio sinistro. Nessuno osa muoversi. Pochi istanti dopo saliamo sul vagone. Non sono mai riuscito a dimenticare l’immagine di quell’orecchio penzolante”.
Brunner si comporta ovunque come un assassino sadico e determinato. Nel febbraio del 1943 l’ufficiale nazista è in Grecia per applicare la soluzione finale ai 54mila ebrei ammassati nel ghetto di Salonicco. Abita al primo piano di una villa che si affaccia su un giardino lussureggiante. Sul suo balcone sventola una bandiera nera con un teschio, le cantine sono attrezzate per strappare confessioni.
Un sopravvissuto ricorda: “Il più feroce dei dodici boia era Brunner. Frustava le sue vittime con uno scudiscio fatto di sottili cinghie di cuoio intrecciate a ili di ferro. Le terrorizzava con una pistola, puntandola contro la nuca, la fronte o la tempia, le spingeva contro un muro e simulava la loro esecuzione”.
Hafez al Assad reclutò Alois Brunner per sfruttare le sue capacità di amministratore-torturatore? Le guardie del corpo parlano del dottor Fischer come di un “professore”. “Al suo arrivo in Siria, andò direttamente da Hafez al Assad presentandosi come un uomo vicino a Hitler. E così Assad lo nominò suo consigliere. Fu mandato a Wadi Barada, una base dei servizi segreti. Lì addestrò tutti i capi”.
Le guardie fanno il nome degli allievi di Brunner: “Ali Haidar, Ali Duba, Mustapha Tlass, Shafiqq Fayadh”. Tutti appartengono alla cerchia ristretta del clan Assad. Tutti hanno guidato le principali agenzie del mukhabarat: la sicurezza militare, la sicurezza politica, la direzione dei servizi segreti generali, la sicurezza dell’aviazione militare. Ognuna di queste agenzie ha un quartier generale a Damasco, delle sezioni regionali e dei centri di detenzione. È lì, in questi buchi neri disseminati in tutto il paese, che vengono torturati uomini, donne e bambini. Da più di sessant’anni.
Nel cuore del segreto
Per dieci anni il ricercatore Nadim Houry ha studiato l’apparato di sicurezza siriano per l’ong Human rights watch. Ha pubblicato L’arcipelago della tortura, un’inchiesta di ottantuno pagine sul mukhabarat in cui spiega che gli agenti siriani usano trentotto “tecniche” di interrogatorio.
“Alois Brunner è all’origine di questo sistema?”, gli chiediamo.
“Si dice che i tedeschi abbiano formato il mukhabarat. Esiste una tecnica, molto apprezzata dai torturatori, chiamata al kursi al almani, la sedia tedesca”, risponde Houry.
La sedia tedesca è dotata di cinghie metalliche che permettono di legare la vittima in modo da tirargli il dorso fino a spezzarlo. In alcune versioni si aggiungono dei coltelli per lacerare le carni via via che la sedia viene inclinata. “Sono colpito dal rigore con cui il mukhabarat continua, nonostante la guerra, ad arrestare persone, a torturare, a firmare rapporti, ad accumulare scartoffie su ciò che è stato detto o fatto, a numerare i corpi”, commenta Nadim Houry. “Ha un sistema di archiviazione impressionante, degli agenti determinati. Ci sono pochissime diserzioni”.
Secondo un siriano della cerchia ristretta della famiglia Assad, che è stato un ufficiale di alto rango dei servizi di sicurezza finché è fuggito dalla Siria, si tratta di un “meccanismo di sopravvivenza”. “Quando non c’è più una direzione, quando il mondo che si conosce sta crollando, chi esegue gli ordini si concentra sui propri punti di riferimento. E quello che il mukhabarat sa fare è arrestare e torturare”.
All’inizio dell’intervista, l’ex alto ufficiale del regime ha storto il naso sentendo il nome di Alois Brunner. Si è subito ripreso: “Brunner era una carta che il regime teneva da parte. Non si può mai sapere se una carta servirà, così si tiene a disposizione. Solo le dittature trattano così le persone. Finché un giorno le abbandonano perché non ne hanno più bisogno o perché costano troppo”.
“Brunner è stato abbandonato?”, chiediamo.
“Vedete, ai tempi di Hafez al Assad c’era un sistema. Suo figlio Bashar era convinto di ereditarlo, ma i sistemi non si ereditano, perché si basano sulle persone e sui rapporti di fiducia. Un sistema si costruisce un po’ alla volta”.
L’uomo descrive uno stato governato dal segreto e per provarlo ci racconta un aneddoto: la storia di un generale dell’agenzia per la sicurezza dell’aviazione che nessuno conosceva, nemmeno i dirigenti del mukhabarat. “Ignoravamo tutti la sua esistenza. Quel generale trattava direttamente con il capo, era il consigliere personale di Hafez al Assad sull’Iran e sulla Russia. Quando Hafez al Assad è morto, suo figlio Bashar aveva due opzioni: promuovere il generale o mandarlo in pensione. Io ero un consigliere di Bashar e gli dissi: ‘Quest’uomo sa delle cose, incontralo per conoscere i segreti di tuo padre!’. Bashar rifiutò di discutere e lo mandò subito in pensione”.
“Brunner aveva la stessa posizione?”.
“Non lo so”.
“C’entrava qualcosa con la tortura?”.
“Solo quelli che sono stati formati da Brunner potranno dirvelo, non sono informazioni che si condividevano”.
“Lei lo ha mai incontrato?”.
“Quand’ero ragazzino, percorrevo la sua strada tornando da scuola”.
“Cosa sa della sua morte?”.
“Era molto anziano, credo avesse novant’anni. Dovete capire una cosa, questo regime è come la mafia: quando protegge qualcuno, lo fa sul serio. Ma se la comunità internazionale avesse davvero voluto la sua testa, l’avrebbe ottenuta”.
Alcuni telegrammi diplomatici desecretati dalla Cia lo confermano. Nel 1984 l’ambasciatore statunitense a Damasco, William Eagleton, scrive al segretario di stato George Shultz per informarlo che Brunner si trova effettivamente in Siria, dove addestra i guerriglieri curdi contro la Turchia.
Dal suo ufficio di Washington, Shultz passa la patata bollente al suo ambasciatore: “Fate pressione per ottenere la sua estradizione!”. Un anno dopo, un avvilito Eagleton riprende la penna per confessare la sua impotenza: “Avendo l’agenda piena di questioni delicate come il terrorismo, gli ostaggi e i missili, non ho ancora trovato il momento ideale per sollevare il caso Brunner con il regime”.
Dritto al punto
A Irbid, in Giordania, aspettiamo a lungo con Abu Yaman uno dei capi della sezione 300, l’unità di controspionaggio incaricata di proteggere Brunner. Bloccato dai combattimenti dall’altro lato della frontiera, non riesce a raggiungerci. Abu Yaman allora ripiega su un altro testimone, una guardia che ha conosciuto Brunner negli ultimi anni della sua vita. Per proteggere la sua identità lo chiameremo Omar.
L’intervista si svolge al telefono. Abu Yaman fa le domande. Dopo i tanti giorni passati insieme, sa esattamente su cosa concentrarsi: la data della morte di Alois Brunner.
Serge Klarsfeld pensa che il nazista sia morto nel 1992. Ma nel 1995 la Germania promette una ricompensa di 333mila dollari per qualunque informazione in grado di portare al suo arresto. E sette anni dopo anche l’Austria annuncia una ricompensa di 55mila dollari. Nel 2014 il cacciatore di nazisti israeliano Efraim Zuroff, del centro Simon Wiesenthal, dichiara che Brunner è morto a Damasco nel 2010, a 98 anni. Dov’è la verità?
Al telefono, Omar va dritto al punto: “Ascolta, fratello, io ero presente. Sono sicuro al cento per cento che era il 2001. C’è stata perfino una cena funebre organizzata da quelli della sezione 300 ad Al Muhajerin, davanti alla moschea Al Murabit a Damasco”.
Trasferito nel 1991, Brunner era stato sistemato nel sottosuolo del quartier generale dell’unità a Damasco. La conversazione avviene attraverso un’applicazione che cripta le chiamate. Le due guardie fanno attenzione alle parole che usano: “Ne sono assolutamente certo perché ‘la grande testa’ era morta”. Omar si riferisce a Hafez al Assad, morto nel giugno del 2000. “E quello che amiamo”, aggiunge in tono ironico, riferendosi al figlio Bashar, “è diventato il capo”. Fai nomi di tutti i responsabili del mukhabarat in carica all’epoca: “Ti ricordi, fratello! Jamil Hudeifah ha preso la sezione 300 e Bajat Suleiman era il capo della sezione 251”. Abu Yaman dice: “Dopo aver lasciato l’unità, ho saputo che al guardiano del cimitero avevano detto che si trattava di un anziano signore morto da solo, e che il corpo era già stato lavato secondo il rito musulmano”.
Abu Omar conferma: “Sì, è morto nel 2001. E il funerale è stato celebrato di notte, subito dopo l’ultima preghiera”. Nell’islam la salat al isha, l’ultima preghiera della giornata, si recita verso le 19.30. “Per la cena funebre abbiamo mangiato della sfiha”, una specie di soufflé di carne, “ma avevamo paura della gente e degli sguardi. Se un vicino ci avesse chiesto qualcosa, dovevamo dire che era morto uno dei nostri agenti”.
Abu Yaman gli chiede di raccontare gli ultimi anni del vecchio nazista. “L’avevano messo in una stanza nel sottoscala. Si entrava da una porta sul retro, accanto a un negozio di fiori. Dopo averlo messo lì dentro, chiusero la porta senza mai più riaprirla. Non è mai uscito da quella stanza. L’hanno trattato malissimo, questo è certo. Urlava, insultava i soldati. Gli davano pochi medicinali, solo delle aspirine. Non è mai uscito da lì”.
La tensione sale. Omar dice di avere paura. Con voce calma, Abu Yaman gli risponde di non preoccuparsi, la conversazione è criptata. “Che Dio ti ascolti! Questa telefonata non mi piace”.
Omar racconta il funerale: “Si è svolto nel cimitero Al Afif, le strade erano bloccate perché nessuno potesse vedere. Io sorvegliavo i dintorni, non potevo neanche guardare. Dovevo dare le spalle al funerale. Solo otto persone avevano il diritto di assistere alla cerimonia, ‘i più speciali tra gli speciali’, tra cui due alawiti: Mohammed al Hassan, che era il capo delle guardie del quartier generale di Al Muhajerin, e Ali al Madani, il responsabile dei turni di guardia”.
Omar dice che era inverno, ‘ottobre, novembre o dicembre’. È preoccupato: ‘Se faccio domande, si interesseranno a me e le conseguenze saranno fatali’. Silenzio: ‘Questa telefonata non mi piace per niente’
Omar dice che era inverno, “ottobre, novembre o dicembre”. È preoccupato: “Se faccio domande, si interesseranno a me e le conseguenze saranno fatali”. Silenzio: “Questa telefonata non mi piace per niente”.
Accovacciato davanti al telefono sul tavolo basso, Abu Yaman cerca di rassicurarlo: “Quanto tempo hai servito laggiù?”.
“Devo proprio rispondere?”.
“No. Se non vuoi, non devi dirlo”.
“Ho servito dal 1987 al 2002, poi mi hanno trasferito da un’altra parte, tu sai dove”.
Abu Yaman mormora che era la sezione 251. Alzando la voce, chiede di punto in bianco al suo interlocutore come è morto Brunner. “Era molto stanco, molto malato. Soffriva e gridava spesso, lo sentivano tutti. Solo le guardie potevano parlargli. Non era tra le mie mansioni, non potevo neanche guardarlo. L’ho visto una volta, il giorno in cui le guardie hanno aperto la porta per disinfestare la stanza dagli insetti. Era alto e calvo, aveva almeno ottant’anni”.
“Chi era responsabile del vitto?”.
“Gli portava da mangiare il capo delle guardie. Aveva diritto a una razione da soldato, una roba schifosa, un uovo o una patata, o uno o l’altra”.
Come uno straniero
Di tanto in tanto si sentono grida di bambini in sottofondo, mentre la guardia continua a parlare con il suo tono preoccupato. “Quella stanza faceva schifo, era una vergogna. Per persone normali sarebbe stato un posto disumano, ma Abu Hossein si è adattato a quella vita”. Omar ripete che nel suo lavoro non poteva fidarsi di nessuno: “Tutti sapevano che era un uomo importante, ma nulla di più. E non te ne parlerei se non mi fidassi completamente di te”.
Abu Yaman spiega che tra i soldati si infiltravano delle spie, che bisognava restare all’erta. Fare domande poteva costare la vita. La voce al telefono continuava parlare: “Per quanto riguarda il posto, è semplice: è lì che portano tutti i sospetti. C’è molto movimento, un viavai di agenti alle prese con le loro inchieste”.
Omar descrive Brunner nella sua cella. “Sai, i prigionieri vivono in un’altra realtà. A volte urlava, altre volte rideva forte, aveva degli attacchi di ridarella, e sbatteva la testa contro il muro. Poteva durare giorni, a volte intere settimane, poi tornava normale. Capisci cosa intendo quando parlo di un’altra realtà? Gli era venuta una malattia della pelle per via dell’assenza di sole e di aria fresca. Probabilmente riusciva a distinguere il giorno e la notte grazie ai rumori. Quando non sentiva nessuno sopra la sua testa, capiva che gli uffici erano chiusi”.
“Eri presente quando l’hanno trasferito?”, chiede Abu Yaman.
“No, ma sai come si procede in questi casi: di notte e con una scorta. Prima del suo arrivo la porta restava aperta. Poi è rimasta sempre chiusa. Quando è morto abbiamo ridipinto la cella e la porta si è di nuovo aperta”.
Abu Yaman torna sulle date: “Sai quando è stato trasferito?”
“Aspetta. Che Dio mi aiuti a ricordare”.
“Fai con calma”.
“Dopo il 1995, il 1996 o il 1997. Ma prima del 1999,questo è certo”.
“Sai perché l’hanno fatto?”.
“Per ragioni di sicurezza”.
“Era in pericolo?”.
“Certo che era in pericolo! Fuori sapevano della sua esistenza, aveva ricevuto dei ‘regali’. Era una situazione delicata. Temevano che venisse assassinato o rapito, che qualcuno lo fotografasse, o che ci fosse un bombardamento. Poteva succedere qualunque cosa”.
Gli chiediamo chi avrebbe potuto uccidere Brunner. “Israele, ovviamente”, risponde divertito. Poi l’atmosfera diventa di colpo tesa: “Ho l’impressione di subire un interrogatorio. Mi ricorda la volta che sono stato imprigionato per trentasei giorni di seguito”. Lo rassicuriamo, Abu Yaman gli parla del suo lavoro. “Non ho un lavoro, me ne sto a casa a grattarmi la testa”. Scoppiamo tutti a ridere.
Abu Yaman torna alla carica. “Cosa pensi di lui?”.
“Vuoi dire cosa ne penso come uomo? Ho sentito dire spesso che era una brava persona, che cercava di dare consigli sulla salute alle guardie che lo sorvegliavano”.
“Quando hai scoperto quello che aveva fatto, cosa hai pensato?”.
“Quello che so io, francamente non tutti lo sanno. Era un ufficiale importante in Germania, una volta ho visto una trasmissione alla televisione che si chiamava Apocalisse, hanno parlato di ‘tizio’”.
Nel 2001 la giustizia francese ha giudicato in contumacia Alois Brunner dopo che il giudice Hervé Stéphan aveva istruito un processo per crimini contro l’umanità. Nessun giurato, pochissimi testimoni
“Tizio” è una parola in codice per indicare Brunner. “Un tempo non c’interessavamo molto a queste cose, non avevamo questa apertura mentale. Ci siamo resi conto di chi eravamo con la rivoluzione del 2011. Detto ciò, è dura morire da solo come uno straniero. Anche se è stato un uomo malvagio come Saddam Hussein, mi dispiace per lui”.
Non ci sarebbe stato nulla di strano, dice la guardia, se avessero buttato Brunner in prigione, “ma almeno una vera prigione, che rispettasse i bisogni umani elementari”. Secondo lui il peggiore degli uomini ha diritto a un processo: “Non poteva nemmeno lavarsi. Neanche gli animali si tengono in un posto così. Mi dispiace per quell’uomo ogni volta che penso a lui, è morto un milione di volte”.
Nel 2001 la giustizia francese ha giudicato in contumacia Alois Brunner dopo che il giudice Hervé Stéphan aveva istruito un processo per crimini contro l’umanità. Nessun giurato, pochissimi testimoni. “Non è stato il processo Papon, questo è poco ma sicuro! Il nostro problema era che non conoscevamo la data della sua morte”, ricorda il magistrato, oggi consigliere alla corte di cassazione. Lo informiamo che Alois Brunner è morto alla fine del 2001. Spalanca gli occhi.
“Davvero?”. Silenzio.
“Quindi era ancora vivo quando lo abbiamo giudicato a Parigi”.
Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2017 nel numero 1187 di Internazionale.
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