Le persone abbastanza vecchie da aver frequentato i negozi di videonoleggio ricorderanno sicuramente l’opprimente indecisione mentre esploravano i loro scaffali. Con tutta quella scelta, ogni film sembrava poco attraente, o insufficiente. Sembrava impossibile trovare un equilibrio tra i gusti e le preferenze del momento. Era tutto lì, eppure non c’era nulla da guardare.
Quei giorni sono finiti ormai da un pezzo, ma l’indecisione nella scelta di un film o di un programma è diventata ancora più soffocante. Prima è arrivata la tv via cavo, con centinaia di canali. Poi è toccato ai servizi di streaming, che obbligano il potenziale spettatore a districarsi con software diversi su piattaforme diverse, in un’infinita ricerca nei cataloghi di Hulu, Netflix o Apple Tv+ per trovare qualcosa di “guardabile”.
Blockbuster è morto e sepolto, ma il sentimento di sopraffazione che provavamo tra gli scaffali pieni di titoli si è trasferito nelle nostre camere da letto.
Lo stesso meccanismo si ripete per un numero infinito di attività, al lavoro e nei momenti di svago. Il luogo dove ci troviamo non ha più alcuna importanza. Per scrivere un’email va bene l’ufficio ma vanno bene anche il letto o il bagno. Possiamo guardare la tv in camera ma anche in auto o al bar, trasformando questi spazi in sale cinematografiche improvvisate. Facciamo la spesa usando un’applicazione sullo smartphone mentre aspettiamo che cominci la recita dei bambini. Queste abitudini comprimono il tempo, ma trasformano anche lo spazio. Ormai nessun luogo è più straordinario. Un posto vale l’altro, perché ognuno offre i piaceri e gli oneri di tutti gli altri. Che motivo abbiamo di uscire se possiamo fare quasi tutto da casa?
Schermi in casa
Durante le vacanze di Natale sono andato con la mia famiglia in un centro commerciale alla periferia di Atlanta, per vedere Star Wars: l’ascesa di Skywalker. Era il cinema più vicino che offriva le tecnologie Dolby Vision e Dolby Atmos, così abbiamo deciso che la gamma allargata di colori e il suono avvolgente potevano giustificare un viaggio di 40 chilometri.
Vedere i nuovi film è uno dei pochi svaghi rimasti che ci obbligano a uscire di casa (a meno che, ovviamente, non siate straricchi). Eppure nel 2017 l’affluenza nei cinema degli Stati Uniti ha raggiunto il minimo storico degli ultimi venticinque anni. I servizi di streaming e la tv via cavo offrono un catalogo talmente vasto che gli amanti dei film non hanno più bisogno di andare al cinema. Netflix, Amazon e Apple sono impegnati in una battaglia serrata con le grandi case di produzione cinematografica, e oggi le serie tv godono del prestigio e del budget un tempo riservati ai lungometraggi per il grande schermo. Di questi tempi i “film-evento” come Star Wars sono il modo migliore per attirare la gente nei cinema, e questo spiega il predominio attuale dei grandi film d’azione.
Diversamente da quanto aveva preconizzato l’anno scorso Martin Scorsese, non si tratta della morte del cinema in quanto arte, ma del fatto che le persone, semplicemente, hanno indirizzato la loro attenzione verso schermi più piccoli. E proprio l’ultimo film di Scorsese, The irishmen, ne è la prova, visto che è entrato nel catalogo di Netflix meno di un mese dopo la sua apparizione (limitata) nei cinema.
Negli ultimi vent’anni la tecnologia della fruizione dei film ha fatto irruzione nelle nostre case. I grandi schermi e i sistemi audio surround sono piuttosto comuni già da tempo, ma quando nel nuovo millennio è esplosa la moda degli schermi hdtv, presto diventata economicamente accessibile, il cinema in casa è diventato il concorrente dell’esperienza nella sala cinematografica. Le mura domestiche sono state rapidamente impreziosite da schermi piatti, in camera da letto o accanto al camino. Diversamente dai grandi film d’azione, dalle saghe degli eroi Marvel o dai prodotti Lucasfilm, un lavoro come The irishman fa una gran figura anche in casa. Di conseguenza le camere da letto, lo studio e i soggiorni sono diventate un surrogato accettabile del cinema.
Quando un programma si sposta sullo smartphone, ogni singolo cuscino del divano diventa un cinema
Ma il film di Scorsese è gradevole anche sullo schermo di un cellulare. Con un rettangolo piazzato a pochi centimetri dal volto e il suono incanalato nelle cuffie, Netflix regala una sensazione immersiva. Dopo l’invasione dei cinema casalinghi è toccato agli smartphone portare la tv sul divano, sulla sedia o a letto. L’intrattenimento cinematografico e televisivo è stato riversato in quasi tutti gli spazi architettonici. Oggi il cinema fluttua liberalmente all’interno delle case. Di solito, davanti alla sostituzione delle sale cinematografiche con gli impianti casalinghi, ci preoccupiamo per il destino dei cinema. Ma chi pensa alle case? È innegabile che oggi lo studio e la camera da letto debbano sostenere il peso di nuove responsabilità, includendo attività che un tempo si svolgevano altrove.
Gli smartphone non fanno altro che proseguire e accelerare questo processo. Quantomeno la tv della camera da letto doveva essere spenta se uno dei coniugi aveva voglia di dormire. Quando invece un programma si sposta sullo smartphone, ogni singolo cuscino del divano diventa un cinema: Daniel Tiger sullo schermo del bambino, The mandalorian su quello del padre, Stranger things su quello della figlia adolescente.
La nascita del non luogo
I critici architettonici avevano previsto che la vita moderna avrebbe cambiato la nostra sensazione di spazio. Quasi trent’anni fa l’antropologo francese Marc Augé ha coniato l’espressione “non luogo” per descrivere una serie di spazi di transizione in cui il senso di sé dell’individuo viene soppresso, o addirittura svanisce. Tra i non luoghi ci sono gli aeroporti, gli alberghi, i centri commerciali, i supermercati e le autostrade. Questi spazi presentano una tristezza intrinseca, perché diversamente dagli spazi legittimi, gli esseri umani non li occupano in senso compiuto, ma si limitano ad attraversarli diretti verso i “luoghi antropologici”, come Augé definiva le scuole, le case, i monumenti.
L’anonimato e l’inutilità dei non luoghi sono stati intaccati dagli smartphone
Nei decenni trascorsi dall’epoca di Augé i non luoghi si sono al contempo moltiplicati e ridotti. Da un lato il loro numero è cresciuto e le persone li frequentano di più: aumentano gli aeroporti e le stazioni dove un numero sempre maggiore di passeggeri transita sempre più spesso, così come aumentano le hall d’albergo e i centri congressi, spesso dotati di spazi per la ristorazione e negozi che diventano non luoghi all’interno di altri non luoghi.
Dall’altro lato, invece, l’anonimato e l’inutilità dei non luoghi è stata intaccata dagli smartphone. Ogni sala d’imbarco, ogni sfarzoso divano di una hall, ogni arredo impersonale di un caffè può trasformarsi in un luogo multifunzionale per qualsiasi tipo di avventore. L’aeroporto e il bar diventano anche ufficio, cinema, club del ricamo e aula scolastica.
I non luoghi hanno sempre suscitato reazioni negative. Augé parlava di “un’invasione” portatrice della “supermodernità”, una tracimante abbondanza di spazi morti dedicati all’individuo anziché all’attività collettiva. L’antropologo aveva previsto che l’uniformità di questi spazi (gli alberghi e gli aeroporti si somigliano tutti) avrebbe generato una piaga che avrebbe privato l’ambiente comune di opportunità per l’espressione dell’individuo.
La vittoria dell’anonimato
Alla fine la supermodernità si è concretizzata, ma non nella forma annunciata (e temuta) da Augé e dai suoi successori. Oggi non c’è più bisogno di uno spazio industrializzato come un supermercato o un centro congressi per osservare l’anonimato di un non luogo. È in corso un fenomeno più vasto. Per prima cosa i bastioni della supermodernità sono diventati più personalizzati rispetto al passato: di questi tempi è possibile origliare una conversazione d’affari nel terminal di un aeroporto o assistere a una drammatica separazione sentimentale via sms mentre si è in fila da Starbuck. In secondo luogo qualsiasi spazio – anche quello antropologico che secondo Augé forniva un contesto all’esperienza umana – può diventare completamente anonimo.
Torni nel salotto di casa tua e trovi tua moglie o tuo figlio sul divano, con lo sguardo fisso su uno schermo. “Cosa stanno facendo?“, ti chiedi. Scrive un’email? Guarda la tv? Naviga su siti porno? Fa spese? In altre parole: quale nuovo spazio esterno ha introdotto nel nostro ambiente condiviso di casa? La risposta, spesso, è impossibile da conoscere. E comunque, da un momento all’altro, quel nuovo spazio può cambiare non appena l’individuo abbandona un’applicazione per aprirne un’altra. A quanto pare il problema non era la proliferazione dei non luoghi. Al contrario, la tecnologia ha permesso all’intimità e ai collegamenti personali di svilupparsi troppo e in qualsiasi spazio. Oggi ogni spazio è un super-spazio che potrebbe fondersi con tutti gli altri.
I superspazi sono in costante aumento da decenni, da prima che i dispositivi personali diventassero onnipresenti. Anni fa, quando i computer non parlavano tra loro, il mio amico Damon e io camminavamo o andavamo in bicicletta da casa sua al 7-Eleven più vicino per giocare ai videogiochi. O meglio, per giocare al videogioco. Ce n’era solo uno. Se passavamo troppo tempo davanti a quello schermo il commesso ci cacciava rimproverandoci. “Questa non è una sala giochi”.
Come diceva Augé, la gente è sempre a casa e, allo stesso tempo, non c’è mai
Ma all’epoca le sale giochi erano ancora posti piuttosto squallidi, e alcuni genitori sconsigliavano o addirittura proibivano ai figli di metterci piede. E così a noi toccava ripiegare sulle sale bowling (non meno squallide, anzi forse di più), i mini-market o le lavanderie automatiche, luoghi dove la gente passava il tempo infilando monetine in una fessura.
Poi Damon e suo fratello hanno ricevuto in regalo il Nintendo. Quell’acquisto ha reso assolutamente superflui posti come la drogheria o la sala giochi. Finalmente potevamo sparare alle anatre o far saltare un idraulico con i baffi adagiati sul morbido tappeto di casa di Damon. Alla fine hanno portato via il videogioco dal 7-Eleven. Gli introiti delle sale giochi sono crollati. Le camere da letto e i soggiorni avevano incorporato la sala giochi, proprio come il videoregistratore aveva portato in casa il cinema. Come diceva Augé, la gente è sempre a casa, e contemporaneamente non c’è mai.
Un tempo l’espressione “portarsi a casa il lavoro” significava trasportare fisicamente il lavoro dall’ufficio: documenti all’interno della ventiquattr’ore e liste con le telefonate da fare chiusi nello studio. Oggi è solo un modo per indicare un’attività più concettuale e olistica. Grazie ai computer portatili, agli smartphone, alla banda larga, alle applicazioni e ai servizi cloud, chiunque può lavorare in continuazione: mandare email da sotto il tavolo da pranzo, rispondere a messaggi su Slack dopo aver chiuso la portiera dell’auto e prima di aver aperto il portone di casa, analizzare le spese familiari fotografando gli scontrini sul ripiano della cucina.
L’ufficio non ti segue solo a casa. È ovunque: in palestra, al binario della stazione, in enoteca, in auto
Lo sconfinamento del lavoro in quella che un tempo era la sfera privata è fonte di preoccupazione. In passato ho usato l’espressione “iperimpiego” per definire il lavoro senza fine a cui tutti siamo sottoposti e le cui dimensioni sono nettamente superiori al lavoro per cui siamo pagati. Il mio collega Derek Thompson ha definito con l’espressione “workism” (lavorismo) la devozione quasi religiosa che gli statunitensi provano per il loro lavoro. Ma l’iperimpiego e il lavorismo sono anche conseguenze della progressiva superspazialità dell’ambiente in cui ci muoviamo. A seguirci fin dentro le mura di casa non è solo il lavoro, ma anche l’ufficio. Lo smartphone, infinitamente portatile, trasforma ogni spazio in un ambiente di lavoro. Una volta avviata l’applicazione di Salesforce qualsiasi stanza diventa una sala conferenze.
I luoghi esistono per adempiere una funzione, e quando questa funzione si sposta in nuovi spazi porta con sé anche i fantasmi dei luoghi che occupava in passato. Il bagno è uno spazio deputato alla pulizia e alle deiezioni, ma basta portarci un telefono e diventa anche l’ufficio in cui puoi gestire finanze e personale attraverso un programma come Workday, un cinema in cui puoi guardare The crown su Netflix, un’aula in cui puoi studiare il lituano con Duolingo, un’agenzia di viaggi in cui puoi prenotare un volo. L’ufficio non ti segue solo a casa. È ovunque: in palestra, al binario della stazione, in enoteca, in auto.
Questa capacità evidenzia la forza sociale ed economica della computerizzazione, che tra le altre cose ha la capacità di trasformare gli individui che usano gli smartphone negli spazi dove un tempo si svolgevano attività separate, o quantomeno nella memoria culturale di quegli spazi. Il manager che durante una cena si scusa perché deve inviare un messaggio non sta solo portando il lavoro al tavolo, ma trasporta se stesso in ufficio. L’imprenditore che prenota un volo dalla sala d’aspetto del medico si teletrasporta nell’agenzia di viaggi o nella biglietteria dell’aeroporto.
Questi cambiamenti svuotano i luoghi dove in precedenza si svolgevano attività specifiche. L’atmosfera unica e l’energia spirituale del negozio di dischi o della boutique di abiti evaporano nel momento in cui questi luoghi sono rimpiazzati da Spotify o Amazon. E con loro se ne vanno anche gli spazi accessori, come le strade o le linee del trasporto pubblico su cui viaggiavano i clienti o i bar e le gelaterie che frequentavano.
La casa è diventata una prigione di comodità da cui possiamo scappare solo se qualcuno ci aiuta a farlo
L’indifferenza della computerizzazione rispetto ai luoghi, inoltre, scaglia gli spazi dove sono usati gli smartphone in un caos specifico. Nel momento in cui uno di quei ricordi spaziali si presenta, subito lo sostituisce un altro spazio che nelle retrovie lottava per emergere. Decidi di cominciare a guardare in streaming un episodio di The great british baking show quando all’improvviso arriva una notifica di Slack a trasformare il divano in una sala riunioni. A quel punto puoi decidere di riprendere la visione, ma anche di sostituire i fogli di calcolo con YouTube, dove un video Asmr trasforma la stanza da letto in uno spazio meditativo. O magari vai in bagno e ti metti a scorrere le notifiche di Facebook, nella speranza di sostituire il silenzioso isolamento del water con il mormorio sociale di un pub.
Tutto questo è tanto facile quanto disorientante, e trasforma la casa in uno spazio strano. Fino al ventesimo secolo era indispensabile uscire di casa per qualsiasi cosa: lavorare, mangiare, fare acquisti, divertirsi, vedere altra gente. Per decenni le famiglie hanno avuto solo una radio. Poi avevano diverse radio e una tv. Le possibilità fuori delle mura casalinghe erano enormemente maggiori di quelle che si presentavano all’interno. Ora, invece, fare quasi tutto da casa non è solo possibile, è anche la scelta migliore. Il problema dei nostri antenati si è capovolto: la casa è diventata una prigione di comodità da cui possiamo scappare solo se qualcuno ci aiuta a farlo.
Rinfrancati dalla specificità spaziale del vedere Star Wars al cinema, io e la mia famiglia abbiamo provato il desiderio di prolungare quel senso di libertà. Così abbiamo trascorso un paio d’ore da Dave & Buster’s, un’immonda fusione tra una bisteccheria di periferia, una sala giochi e un casinò. È il discendente di Chuck E. Cheese’s Pizza Time Theatre, aperto nel 1977 dal fondatore di Atari, Nolan Bushnell, per offrire un’alternativa familiare alle taverne e alle sale giochi.
Nel chiasso del Dave & Buster’s abbiamo scoperto che i nostri dispositivi elettronici erano lì ad attenderci: la sala era piena di versioni giganti del videogioco per smartphone Candy crush. Un tempo avremmo avuto la sensazione di essere finiti in un meccanismo perverso. Ma oggi qualsiasi allontanamento dal superspazio sembra accettabile. Abbiamo pagato per starcene lì, armeggiando con versioni colossali delle applicazioni che avevamo già in tasca. Sempre meglio che tornare in auto, prendere l’autostrada e rientrare in casa, dove ognuno di noi si sarebbe sicuramente ritirato nel profondo isolamento di uno smartphone.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul sito statunitense The Atlantic.
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