Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2021 nel numero 1414 di Internazionale.

Nel 2010 la rivista Time nominava Mark Zuckerberg persona dell’anno. Nell’articolo la missione di Facebook era descritta così: “Addomesticare le masse urlanti e trasformare un mondo solitario e antisociale retto dal caso in un mondo di amici”. Nei primi dieci anni di uso di massa di internet, era una teoria molto diffusa: più le persone sarebbero state in grado di comunicare, più sarebbero diventate cordiali e comprensive. Il risultato sarebbe stato un mondo più pacifico e armonioso.

Nel 2021 questa visione appare terribilmente ingenua. Online ci sono masse di individui urlanti che si scontrano giorno e notte. Alcuni commettono atti di violenza anche nel mondo reale. Internet sta mettendo in contatto le persone, ma non sta necessariamente creando un senso di fratellanza. Anzi, nel peggiore dei casi può somigliare a un’enorme macchina per la produzione di reciproca antipatia.

La tecnologia è almeno in parte responsabile di un mondo pervaso da forme tossiche di disaccordo, in cui si offende e si è offesi costantemente: un mondo in cui parliamo sempre di più e ascoltiamo sempre di meno. Paul Graham, imprenditore della Silicon valley, ha osservato che internet è uno strumento che genera divergenze proprio per il modo in cui è concepito. Le piattaforme digitali sono intrinsecamente interattive, e le persone – è un fatto – hanno la tendenza a litigare.

Secondo Graham, “essere d’accordo in genere è meno stimolante che essere in disaccordo”. È più probabile che chi legge un articolo o un post lo commenti quando non lo condivide e che, avendo un’opinione diversa, abbia più cose da dire. In fondo non ci sono troppi modi per dire “sono d’accordo”. Quando invece le persone sono in disaccordo su qualcosa, tendono anche ad appassionarsi di più, il che di solito vuol dire arrabbiarsi.

Anche se siamo tentati di farlo, dare la colpa a Facebook e Twitter per averci ridotti così significherebbe ignorare la rilevanza di un cambiamento più ampio e più profondo nel comportamento umano: un cambiamento che si è verificato nel corso di decenni, se non addirittura secoli. Nella società, così come nel mondo digitale, i canali di comunicazione a senso unico non sono mai stati così pochi. Ormai tutti possono rispondere a tutti. Se stiamo diventando più polemici, è perché il mondo moderno ci chiede di esprimere le nostre opinioni.

L’antropologo statunitense Edward T. Hall ha introdotto la distinzione tra due tipi di cultura della comunicazione: ad alto contesto e a basso contesto. In una cultura a basso contesto, la comunicazione è esplicita e diretta. Ciò che le persone dicono è considerato espressione dei loro pensieri e sentimenti. Non c’è bisogno di capire il contesto – chi sta parlando, in quale situazione – per capire il messaggio. Una cultura ad alto contesto è invece una cultura in cui si dice poco in maniera esplicita e il grosso del messaggio è implicito. Il significato non risiede tanto nelle parole, quanto nel contesto. La comunicazione è obliqua, sottile, ambigua.

Strategie di difesa
In qualunque parte del mondo quasi tutti conduciamo vite sempre più a basso contesto, vivendo in grandi città, interagendo con sconosciuti, parlando al telefonino. I diversi paesi hanno ancora una loro cultura della comunicazione, ma quasi tutti sono soggetti alle spinte globali che arrivano dal commercio, dall’urbanizzazione e dalla tecnologia: forze che dissolvono la tradizione, appiattiscono le gerarchie e allargano il campo per il confronto e lo scontro. Resta da vedere se a tutto questo siamo davvero preparati.

Per gran parte della nostra esistenza in quanto specie, noi esseri umani abbiamo operato in modalità ad alto contesto. I nostri antenati vivevano in insediamenti e tribù con tradizioni e gerarchie condivise. Oggi invece incontriamo spesso persone con valori e usi diversi dai nostri. Allo stesso tempo, siamo istintivamente più portati all’egualitarismo. Intorno a noi vediamo ovunque interazioni in cui tutte le parti in causa hanno o pretendono di avere uguale voce in capitolo. Tutti si aspettano che la loro opinione sia ascoltata, il che in effetti è sempre più possibile. In questo mondo chiassoso, irriverente, meravigliosamente variegato, certe regole prima implicite riguardo a ciò che si può e non si può dire diventano più fluide e meno rigorose. A volte scompaiono addirittura. In un mondo in cui il contesto è sempre meno importante, il numero di cose su cui “siamo tutti d’accordo” si sta velocemente riducendo.

L’interlocutore che si vede accettare la faccia che desiderava mostrare, sarà molto più propenso ad ascoltare ciò che abbiamo da dire

Provate a pensare alla prima caratteristica di una cultura a basso contesto, almeno nella sua forma più estrema: chiacchiere infinite, diverbi frequenti, tutti che dicono cosa pensano. Vi ricorda qualcosa? Per dirla con Ian Macduff, esperto di risoluzione di conflitti, “il mondo di internet appare prevalentemente come un mondo a basso contesto”.

Se noi esseri umani fossimo entità puramente razionali, ascolteremmo educatamente un punto di vista opposto al nostro per poi dare una risposta meditata. In realtà, il disaccordo inonda il nostro cervello di segnali chimici che rendono difficile concentrarsi sull’argomento in questione. I segnali dicono che l’attacco è rivolto a me. “Non sono d’accordo con te” diventa “Tu non mi piaci”. Così, invece di aprire la mente al punto di vista dell’altro, ci concentriamo sulla difesa.

Gli animali reagiscono alle minacce essenzialmente con due strategie, identificate per la prima volta dal biologo di Harvard Walter Bradford Cannon nel 1915: l’attacco e la fuga. Gli esseri umani non fanno eccezione. Essere in disaccordo può spingerci a diventare aggressivi e a scagliarci contro l’avversario, o può indurci a fare marcia indietro e a tenere le nostre opinioni per noi, perché desideriamo evitare il conflitto. Queste reazioni ataviche influenzano ancora il nostro comportamento negli ambienti a basso contesto di oggi: o ci infiliamo in discussioni ostili e per lo più inutili, o facciamo tutto il possibile per evitare qualunque discussione. Sono entrambe reazioni disfunzionali.

Per osservare delle reazioni aggressive in situazioni di disaccordo basta aprire i propri profili social o leggere i commenti sul proprio sito preferito. Alcuni sostengono che internet crea delle “camere a eco” in cui le persone incontrano solo idee che condividono, ma ci sono anche prove a sostegno della tesi opposta. Stando ad alcune ricerche, chi usa i social network riceve una gamma di informazioni più eterogenea rispetto a chi non li usa. Su Twitter è quasi inevitabile incontrare opinioni che disturbano, cosa che non succede se ci s’informa solo leggendo un quotidiano. Invece di creare bolle, internet le sta facendo scoppiare, producendo ostilità, paura e rabbia.

Un estremista di destra e un sostenitore del movimento Black lives matter a Gresham, in Oregon, agosto 2020. (Nathan Howard, Getty Images)

Uno dei motivi per cui la conversazione online è spesso molto aggressiva sta nel fatto che è stata progettata per esserlo. Secondo diversi studi, i contenuti che scatenano l’indignazione sono i più condivisi. Gli utenti che postano messaggi arrabbiati ottengono like e retweet, e le piattaforme su cui questi messaggi sono pubblicati conquistano attenzione e engagement, il coinvolgimento del consumatore, poi venduti alle agenzie di pubblicità. Le piattaforme digitali sono dunque incentivate a estremizzare ogni dibattito. Le sfumature, la riflessione e la comprensione reciproca non subiscono solo i danni collaterali di questo fuoco incrociato, ma ne sono le prime vittime.

Sarebbe però un errore arrivare alla conclusione che stiamo litigando troppo. L’indignazione superficiale che vediamo online dimostra in realtà l’assenza di un vero dissenso ragionato: l’attacco è solo una copertura per la fuga.

Si dice spesso che se l’umanità vuole dimostrarsi all’altezza delle minacce esistenziali che si trova ad affrontare, deve mettere da parte le sue divergenze. Ma quando siamo tutti d’accordo – o fingiamo di esserlo – diventa più difficile fare progressi. Il dissenso è una modalità di pensiero, forse la migliore che abbiamo, fondamentale per la riuscita di qualunque impresa condivisa, dal matrimonio agli affari fino alla democrazia. Possiamo usarlo per trasformare concetti vaghi in idee applicabili concretamente, vicoli ciechi in intuizioni inattese, sfiducia in empatia. Invece di mettere da parte le nostre divergenze, dobbiamo metterle a frutto.

Per far questo, però, dobbiamo superare un diffuso disagio verso il disaccordo. Dissentire bene è difficile e, per la maggior parte di noi, stressante. Ma se impariamo a considerare il disaccordo come una specie di competenza acquista, invece di qualcosa che ci viene naturale, potremmo viverlo con meno fastidio. Abbiamo molto da imparare dalle persone che gestiscono per lavoro le situazioni di conflitto e che riescono a ricevere informazioni, comprensione e connessione umana anche dagli incontri più ostili.

L’arte del negoziato
Alle Olimpiadi del 1972, in Germania Ovest, un gruppo di terroristi palestinesi prese in ostaggio undici atleti israeliani. I terroristi avanzarono le loro richieste, le autorità rifiutarono di accoglierle. A quel punto la polizia di Monaco fece ricorso alle armi. Ventidue persone rimasero uccise, compresi tutti gli ostaggi. All’indomani di quella che passò alla storia come la strage di Monaco, le forze dell’ordine di tutto il mondo si resero conto che avevano un problema urgente da risolvere. Gli agenti che comunicavano con chi prendeva ostaggi non avevano un protocollo specifico da seguire. I dipartimenti di polizia capirono che dovevano imparare le tecniche di negoziazione.

I negoziatori oggi sono usati in diverse situazioni. I più bravi non sono esperti solo di tattica, capiscono anche l’importanza di quelli che il sociologo Erving Goffman chiamava “giochi di faccia”. Secondo la terminologia di Goffman, la “faccia” è l’immagine pubblica di cui un individuo vuole dotarsi nelle interazioni sociali. In ogni situazione ci sforziamo di presentare una faccia adeguata. Quella che vogliamo mostrare a un potenziale datore di lavoro sarà inevitabilmente diversa da quella che vogliamo mostrare durante un appuntamento galante. Questo sforzo è il cosiddetto gioco di faccia. Con le persone di cui ci fidiamo e che conosciamo bene non ci preoccupiamo troppo dell’espressione che abbiamo, ma con quelle che non conosciamo – soprattutto quando hanno potere su di noi – ci impegniamo in un gioco di faccia. Quando si fa uno sforzo in questo senso ma non si ottiene la faccia che si desidera, ci si sente a disagio. Se ci sforziamo di essere visti come figure autorevoli e qualcuno ci manca di rispetto, ci sentiamo in imbarazzo e perfino umiliati. In determinate circostanze può capitare che cerchiamo di sabotare l’incontro pur di sentirci meglio.

Le persone specializzate nell’arte del dissentire non pensano solo alla propria faccia: sono ben sintonizzate su quella dell’interlocutore. Una delle abilità sociali più efficaci è la capacità di dare una faccia all’altro: di confermare l’immagine pubblica che l’altra persona desidera proiettare. In qualunque conversazione, l’interlocutore che si vede accettare e confermare la faccia che desiderava mostrare sarà molto più facile da gestire e molto più propenso ad ascoltare ciò che abbiamo da dire.

Un manifestante europeista e un sostenitore della Brexit a Londra, l’8 gennaio 2019. (Jack Taylor, Getty Images)

Nessuno lo sa meglio degli esperti di negoziazione operativa. Le prese di ostaggi si dividono in due categorie. Nelle crisi di tipo “strumentale” l’interazione tende ad avere un carattere relativamente razionale. L’aggressore avanza delle richieste precise, a cui segue un processo di contrattazione. Nelle crisi di tipo “espressivo”, chi ha preso ostaggi vuole lanciare un messaggio, alla gente a casa, al mondo intero. Si tratta solitamente di persone che agiscono in maniera impulsiva: un padre che rapisce la figlia dopo che gli è stata negata la custodia, un uomo che minaccia di uccidere la compagna. Molto spesso i negoziatori hanno a che fare con individui che hanno preso in ostaggio se stessi: per esempio persone che minacciano di buttarsi dal tetto di un palazzo. Nella crisi di tipo “espressivo” l’aggressore di solito è emotivamente molto teso: arrabbiato, disperato, profondamente insicuro e portato ad agire in maniera imprevedibile.

Ai negoziatori viene insegnato a calmare e rassicurare l’interlocutore prima di cominciare la trattativa vera e propria. William Donohue, professore di comunicazione all’università del Michigan, ha passato decenni a studiare le conversazioni conflittuali – alcune riuscite, altre fallite – che coinvolgevano terroristi, pirati, persone sull’orlo del suicidio. Mi ha parlato di una componente fondamentale della faccia, cioè quanto una persona si sente potente. Gli aggressori che prendono ostaggi in situazioni “espressive” vogliono che sia in qualche modo riconosciuta la loro importanza, il loro status.

Donohue e il suo collaboratore Paul Taylor, dell’università di Lancaster, hanno coniato l’espressione one-down (sotto di uno, in svantaggio) per definire la parte che, in qualunque tipo di trattativa, si sente più insicura del proprio status. Questa parte è molto più incline ad agire in maniera aggressiva o competitiva e non cerca soluzioni o dialogo. Nel 1974 la Spagna e gli Stati Uniti aprirono un negoziato su alcune basi militari statunitensi in territorio spagnolo. Il politologo Daniel Druckman ha esaminato in quali occasioni i negoziatori statunitensi e spagnoli usarono “tattiche dure” e “tattiche morbide”. La squadra spagnola lanciò minacce e accuse tre volte di più di quella statunitense. Gli spagnoli erano one-down, in svantaggio, e stavano aggressivamente ribadendo la loro autonomia.

Chi è bravo a dissentire sa trovare il modo di aiutare l’avversario a capire che può cambiare idea senza smettere di essere se stesso

Se chi ha preso degli ostaggi si sente dominato, è più probabile che ricorra alla violenza. “In quel momento le parole non servono a nulla”, mi ha detto Donohue. “È come se l’aggressore dicesse: ‘Non avete mostrato rispetto nei miei confronti, quindi devo ottenerlo esercitando un controllo fisico su di voi’”. La gente è disposta a fare di tutto, anche in maniera autodistruttiva, per evitare di sentirsi calpestata. La parte in svantaggio spesso gioca sporco, attaccando l’avversario da posizioni inattese e difficili da difendere. Invece di cercare soluzioni che potrebbero funzionare per tutti, tratta il negoziato come un gioco a somma zero, in cui uno deve per forza vincere e l’altro perdere. Invece di affrontare il contenuto del discorso, attacca la persona per rivendicare il proprio status.

Viceversa, c’è anche chi comincia una trattativa convinto di avere la meglio perché è, o si percepisce, in posizione di forza. Questa persona può quindi tranquillamente adottare un approccio più rilassato e aperto, concentrandosi sulla sostanza del disaccordo e cercando soluzioni vantaggiose per entrambe le parti. E magari sarà disposta a rischiare, compiendo mosse che potrebbero essere considerate segni di debolezza, offrendo un dialogo più cordiale e conciliante. Dato che non teme di perdere la faccia, può tendere la mano.

Ecco perché dare una faccia all’interlocutore è così importante. È nell’interesse di ogni negoziatore far sì che la controparte si senta il più possibile al sicuro. I negoziatori più esperti cercano sempre di crearsi l’avversario che vogliono. Sanno che, quando sono in vantaggio, la cosa più intelligente da fare è ridurre il divario.

In ogni conversazione in cui sia presente uno squilibrio di forze, la parte più potente è anche più incline a concentrarsi sull’obiettivo – il contenuto o il problema in questione – mentre quella in svantaggio si concentra sulla relazione. Ecco alcuni esempi. Il genitore dice: “Perché sei tornata a casa così tardi?”. La figlia adolescente pensa: “Mi stai trattando come una bambina”.

Il medico dice: “Non riusciamo a trovare niente che non vada”. Il paziente pensa: “Non ve ne frega niente di me”.

Il politico dice: “La nostra economia sta crescendo più che mai”. L’elettore pensa: “Smettila di parlarmi come se fossi un cretino”.

Quando un dibattito diventa instabile e disfunzionale, spesso è perché una delle parti in causa sente che non le si sta riconoscendo la faccia che merita. Questo contribuisce a spiegare l’aggressività diffusa sui social network, che a volte sembrano una gara di status in cui la valuta corrente è l’attenzione. Su Twitter, Facebook o Instagram chiunque può ottenere like, retweet o nuovi follower. In teoria. In realtà, anche se ci sono eccezioni, è molto difficile costruirsi un seguito per chi non è già famoso. Illusi dalla promessa di uno status di primo piano, gli utenti si arrabbiano quando questo traguardo gli viene negato. I social network sembrano offrire a tutti la stessa opportunità di essere ascoltati. In realtà, sono fatti apposta per ricompensare una piccolissima minoranza con enormi quantità di attenzione, mentre la maggioranza ne riceve ben poca. Il sistema è truccato.

Finora abbiamo parlato di un solo aspetto dei giochi di faccia: lo status. Ma c’è anche un’altra componente della faccia di una persona, legata a questa ma distinta: non quanto le persone si sentono superiori o inferiori, ma chi si sentono di essere.

Una questione d’identità
Elisa Sobo, professoressa di antropologia alla San Diego state university, ha condotto una serie di interviste a genitori che rifiutano di vaccinare i figli. Perché queste persone, in molti casi intelligenti e istruite, decidono di ignorare i consigli dei medici, basati su solide evidenze scientifiche? Sobo ha concluso che per loro l’opposizione ai vaccini non è tanto una convinzione quanto un “atto di identificazione”: riguarda più l’appartenenza a un dato gruppo di persone che il rifiuto di una terapia. È come “farsi il tatuaggio di una gang, infilarsi la fede al dito o guardare tutta di fila una serie tv molto popolare”. Questa scelta rivela “chi è e con chi si identifica” una persona piuttosto che “chi non è o a chi si contrappone”. Sobo fa inoltre notare che questo è altrettanto vero per chi sceglie di vaccinarsi: anche il nostro desiderio di essere associati con le opinioni comunemente accettate sulla medicina è un modo di far capire chi siamo. Ecco perché le discussioni tra le due parti diventano rapidamente scontri di identità.

Secondo William Donohue, di solito quello che porta le persone allo scontro distruttivo è il conflitto sulla loro identità. “L’ho visto nelle situazioni con ostaggi, in politica, nei conflitti matrimoniali”, dice il sociologo. “Una persona sente che l’altra sta attaccando la sua essenza e si mette sulla difensiva. O aggredisce a sua volta. E la situazione diventa più tesa”.

Che le nostre opinioni siano intrecciate all’idea che abbiamo di noi stessi non è necessariamente un male, ma dobbiamo tenerne conto quando cerchiamo di convincere qualcuno a fare qualcosa che non vuole fare, che sia smettere di fumare, adattarsi a una nuova procedura sul lavoro o votare per il candidato che noi sosteniamo. Il nostro obiettivo dovrebbe essere separare l’opinione o l’azione su cui si è in disaccordo dal senso che l’altra persona ha di sé, cioè abbassare la posta in gioco a livello d’identità. Chi è bravo a dissentire trova il modo di aiutare l’avversario a capire che può cambiare posizione senza smettere di essere se stesso.

Un modo per farlo è non discutere in pubblico. A Boston, nel 1994, all’indomani di una sparatoria in una clinica per le interruzioni di gravidanza, la filantropa Laura Chasin contattò sei attiviste, tre antiabortiste e tre favorevoli all’aborto, e chiese loro di riunirsi in segreto per vedere se riuscivano a raggiungere un qualche tipo di reciproca comprensione. Per quanto fosse un processo difficile e doloroso, le sei donne continuarono a incontrarsi per diversi anni. Sulle prime le rispettive posizioni si irrigidirono: nessuna cambiava opinione sui punti fondamentali. Ma con il tempo, conoscendosi meglio, le sei donne riuscirono a pensare, comunicare e negoziare in modo più libero e meno schematico. Meno la gente si sente costretta a mantenere la faccia di fronte ai propri alleati, più sente di poter essere flessibile.

Lo stesso principio si applica ai conflitti sul posto di lavoro. Davanti a un pubblico di colleghi, è probabile che una persona si concentri più su come vuole essere vista che sul modo di risolvere il problema. Se per me è importante essere visto come competente, potrei reagire con rabbia a qualunque critica sul mio lavoro. Se voglio essere considerato simpatico e collaborativo, potrei trattenermi dall’esprimere la mia opposizione a una proposta in termini abbastanza fermi. Ecco perché, quando una conversazione professionale si fa complicata, i partecipanti spesso propongono di “parlarne a quattr’occhi”. Un tempo quest’espressione voleva semplicemente dire che serviva una discussione di persona, ma di recente ha acquistato una sfumatura nuova: “Spostiamo la conversazione in un luogo dove la nostra faccia sia meno a repentaglio”.

Affrontare una discussione a quattr’occhi può funzionare, ma questa soluzione andrebbe sempre considerata come un piano b. In questo modo, infatti, il problema viene sottoposto all’esame di meno cervelli e si perdono i vantaggi di un disaccordo aperto. Il miglior sistema per minimizzare il peso della questione identitaria è creare una cultura aziendale in cui difendere la faccia non sia così importante: una cultura in cui le divergenze di opinione siano espressamente incoraggiate, in cui gli errori siano considerati inevitabili, le regole di condotta siano chiare e tutti abbiano fiducia nel fatto che ognuno persegue l’obiettivo comune. Allora sì che si potrebbe davvero litigare.

La faccia e l’autostima
Eppure, nella gran parte dei diverbi, la faccia è sempre a repentaglio in qualche modo. E se allontanarsi dal pubblico può essere un modo per abbassare la posta in gioco sul piano identitario, un’altra soluzione è confermare il senso di sé del proprio avversario. Quando mi dimostri che credi in quello che sono e in come voglio essere visto, mi rendi più facile rivedere le mie posizioni. Mostrandosi educati sul piano personale, si può spersonalizzare il disaccordo. A volte basta fare un complimento all’avversario quando si sente più vulnerabile. Jonathan Wender, ex poliziotto e fondatore di un’organizzazione chiamata Polis, che addestra gli agenti statunitensi a disinnescare le situazioni di conflitto, ha scritto un libro in cui fa notare che l’atto dell’arresto è un momento di potenziale umiliazione per il sospetto. Wender sostiene che quando gli agenti compiono un arresto, dovrebbero fare in modo che la persona arrestata non perda troppa autostima. Nel libro fa l’esempio dell’arresto di un uomo che chiama Calvin, sospettato di aggressione: “Io e l’altro agente l’abbiamo afferrato, ciascuno per un braccio, e l’abbiamo dichiarato in arresto. Lui ha cominciato a divincolarsi, era pronto alla colluttazione. Data la sua stazza e il suo passato violento, volevamo evitare lo scontro fisico, che avrebbe necessariamente lasciato sul campo dei feriti. Ho detto a Calvin: ‘Senti, sei troppo grosso per noi’”.

“Gli agenti”, continua Wender, “possono evitare un potenziale scontro fisico con un sospetto riaffermandone la dignità, specialmente in pubblico”. È nell’interesse del poliziotto preservare, o almeno non cancellare, l’autostima della persona arrestata. È una questione di buonsenso, o almeno dovrebbe esserlo. È sorprendente constatare quanto spesso si commetta quello che potremmo definire “l’errore del dominatore”: la scelta di sbattere brutalmente in faccia all’altro il proprio vantaggio, ferendone così il senso d’identità. In questo modo si ottiene una vittoria sul momento, ma ci si fa un nemico.

Le persone ferite sono pericolose. A Memphis, mentre assistevo a una lezione di un corso di Polis, l’istruttore ha spiegato che quando faceva il poliziotto aveva visto colleghi malmenare sospetti ammanettati, a volte perfino di fronte agli amici o alla famiglia. Non solo era sbagliato, ha detto, ma anche stupido: umiliare qualcuno durante un arresto “può costare la vita a un collega”. Nella sala si è diffuso un mormorio di consenso. Le persone che sono state umiliate non lo dimenticano, e a volte si vendicano, anche a distanza di anni.

L’umiliazione ferisce chi umilia e chi gli sta accanto. In uno studio su dieci crisi diplomatiche internazionali, i politologi William Zartman e Johannes Aurik hanno spiegato che, quando i paesi più forti esercitano potere sui paesi più deboli, nell’immediato questi ultimi cedono, ma poi organizzano ritorsioni.

La parlamentare statunitense Alexandria Ocasio-Cortez ha spiegato come condurre una conversazione con una persona con la quale si hanno profonde divergenze d’opinione. Non bisogna per forza condividere le posizioni politiche di Ocasio-Cortez per riconoscere che i suoi consigli sono sensati: “Io ho un mentore. E uno dei più preziosi consigli che mi abbia mai dato è ‘costruisci ponti d’oro al nemico che fugge’. Cioè: quando parli con una persona, mostrale sempre comprensione, dalle sempre l’opportunità di cambiare idea senza fare brutta figura. È fondamentale. Se in una conversazione uno dice: ‘Hai detto questa cosa, quindi sei razzista’, costringe l’altro a rispondere: ‘No, non è vero’. E così via. In questo modo è impossibile ritirarsi dignitosamente. L’unica via d’uscita è passare direttamente all’opinione opposta”.

Quando discutiamo con qualcuno, dovremmo pensare a come convincerlo a cambiare idea facendogli mantenere la faccia. È una cosa molto difficile da ottenere nel corso di una discussione, quando l’opinione e la faccia sono ancora più legate tra loro di quanto lo fossero prima o lo saranno in seguito (la scrittrice Rachel Cusk descrive il diverbio come “l’emergere di un’autodefinizione”). Tuttavia, mostrando che abbiamo ascoltato e trattato con rispetto il punto di vista dell’interlocutore, rendiamo più probabile il fatto che in un secondo momento ci dia ragione. Se, e quando, lo farà, dovremmo evitare di rimproverargli di non essere stato d’accordo con noi fin dall’inizio. È incredibile quanto spesso questo avvenga nei dibattiti polarizzati. Ma è un atteggiamento che non rende certo più allettante la prospettiva di passare dalla parte del proprio interlocutore. Al contrario, dovremmo ricordare che l’interlocutore ha raggiunto un risultato che noi non abbiamo raggiunto: ha cambiato idea.

(Traduzione di Martina Testa)

Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2021 nel numero 1414 di Internazionale.

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