Questo articolo è uscito nel numero 1266 di Internazionale.

Quando Mary Jane Jones cantava il gospel, la sua voce colossale sembrava andare oltre la sua chiesa battista di quartiere, le case sgangherate di West Peters­burg, in Virginia, e i campi verdi dove innumerevoli campanili perforavano il cielo. “Non sapevo distinguere le note”, diceva. “Tutto il talento che ho, l’ho avuto da Dio”. Nel gennaio del 1969 la cantante, che aveva 27 anni, aveva già passato sei anni in tournée con il Great Gate, il gruppo gospel nero della città diretto dal reverendo Billy Lee, l’uomo che l’aveva scoperta. “Ho dovuto insegnare il mestiere a tutti quelli del mio gruppo”, racconta Lee. “Ma c’era una signorina alla quale non ho dovuto spiegare il soul”. Quando cantava Comfort me di Shirley Caesar, il viso le si contorceva dall’emozione, il sudore le inzuppava i riccioli neri e lacrime autentiche le sgorgavano dagli occhi. “La canzone parlava di superare prove e tribolazioni”, racconta Lee. “Lei la sentiva sua”.

Fino a quel momento, nella vita di Mary Jane Jones non c’era stato niente di facile. Si era sposata a 19 anni, ma il marito era morto lasciandola sola con un figlio piccolo, Larry. Si era risposata con Robert “Bobby” Jones e aveva avuto altri tre figli, Quintin, Gregory e Keith. Dopo aver sopportato per anni le violenze e l’alcolismo di Bobby, nel 1968 aveva divorziato. Sola con quattro figli, e con pochi studi alle spalle, sopravviveva grazie all’assistenza dello stato e alle donazioni raccolte dal suo gruppo gospel. Per dare da mangiare ai figli cominciò ad arrotondare cantando cover dei gruppi della Motown nei night club per un compenso di dieci dollari a serata.

“Voleva essere come Aretha Franklin”, dice il figlio Gregory. Cresciuta in una casa senza acqua corrente, Jones sognava la vita di una donna che coperta di diamanti andava con la sua limousine a fare concerti di fronte a folle adoranti. Per Aretha Franklin il sogno si era avverato. Anche lei aveva 27 anni ed era stata scoperta in chiesa, ma a differenza di Jones nel 1967 aveva firmato un contratto con la Atlantic Records. Nel 1969 aveva già vinto quattro Grammy awards e venduto un milione e mezzo di dischi. Ray Charles l’aveva definita “una delle più grandi che abbia mai sentito”. Jones seguiva ogni mossa di Aretha su Jet, una rivista per il pubblico afroamericano. Si truccava come lei e ascoltava le sue canzoni su una cassetta, cantandoci sopra e immedesimandosi nelle lotte e nelle difficoltà raccontate nei testi. Quando la band di Jones faceva le prove a casa sua e per mancanza di spazio lasciava l’amplificatore fuori della porta, tutto il quartiere la sentiva cantare.

Era l’inizio di un viaggio che un giornalista descriverà come “una bizzarra storia di misfatti, rapimenti, minacce e arresti

La musica soul era nata da poco. Mescolava il gospel con il linguaggio scandaloso del blues. Per la chiesa era “la musica del diavolo”. Così, per non essere espulsa dal coro, quando si esibiva nei club Jones lo faceva di nascosto con il nome d’arte di Vickie anziché Mary e indossava una parrucca. Ma il reverendo Lee, che vegliava su di lei come un fratello maggiore, una sera s’intrufolò di nascosto a sentirla. “Non sapeva che ero lì”, dice. Osservandola da un angolo, il reverendo pregò e promise: “Non le farò la lezione, non le farò la predica, se la caverà”. Dentro di sé, però, era preoccupato: “Se si mette in situazioni come queste le cose potrebbero sfuggirle di mano”.

Una sera, all’inizio di gennaio del 1969, Jones si esibiva al Pink Garter, un ex negozio di alimentari convertito in night club nella vicina Richmond. “Il pubblico era al novanta per cento nero”, ricorda Fenroy Fox, allora direttore del locale. “Dopo l’assassinio di Martin Luther King era cambiato tutto. I neri andavano solo nei posti per i neri. La gente aveva paura”.

Quando la band di casa, i Rivernets, attaccò Respect, Jones salì sul palco. “What you want”, cominciò a cantare, “baby, I got it!”. Agli occhi del pubblico, annebbiati dal whisky, era Aretha.

Dopo di lei si esibiva Lavell Hardy, un parrucchiere di 24 anni di New York con un taglio pompadour alto quindici centimetri. L’anno prima, la sua Don’t lose your groove era arrivata al numero 42 della classifica del giornale Cash Box, subito dietro a una bizzarra parodia di Jimi Hendrix fatta da Bill Cosby. Ma soprattutto, Hardy guadagnava duecento dollari a sera – venti volte più di Jones – facendo l’imitazione di James Brown. Hardy rimase particolarmente impressionato dalla performance di Jones nelle vesti di Aretha. “È identica, dalla testa ai piedi”, commentò entusiasta. “La stessa carnagione. Lo stesso aspetto. La stessa altezza. Le stesse lacrime. Ha tutto”.

Passò appena una settimana e Hardy, che si esibiva dopo Jones all’Executive Motor inn di Richmond, la invitò in tournée in Florida con lui. Lei rifiutò: non era mai stata in Florida e non aveva i soldi per pagarsi il biglietto dell’autobus. Hardy però non si diede per vinto e le disse che stava cercando qualcuno che aprisse i concerti per la vera Aretha Franklin. “Mi disse che mi avrebbero dato mille dollari per sei concerti in Florida”, ha raccontato in seguito Jones che, ingenuamente, gli credette e si fece prestare i soldi per un biglietto di sola andata da uno strozzino locale (l’autore di questo artico ha provato inutilmente a mettersi in contatto con Hardy). Per la prima volta in viaggio senza il suo gruppo gospel, Jones guardava dal finestrino i campi che cedevano il passo alle palme. Era l’inizio di un viaggio che un giornalista descriverà come “una bizzarra storia di misfatti, rapimenti, minacce e arresti”. Quando Jones, accaldata e stanca, arrivò a Melbourne, in Florida, Hardy vuotò il sacco: non c’era nessuna Aretha, sarebbe stata lei a fare la parte della regina del soul.

“No!”, gridò Jones.

Ma Hardy le rispose che se non collaborava, si sarebbe ritrovata “in un mare di guai”.

“Ormai sei qui, non hai un soldo e non conosci nessuno”, le disse.

“Mi minacciò di buttarmi nella baia”, ha raccontato Jones, che non sapeva nuotare.

“Possiamo facilmente sbarazzarci del tuo corpo gettandolo in acqua”, le disse Hardy, che intanto insisteva: “Tu sei davvero Aretha Franklin!”.

Grandi simulatori
Ho sentito per la prima volta questa storia incredibile quando un amico ha ritrovato per caso un articolo su Jones negli archivi digitali del Baltimore Afro-American. Scavando in altre pubblicazioni dell’epoca – Jet e vari giornali locali – ho messo insieme i pezzi e ho rintracciato le persone coinvolte per ricostruire cosa successe dopo. Con mia grande sorpresa ho scoperto che Jones era solo una dei tanti impostori a piede libero negli Stati Uniti degli anni sessanta. Nei primi anni del rock’n’roll, nei circoli della musica nera gli imitatori erano tantissimi. Gli artisti erano poco tutelati dal punto di vista legale, e i fan spesso riconoscevano le star solo dalla voce.

Nel 1955, l’agente di James Brown e Little Richard fece esibire il primo al posto del secondo dopo essersi accorto che Little Richard aveva già un ingaggio in un altro locale. Quando il pubblico se ne accorse – il concerto era in Alabama – cominciò a gridare in coro “vogliamo Richard!”. Brown li conquistò con una serie di capriole all’indietro. I Platters furono in causa per decenni con i vari gruppi che si spacciavano per la band che aveva tra i suoi successi, guarda un po’, The great pretender (il grande simulatore). Ancora nel 1987, in Texas, la polizia arrestò un impostore che si spacciava per la cantante di R&B Shirley Murdock. “La gente è veramente scema, si fa accecare dalla celebrità. È stato facilissimo!”, si giustificò il truffatore, che sotto il trucco era un uomo di 28 anni di nome Hilton LaShawn Williams.

Non molto tempo fa a Las Vegas ho incontrato Roy Tempest, un ex promotore musicale londinese che ha ammesso candidamente di avere industrializzato la truffa dei falsi artisti. Reclutava cantanti dilettanti negli Stati Uniti e li portava in tournée nel Regno Unito facendoli esibire come i Temptations o altri gruppi. I suoi artisti erano “i più grandi cantanti postini, lavavetri, conducenti di autobus, commessi e rapinatori di banche”, mi ha detto da dietro un paio di occhiali dorati alla Elvis. “C’era perfino una spogliarellista”. I suoi cantanti erano controllati dalla mafia di New York, e riuscivano a farla franca – almeno per un po’ – perché all’epoca non c’era la tv via satellite: oltreoceano nessuno sapeva che aspetto avessero i veri musicisti.

Probabilmente fu proprio Tempest a instillare l’idea di una falsa tournée nella mente di Lavell Hardy, che con il suo disco era stato in classifica anche nel Regno Unito. “Mi offrirono di fare tre settimane di concerti in Inghilterra come James Brown junior per una paga di cinquemila dollari alla settimana”, ha raccontato poi Hardy. Anche se faceva regolarmente l’imitazione di James Brown, declinò la proposta: se proprio doveva partire per l’Inghilterra, voleva farlo con il suo nome. “Non sono James Brown junior, sono Lavell Hardy”, protestò il cantante e parrucchiere. Ma quando sentì Jones cantare, si convinse che “lei poteva tranquillamente passare per Aretha Franklin”.

In tour
In Florida Hardy contattò due promotori locali: Albert Wright, bandleader, e Reginald Pasteur, un vicepreside. Al telefono Hardy disse di rappresentare “miss Franklin”. La sua cliente di solito prendeva 20mila dollari a serata, disse, ma per un tempo limitato era disposta a esibirsi per appena settemila. Wright voleva conoscerla a tutti i costi. “Era davvero convinto che io fossi Aretha”, ha raccontato la cantante. “Si offrì di chiamare un detective per proteggermi e di mettermi a disposizione una macchina per la mia comodità”. Hardy rifiutò l’offerta: l’ultima cosa che voleva era avere dei poliziotti tra i piedi.

Secondo i giornali dell’epoca, l’“Aretha Franklin revue” di Hardy fece tappa in tre cittadine minori della Florida. Dopo ogni esibizione, “Aretha” correva a nascondersi in camerino. Dopo le tre date di rodaggio, Hardy cominciò a puntare su città più grandi e a organizzare un tour più redditizio, di dieci concerti. Nel frattempo Jones sopravviveva con due hamburger al giorno e se ne stava rinchiusa in una tetra camera d’albergo lontana dai figli, di cui si occupava sua madre.

A Fort Myers, i promotori prenotarono lo High Hat club, un locale da 1.400 posti. I biglietti costavano 5,50 dollari e andarono subito esauriti. Con la sua truffa Hardy era riuscito ad abbindolare gli spettatori di una manciata di cittadine di provincia, ma ora doveva convincere un pubblico molto più grande. Fece indossare a Jones un vestito giallo lungo fino ai piedi e una parrucca, e la nascose dietro un pesante trucco di scena. “Volevo dire a tutti che non ero miss Franklin”, ha raccontato poi Jones, “ma Hardy mi disse che se i promotori dello spettacolo avessero scoperto chi ero veramente mi avrebbero fatto qualcosa di brutto”.

Sbirciando da dietro le quinte, Jones vide un pubblico dieci volte più grande di quello che aveva mai avuto in una chiesa o in un club. “Ero spaventata”, ha raccontato. “Non avevo soldi né un posto dove andare”. Attraverso il fumo delle sigarette e le forti luci del palco, Hardy si augurò che la messinscena funzionasse. Jones non poteva fare altro che salire sul palco, dove Hardy la presentò come “la più grande soul sister” tra le grida di approvazione del pubblico. Intanto Clifford Hart, il proprietario del locale, osservava la scena con aria preoccupata. “Alcuni avevano già visto Aretha dal vivo e dicevano che non era lei”, racconta, “ma nessuno era veramente sicuro”.

Illustrazione di Angelo Monne

L’ignaro direttore della band chiese ai musicisti di suonare la canzone di Aretha (Sweet sweet baby) Since you’ve been gone e, come sempre quando partiva la musica, Jones si trasformò. Nota dopo nota le sue paure svanirono. Chiuse gli occhi e cominciò a cantare: nella sua voce potente si mescolavano il vizio del sabato sera e la redenzione della domenica mattina. Tutti gli scettici tra il pubblico si convinsero all’istante.

“È lei!”, gridò uno spettatore. “È Aretha!”.

Alla fine di ogni canzone il pubblico fischiava in segno di approvazione, urlava, si alzava in piedi. Con grande sollievo del proprietario, nessuno chiese il rimborso del biglietto. “Non erano arrabbiati”, ricorda Hart. “Fu un bellissimo spettacolo”. Alla fine, Jones attaccò Ain’t no way, una delle hit di Aretha Franklin. Sentiva caldo per i riflettori, la parrucca e il peso della responsabilità. Stava vivendo il suo sogno, stava cantando davanti a migliaia di persone, ma gli applausi non erano per lei, erano per Aretha. “Stop trying to be someone you’re not”, dice la canzone (smetti di provare a essere qualcuno che non sei).

Mentre Jones cantava per sopravvivere, a Manhattan la vera Aretha Franklin era alle prese con la sua crisi d’identità personale. “Devo ancora scoprire chi e cosa sono davvero”, disse la cantante ventisettenne a un intervistatore mentre faceva la promozione dell’album Soul ’69. Franklin era ancora molto più simile a Mary Jane Jones che alla star di cui parlava Jet. Entrambe si sentivano insicure per la loro scarsa istruzione, Franklin aveva paura dell’aereo. Erano diventate tutt’e due madri quand’erano giovanissime (Franklin era rimasta incinta del suo primo figlio a 12 anni). Ed entrambe avevano alle spalle un matrimonio violento.

“Bobby era bello e amava Mary Jane, ma aveva anche problemi con l’alcol”, ricorda il reverendo Lee. Dopo essere finito in carcere per violazione di domicilio non riuscì più a trovare lavoro, mandando in frantumi il matrimonio.

Nella vita di Jones la violenza era un tema ricorrente. “Papà litigava sempre con la mamma quando eravamo bambini”, racconta Gregory. “Non potevamo farci niente. Eravamo troppo piccoli”. Lee provò ad avvertire la sua protetta: “Meglio se te ne vai. Quest’uomo non ha nessun diritto di metterti le mani addosso” (secondo i suoi figli, Bobby Jones è morto).

Anche Franklin si stancò presto dei pestaggi di suo marito, Ted White, che era anche il suo manager. All’inizio del 1969 lo lasciò e organizzò una fuga all’hotel Fontainebleau di Miami Beach per esibirsi e preparare le pratiche per il divorzio: un viaggio che la portò in rotta di collisione con la sua doppelgänger.

Vittima o complice?
Forse Jones vide qualcosa del suo ex marito violento nel suo rapitore, Lavell Hardy. Hardy era bello e vanitoso, si stirava i capelli con un prodotto chimico corrosivo e la teneva inesorabilmente in pugno. Nella seconda settimana di gennaio del 1969 la portò a Ocala, nella contea di Marion, in Florida, dove aveva organizzato una data al Southeastern Livestock pavillion, una struttura da 4.200 posti dove gli allevatori vendevano all’asta il bestiame. I promotori tappezzarono di manifesti di Aretha Franklin tutta la zona nera della città, mentre alla radio i dj sparsero la voce. Jones stava per fare il suo show più importante.

Il 16 gennaio nell’ufficio di Gus Musleh, il procuratore della contea di Marion, squillò il telefono. Musleh era un tipo tarchiato, una specie di showman che considerava il tribunale il suo palcoscenico e la giuria il suo pubblico adorante. All’altro capo del telefono, a New York, c’era l’avvocato di Aretha Franklin. Durante i preparativi per le date a Miami Beach i manager della cantante erano venuti a sapere dei concerti falsi.

“Certo che ho sentito parlare del concerto a Ocala”, disse fiero Musleh. Sua moglie era una fan di Aretha Franklin. Aveva già preso due biglietti.

L’avvocato gli disse che era un imbroglio.

Musleh chiamò Towles Bigelow, l’investigatore capo dell’ufficio dello sceriffo della contea. “È inammissibile che una truffatrice si prenda gioco di un’arena piena di gente”, gli disse Musleh. “E chissà i danni che faranno al padiglione quando scopriranno il trucco. Bisogna arrestare la falsa Aretha”.

Bigelow e il suo collega Martin Stephens non erano i tipici poliziotti di provincia, erano due ex militari che lo sceriffo chiamava “investigatori” anziché semplicemente poliziotti. Non portavano la divisa e indossavano vestiti eleganti: Stephens, che nel 1961 aveva fatto la scorta a Elvis Presley durante le riprese di un film a Ocala, aveva una spilla fermacravatte con un diamante. Avevano pistole di loro proprietà e raccontava­no le loro imprese alle riviste di storie poliziesche. Per due superpoliziotti come loro, un arresto così era un gioco da ragazzi.

Stephens lavorò con il legale di Aretha Franklin per ricostruire i movimenti di Hardy. “Ha organizzato nove date”, concluse.

Hardy e Jones furono fermati al Club Valley, un night club di Ocala, mentre si preparavano a un concerto. Anche se nessuno dei due ex poliziotti ricorda i particolari dell’arresto, probabilmente i due sospetti furono fatti salire sulla Pontiac dorata del 1969 di Bigelow e portati al commissariato, dove gli presero le impronte digitali e poi li gettarono in cella. Hardy fu accusato di “pubblicità ingannevole” e la sua cauzione fu fissata a 500 dollari. Dietro le sbarre, Jones giurava di essere stata sequestrata e nutrita solo con hamburger. Non era andata in Florida per fingersi Aretha Franklin, insisteva: “Non sono lei. Non le somiglio, non mi vesto come lei e soprattutto non ho i soldi che ha lei”.

Hardy, ricorda Stephens, era “un tipo dalla parlantina sciolta”. Giurò di non aver fatto niente di male contro la regina del soul. “Se lo show fosse stato un fiasco, allora sì che Aretha si sarebbe arrabbiata. Ma la mia ragazza se l’è cavata benissimo”. Su Jones aggiunse: “Nessuno le ha puntato una pistola o un coltello. Nessuno l’ha costretta a fare niente. E per quanto riguarda gli hamburger, li mangiavamo tutti, non perché eravamo costretti, ma perché sono buoni!”.

Quando i legali di Aretha annunciarono che la vera regina del soul sarebbe venuta a Ocala a testimoniare, sui giornali della Florida si scatenò una tempesta. “Scoperta una falsa soul sister”, gridò il Tampa Bay Times. “Costretta a fare la sceneggiata, dice l’imitatrice di Aretha”, rilanciò l’Orlando Sentinel. “È Hardy che dev’essere processato, non la ragazza”, dichiarò Aretha Franklin a Jet.

Al tribunale della contea di Marion, davanti al quale dal 1908 fa la guardia la statua di un soldato confederato, Musleh ordinò ad Albert Wright, il promotore del concerto, di rimborsare tutti i clienti. Poco dopo, nell’ufficio di Musleh si presentò un avvocato di nome Don Denson. “Rappresento Lavell Hardy”, disse, “ed è stato già punito abbastanza, perché ha pagato la mia parcella!”. Dopo l’arresto, Hardy aveva dovuto dare settemila dollari all’avvocato: “L’abbiamo ripulito ben bene!”. Soddisfatto per l’ammenda pagata da Hardy – circa 48.600 dollari di oggi – Musleh lo liberò, a condizione che lasciasse la Florida.

Uno stile tutto suo
Senza soldi per pagarsi un avvocato, Jones si presentò direttamente nell’ufficio di Musleh per perorare la sua causa. “Esigo che si dica la verità”, insisté. Spiegò di essere stata costretta a cantare in cambio solo di vitto e alloggio, con la minaccia di finire gettata nella baia. “Ero venuta in Florida per esibirmi con il nome d’arte di Vickie Jane Jones”, assicurò.

Musleh le credette. “Non aveva un soldo. Aveva quattro figli a casa e nessun modo per raggiungerli. Eravamo convintissimi che Vickie fosse stata costretta a essere Aretha Franklin”, racconta. Musleh, però, voleva capire come aveva fatto Jones ad abbindolare tutta quella gente. Così le chiese di cantare.

La sua voce sfondò le pareti dell’ufficio e riempì tutto il tribunale. “Questa ragazza è una cantante”, disse Musleh. “È eccezionale. Anche cantando senza accompagnamento ha dimostrato di avere uno stile tutto suo”. Il giudice decise di lasciar cadere tutte le accuse: “Era ovvio che la vittima era lei”.

Jones uscì dal tribunale da donna libera, in mezzo a una folla di giornalisti. “Il giudice ha detto che canto veramente come Aretha”, dichiarò. “Lo so che un po’ di esercizio nel jazz e nel blues mi farebbe bene, ma sento di poter andare fino in fondo. Per me le parole ‘non posso’ non esistono”.

Ad aspettarla fuori c’era anche Ray Greene, un ricchissimo avvocato e imprenditore bianco di Jackson­ville che si era appassionato alla vicenda di Jones: le offrì un contratto e la fece tornare a West Petersburg con un anticipo di 500 dollari in contanti. “Sono il suo agente e consulente”, disse al Tampa Tribune prima di organizzare il suo tour, che andò tutto esaurito. Se prima la sua protetta aveva bisogno di soldi, aggiunse, “ora non ha più bisogno di niente”.

Jones lasciò di nuovo i figli con la madre e partì. Stavolta le davano da mangiare ottime bistecche. “Gli hamburger non mi piacciono più”, scherzò con i giornalisti divertiti. Il 6 febbraio, poco prima delle 22.30, Jones era dietro le quinte dello Stanford Civic center. Sul palco c’era uno dei migliori bandleader d’America, Duke Ellington. “Vorrei presentarvi una ragazza della Florida che due settimane fa è finita sulle prime pagine di tutti i giornali”, disse Ellington, sorvolando sui particolari della storia. Quindi la invitò sotto i riflettori. La sua band, una delle più grandi orchestre jazz di tutti i tempi, attaccò Every day I have the blues e Jones prese il microfono. Il pubblico ammutolì mentre lei cantava: “Speaking of bad luck and trouble, well, you know I’ve had my share” (se parliamo di sfortuna e guai, be’, sapete che ne ho avuti un bel po’).

Finita la canzone, Ellington le diede un bacio sulla guancia. “L’avete immortalato?”, chiese ai fotografi, e quando la baciò un’altra volta scattò un flash. Sulla copertina del numero successivo di Jet non c’era Aretha Franklin ma una nuova star di nome Vickie Jones. “Come ha fatto una sconosciuta come Vickie ad assicurarsi l’appoggio di un ricco imprenditore del sud e poi l’aiuto di uno dei più famosi direttori d’orchestra e compositori mai esistiti?”, si domandava il giornale.

Jones disse ai giornali che sperava di prendere il diploma. “Il fatto di essere bianchi o neri non ha niente a che fare con il successo. Dipende tutto dall’individuo”, aggiunse, sembrando a ogni intervista sempre più la vera Aretha Franklin. “Nessuno può cambiare colore, nasciamo tutti come siamo, e non sono mai riuscita a capire cosa ci guadagna la gente dalla segregazione”.

Jones voleva essere famosa, “ma con il mio stile”, disse. “Dev’essere farina del mio sacco. Sono convinta che la gente può comprare i dischi di Aretha per sentire Aretha e i dischi di Vickie Jane per sentire Vickie Jane. Non sarà facile, ma niente mi fermerà. Voglio fare canzoni che parlino di me, di come ho cominciato e di come amo. Tutto quello che scrivo sarà basato sulla mia vita. Penso che la gente sarà interessata”.

Ellington si offrì di scriverle sei canzoni. “È una brava cantante soul”, disse, ma deve “uscire dall’imitazione e dall’immagine di Aretha”. Nel frattempo, a casa, il suo telefono non smetteva mai di squillare.

Jones diventò talmente famosa che in Virginia fu scoperta un’altra imitatrice che si spacciava per lei

Anche Lavell Hardy voleva parlare con i giornalisti. “Ora che la notizia è di dominio nazionale, tutti vogliono vedere Vickie e tutti vogliono vedere me”, dichiarò all’Afro-American, prima di fare un appello perché un agente lo mettesse sotto contratto. “Altrimenti vado per conto mio e sfondo comunque”.

“Lavell sa cantare e ballare come James Brown, ma vuole essere ricordato come Lavell Hardy”, disse Fenroy Fox, il direttore del Pink Garter di Richmond. “In Florida non l’avete visto fare l’imitazione di nessuno se non di Lavell, giusto?”. È vero, però Hardy non interessava più a nessuno. Una settimana dopo la sua sparata, era di nuovo sul palco del Pink Garter.

Invece le fantasie della cantante che un tempo sognava di viaggiare in limousine si erano avverate. Viaggiando a bordo della limousine di Ray Greene, Jones fece il tutto esaurito a New York, Detroit, Miami e Las Vegas. Il suo compenso passò da 450 a 1.500 dollari a serata. Greene la fece accompagnare dal suo autista personale, che la scortava tra folle di ammiratori. In poco tempo Jones si trovò a guadagnare in una sera più di tutto quel che aveva guadagnato negli anni in cui faceva l’imitazione di Aretha o la cantante gospel, e riusciva anche a mandare soldi a casa per i figli. “È il migliore investimento che ho mai fatto”, dice oggi Greene.

Jones diventò talmente famosa che in Virginia fu scoperta un’altra imitatrice che si spacciava per lei. “La falsa Aretha falsificata: dove arriveremo?”, si chiese l’Afro-American. “Ora ha smesso, ma non ho niente contro di lei”, disse Jones. “So cosa vuol dire avere fame, essere senza soldi, mantenere una famiglia ed essere separata da tuo marito”.

Jones aveva finalmente raggiunto lo stile di vita di Aretha Franklin, quello di cui leggeva su Jet e fantasticava. Ma ormai tutto il mondo sapeva degli abusi domestici subiti dalla vera regina del soul. Nell’agosto del 1969, il medico consigliò all’esausta star di cancellare l’ultima parte del suo tour. Jones capitalizzò con una serie di date ravvicinate: nonostante i consigli di Duke Ellington, la gente voleva ancora sentirla cantare i pezzi di Aretha, non i suoi.

Dopo circa un anno di concerti, Jones arrivò nella sua città natale in Virginia per cantare. Stava cenando al ristorante Pink palace di West Petersburg, quando due bambini entrarono correndo nella sala: “Mamma!”, gridavano Gregory e Quintin Jones mentre i camerieri cercavano di allontanarli dal locale.

“Ehi! Sono i miei bambini!”, gridò Jones.

Mentre lei era in tournée, sua madre non era riuscita a stare dietro ai quattro bambini e li aveva mandati a vivere con il padre alcolizzato. “Vostra madre vi ha lasciati tutti”, li aveva terrorizzati lui, annunciandogli che non avrebbero più vissuto con la madre. Il piccolo Gregory era talmente sconvolto che quando sentiva una canzone di Aretha Franklin alla radio cambiava stazione. In quel momento, al ristorante, davanti a un piatto di patatine fritte l’istinto materno prese il sopravvento. Quella sera Jones lasciò il mondo dello spettacolo.

Anche se non aveva mai incontrato Aretha Franklin di persona, la soul sister l’aveva ispirata e spinta a esibirsi di fronte al grande pubblico, a convincere un tribunale e ad ammaliare i giornali. Ora era pronta a calarsi in un nuovo ruolo, quello di madre, a casa con i suoi figli. Convinse un giudice a concederle la loro custodia in esclusiva. “Ora capisco quanto è importante parlare bene e sapere le cose”, dichiarò Jones al Progress-Index di Petersburg. “Ci fece andare a scuola”, racconta oggi Quintin.

Tra il 1968 e il 1971 il numero dei televisori a colori nelle case degli Stati Uniti era più che raddoppiato e programmi di successo come Soul train portarono le star della musica nera nei salotti di tutto il paese, rendendo la vita difficile agli impostori. Oggi i social network hanno sostanzialmente spazzato via l’industria dei falsi artisti, spiega Birgitta Johnson, etnomusicologa della University of South Carolina. “I fan di Beyoncé conoscono la sua vita privata meglio di un investigatore, perciò se spunta fuori qualcuno e dice che Beyoncé canterà in un club privato in città, loro magari dicono: ‘No, è da un’altra parte, l’ha appena twittato’”.

Dopo un po’ di tempo Aretha Franklin si ristabilì e continua a esibirsi ancora oggi. Musleh, il procuratore della Florida, ha ottenuto l’infermità mentale dopo essere stato accusato di furto di titoli obbligazionari per un valore di 2,2 milioni di dollari; ora è ricoverato in un istituto psichiatrico.

Jones, che è morta nel 2000, non si è più esibita a livello professionale. I suoi figli raccontano che continuava a cantare le vecchie canzoni di Aretha Franklin e che aveva conservato la copia di Jet con lei in copertina per ricordare a tutti loro che potevano fare ed essere tutto quello che volevano.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

Questo articolo è uscito nel numero 1266 di Internazionale. L’originale era stato pubblicato su Smithsonian con il titolo The counterfeit Queen of soul.

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