Questo articolo è uscito il 6 maggio 2005 nel numero 589 di Internazionale. Era stato pubblicato su Prospect con il titolo Deaf nationalism.
Trovarsi tra il pubblico, in attesa che si alzi il sipario per uno spettacolo, è sempre piacevole. Ma al teatro Eden Court di Inverness, in Gran Bretagna, la situazione è un po’ insolita. Lo spettacolo è già in ritardo di qualche minuto, ma molte persone sono ancora in piedi nei corridoi, salutano qualche vecchio amico da una parte all’altra della sala e si raccontano le ultime notizie. Eppure c’è una strana tranquillità. A parte i gridolini di un paio di neonati vivaci e qualche risata improvvisa, il teatro è piuttosto silenzioso. Tranne me e i due neonati, qui sono quasi tutti sordi e chiacchierano tra loro nella silenziosa lingua dei segni. Sono venuti da tutto il paese per partecipare a un congresso speciale dell’Associazione britannica dei sordi (Bda).
A quanto pare sono felicissimi di occupare uno spazio così grande e, una volta tanto, d’imporre il loro modo di comunicare. Oggi quasi tutti ammettono che le lingue dei segni sono più o meno simili a tutte le altre. Sono sistemi linguistici autonomi, indipendenti sia dalle lingue parlate sia dalla mimica comune. I linguisti ne hanno individuato più di cento, dall’adamorobe – che prende nome da un villaggio del Ghana con un’alta percentuale di sordi – all’algerino, dal croato al venezuelano, tutti diversi tra loro e tutti con le caratteristiche tipiche di una lingua vera e propria. Sono essenzialmente delle serie di simboli arbitrari che i bambini imparano a ripetere e a ricombinare tra loro senza limiti, anche se i grammatici più raffinati hanno difficoltà a definirne la sintassi. A Inverness si comunica con la lingua inglese dei segni (Bsl) e a beneficio di un gruppetto di alieni come me ci sono molti interpreti che traducono dalla Bsl all’inglese parlato o scritto, oppure dalla Bsl alla lingua dei segni americana o francese (Asl e Fsl).
Questo raduno è la prima grande opportunità della Bda per celebrare una delle maggiori conquiste dei suoi 115 anni di storia: nel 2003, dopo una lunga campagna di sensibilizzazione, l’associazione ha convinto il governo britannico ad accettare la Bsl come “lingua a pieno titolo, con un suo vocabolario, una grammatica e una sintassi”. Il ministero del lavoro e delle pensioni ha riconosciuto la Bsl come la lingua usata da circa 70mila persone in tutta la Gran Bretagna “per partecipare alla vita quotidiana” e ha chiesto che fosse protetta come altre lingue minoritarie europee. Non è passato molto tempo da quando la lingua dei segni era messa in ridicolo, chiamata “lingua delle scimmie” e considerato spesso, anche tra i sordi stessi, grossolano, pagano e primitivo, una forma di regressione a una condizione arcaica e pre-umana.
Nel 1880 si tenne a Milano una conferenza internazionale per discutere dell’istruzione dei cosiddetti sordomuti e valutare i meriti di tre sistemi diversi: il metodo gestualista, basato sui gesti e sui segni; quello oralista, derivato dalla forma scritta di una delle lingue principali e basato sulla “lettura delle labbra” e l’articolazione dei suoni; e il metodo bilingue o misto, che implicava sia l’uso dei segni sia quello della parola. L’Italia era famosa per le sue scuole oraliste e alcuni delegati riferirono di conversazioni in cui non erano riusciti a distinguere uno degli alunni più grandi delle scuole per sordi da un udente. Il corrispondente del Times arrivò a dire che dal punto di vista linguistico i sordi italiani erano superiori ai loro compatrioti, dato che non avevano l’irritante abitudine di agitare le braccia mentre parlavano. L’11 settembre 1880 il congresso di Milano approvò con 160 voti a 4 la scelta esclusiva del metodo oralista per l’istruzione dei sordi. Quel giorno viene ancora ricordato dai sostenitori della lingua dei segni come il più nero della loro storia.
Nello specchio
Chi è stato educato secondo il metodo scelto a Milano racconta di aver passato buona parte della sua infanzia guardandosi allo specchio e cercando d’imparare le posizioni della bocca che corrispondono alle lettere dell’alfabeto. Un esercizio umiliante e frustrante, e un totale spreco di tempo: un sordo non può spacciarsi per udente, neanche volendo, e i suoi giorni di scuola erano un inutile inferno. La cosa peggiore era che gli insegnanti punivano tutti gli alunni che provavano a comunicare a gesti o segni. Per quasi un secolo, le lingue dei segni sono state perseguitate dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto promuoverle. Ma non sparirono del tutto, furono solo costrette alla clandestinità, dove sono sopravvissute grazie alla controcultura ribelle degli studenti. Chiunque stia perdendo fiducia nella libertà, nella ragione e nel progresso umano basta che pensi alla riscossa delle lingue dei segni negli ultimi cinquant’anni per ritrovare un po’ di ottimismo. Oggi sono accettate in tutte le scuole per sordi, dove spesso s’insegnano e si usano per comunicare. Un’impalcatura didattica formale, sostenuta da filmati e riprese video, sta dando alle lingue dei sordi la stabilità e l’uniformità che finora non avevano mai avuto. E al tempo stesso il teatro e la poesia dei segni le stanno diversificando e arricchendo. Sono studiate come seconde lingue da persone senza problemi d’udito e sono argomento di grande interesse per la ricerca linguistica. Ci si è abituati a vedere i loro interpreti nei teatri e in tv. Per questo i delegati al congresso della Bda hanno una grande vittoria da festeggiare.
Duplice gioia
Finalmente comincia lo spettacolo. La compagnia Deafinitely Theatre recita con grande energia, anche se cinque attori che si scambiano segni a gran velocità per un’ora sono un po’ troppo per una fonocentrica come me. Sono affascinanti e divertenti, ma dopo qualche minuto non riesco più a seguire la trama.
Me la cavo meglio durante le più sobrie sessioni diurne, ed è normale data la quantità e qualità delle traduzioni inglesi, scritte e orali, organizzate per la minoranza che non capisce la Bsl. La star del convegno è Harlan Lane, lo storico americano che ha raccontato la storia di oppressione dei sordi nel libro When the mind hears (Quando la mente sente), pubblicato nel 1984. Lane non è sordo e sembra che si sia imbattuto nella storia dei non udenti studiando le teorie mediche che circolavano a Parigi all’epoca della rivoluzione francese. Le dure ingiustizie subite dai sordi lo hanno indignato al punto da spingerlo a specializzarsi nei problemi storici della sordità e delle lingue dei segni. Il professore è stato accolto a Inverness come un sordo onorario.
Lane si presenta con un segno individuale (quindi non ha bisogno d’indicare il suo nome lettera per lettera) e prima di tornare all’inglese orale dice qualche frase nella lingua dei segni americana (tradotta in quella inglese da un interprete). Parla della persona che gli ha insegnato quella lingua con la stessa ammirazione che altri riservano al loro psicanalista e racconta che la sera prima ha condiviso con un’amica sorda una duplice gioia. La donna ha avuto da poco un bambino e ha scoperto che era sordo anche lui: un motivo di grande felicità, perché così il bambino non avrà la tentazione di rinunciare all’aggraziata cultura dei segni per le volgari gratificazioni del mondo chiassoso di chi ci sente.
Lane porta le ultime notizie sul “mondo dei sordi” statunitense, vale a dire sul milione di persone che usano l’Asl come prima lingua (gli americani che hanno problemi d’udito di vario genere sono circa venti milioni). I sordi americani, spiega Lane, si sono resi conto da poco di essere i guardiani non solo della loro lingua, ma anche di consuetudini, valori e memorie, e vogliono che il resto della società cominci a mostrare più rispetto per la loro cultura. Hanno cominciato ad affermare il loro diritto a essere considerati “un’etnia”, come gli afroamericani, e non un sottogruppo di disabili come le persone che usano la sedia a rotelle o i non vedenti. Ma hanno dei nemici molto potenti. I foniatri e i fabbricanti di apparecchi acustici hanno tutto l’interesse a relegare i sordi alla condizione di “disabili”, e i genetisti e i chirurghi dell’orecchio sono anche peggio: con le consulenze alle coppie che rischiano di mettere al mondo bambini sordi e gli impianti cocleari per curare la sordità congenita stanno praticamente tramando lo sterminio dei sordi. I non udenti inglesi, dice Lane, dovrebbero dar retta agli avvertimenti degli americani prima che sia troppo tardi. Dovrebbero denunciare il sinistro progetto di questi insidiosi filantropi che vogliono restituire l’udito ai sordi. “Perché gli inglesi non si rendono conto che sradicare la minoranza sorda è un vero genocidio?”, chiede Lane.
Il suo avvertimento viene accolto dalla maggior parte degli spettatori con il tipico gesto d’approvazione dei sordi: mani alzate che si agitano. Ma Doug Alker, il presidente della Bda, ha l’aria preoccupata. Capisce le coppie di sordi che sentono la necessità di una consulenza prenatale o di un impianto cocleare per i loro figli. Ma si rende anche conto che l’associazione perderebbe la maggior parte dei suoi finanziamenti se i suoi membri decidessero di girare i tacchi e abbandonare i ranghi dei disabili.
L’Abbé de l’Épée
L’intervento di Jim Kyle, uno spiritoso professore di Bristol che parla inglese e Bsl come un bilingue, solleva molti meno dubbi. Kyle gratifica il pubblico con un attacco all’organizzazione sorella della Bda, l’Istituto reale nazionale per i sordi (Rnid). Quest’ultimo si propone di rappresentare tutti i nove milioni di britannici che hanno problemi di udito, mentre solo l’1 per cento di questi può essere considerato sordo e usa i segni con sicurezza e competenza. Secondo Kyle, l’istituto danneggia gli interessi dei veri sordi: con il suo sostegno ai progetti governativi per migliorare gli apparecchi acustici e rendere più disponibili gli impianti cocleari, assorbe fondi che dovrebbero essere spesi per risolvere i veri problemi dei non udenti e incoraggia il degradante stereotipo dei sordi come vittime di una menomazione fisica invece che come esponenti di una nobile cultura. La posizione di Lane e Kyle è stata definita “nazionalismo dei sordi” e questa etichetta è sbandierata con orgoglio da Paddy Ladd, un altro professore di Bristol e uno dei membri più radicali dell’associazione. Ladd ha i capelli lunghi ed è sordo dalla nascita, ma non ha frequentato scuole speciali e ha scoperto la cultura dei sordi solo dopo i vent’anni. Da allora ha adottato come nome lo stesso segno che indica quello di Gesù e ha dedicato la sua vita alle cronache dell’epoca libera della lingua dei segni terminata nel 1880. Il suo contributo alla conferenza, espresso con gesti vigorosi e a volte troppo veloci per i suoi interpreti, riguarda lo studioso francese dell’ottocento Ferdinand Berthier. Berthier, sordo, fu non solo uno dei primi a interessarsi alla storia dei sordi ma fece anche alcuni eroici tentativi per unire i sordi francesi in una “nazione” autonoma. La marcia trionfale del popolo dei sordi è stata fermata da una congiura degli imperialisti dell’oralità, ma non sconfitta, e secondo Ladd adesso sta per ricominciare, fiduciosa nella vittoria finale.
È difficile resistere agli appelli lanciati in nome di un gruppo che ha subìto ingiustizie terribili, ma l’idea di un nazionalismo dei sordi mi mette a disagio. Il tono dei militanti può anche essere trascinante, ma mi sembra che sia accompagnato dallo stesso autoritarismo pieno di autocommiserazione che caratterizza ogni altra forma di nazionalismo, e dalla stessa permalosità (“Come osate parlare dei nostri problemi voi che non condividete la nostra condizione?”). Naturalmente, le sofferenze collettive dei sordi non dovrebbero essere dimenticate, ma questo non significa che si debbano usare come scusa per coltivare un astioso risentimento o come uno schermo per imporre un’identità uniforme a chiunque usi i segni.
Di solito i movimenti nazionalisti interpretano male la loro storia e neanche i sordi smentiscono la regola. Si raccontano storie nostalgiche di un’epoca eroica e felice, interrotta da una sconfitta catastrofica e seguita da una lunga convalescenza che prepara la strada alla rinascita nazionale. Per il popolo dei sordi, i giorni felici erano quelli del religioso francese Abbé de l’Épée. Nel 1760 a Parigi l’abate incontrò due ragazzine sorde e analfabete, e decise d’insegnargli le basi della dottrina cristiana. Cominciò dal francese scritto, ma dopo aver imparato qualche nome di oggetti quotidiani le bambine non riuscivano ad andare avanti. Erano più lontane che mai dalla terra promessa dell’illuminazione spirituale. Allora l’abate decise di diventare allievo delle sue allieve, imparando i gesti che loro avevano inventato per comunicare e usando quei segni per esprimere i concetti astratti di cui aveva bisogno per insegnare il vangelo. Ben presto riuscì a fare lezione alle sorelline due volte a settimana, gratis e a casa sua, e in tre anni raccolse un’altra decina di allievi. Era un uomo benestante e nel 1780 riuscì ad accogliere più di settanta ragazzi alle sue lezioni.
La morte dell’Abbé de l’Épée coincise con l’inizio della rivoluzione francese, e l’anziano religioso fu definito un campione dei “diritti dell’uomo e del cittadino”. Secondo i rivoluzionari, il suo sistema di gesti era “la lingua degli angeli”. La sua storia veniva arricchita a ogni racconto e abbellita con nuovi dettagli sul sacrificio delle sue ricchezze per amore dei sordi e della loro bellissima lingua, e sui suoi ultimi giorni passati, povero ma felice, con i suoi allievi affranti. Ma fu solo dopo il golpe oralista di Milano del 1880 che de l’Épée divenne un eroe nazionale. Nel 1909 gli fu dedicato un monumento a Parigi e fu canonizzato come il “padre dei sordi”, leader simbolico della lotta per la sopravvivenza della lingua dei segni. Purtroppo per le leggende nazionaliste, i documenti dimostrano che l’abate non aveva idea che ci potessero essere codici distinti come quelli che oggi chiamiamo lingua dei segni francese, americana o inglese. I segni, per lui, rappresentavano una lingua universale e perfetta, fortunatamente preservata dal vortice delle convenzioni umane che aveva sommerso le altre lingue quando era crollata la torre di Babele.
Senza tradizione
Inoltre aveva capito che questi “segni naturali” non erano di grande utilità né per la religione né per la vita quotidiana nella Parigi del settecento, perciò li modificò in modo da associarli alle parole e alle categorie grammaticali francesi. Non gli passò mai per la mente che questi “segni metodici” potessero diventare una lingua autonoma; li considerava poco più di un metodo stenografico con l’unica funzione d’insegnare il francese – e quindi la religione cristiana – ai ragazzi sordi. Una volta raggiunto quest’obiettivo, il compito successivo dell’abate era insegnare a leggere sulle labbra e, se possibile, ad articolare le parole, per permettere ai ragazzi di partecipare a pieno alla vita del loro paese. In breve l’abate non era un antioralista e neanche un precursore del nazionalismo dei sordi.
D’altro canto, neanche l’oralismo del congresso di Milano era poi così deleterio e catastrofico come pensano i nazionalisti sordi. Oggi nessuno eliminerebbe completamente la lingua dei segni dall’educazione dei bambini affetti da sordità profonda. Ma i delegati al congresso milanese si preoccupavano soprattutto per quelli, molto più numerosi, che erano solo audiolesi e perciò erano in grado d’imparare le lingue parlate, purché da piccoli potessero usufruire di un insegnamento personalizzato e degli ausili appropriati. È vero che qualcuno degli oralisti di Milano aveva dei pregiudizi teologici nei confronti dei segni, ma c’erano anche dei sostenitori romantici della lingua dei segni che avevano il pregiudizio opposto: erano convinti che i segni erano più nobili e naturali della parola, perciò i sordi avevano poco da guadagnare e molto da perdere imparando le lingue parlate. Molti degli oralisti avevano assimilato la lezione della linguistica storica dell’ottocento e consideravano le lingue come opere d’arte collettive, costruite nel corso dei secoli o dei millenni con apporti culturali sempre nuovi.
Ormai quelle lingue costituivano un vasto patrimonio comune che conteneva tutte le conoscenze, la poesia e la saggezza del passato. L’ammirazione per la bellezza e la funzionalità del linguaggio dei gesti, dicevano, non doveva essere usata per impedire ai bambini sordi di ricevere la magnifica eredità culturale delle lingue orali. Gli oralisti di Milano non avevano tutti i torti e i progressi successivi nella comprensione della lingua dei segni hanno rafforzato la loro tesi. Le lingue dei segni – come tutte – dipendono da codici convenzionali, ma sono molto più condizionate dalle contingenze sociali. Due bambini sordi che crescono insieme, senza imparare da nessuno una lingua dei segni, finiscono con inventarne una tutta loro. Nel giro di qualche anno dispongono così di un linguaggio perfettamente funzionale diverso da qualunque altro, mentre per i bambini udenti è praticamente impossibile non essere esposti al linguaggio orale, quindi non avranno mai la possibilità d’inventare una nuova lingua dal nulla.
Ma anche se il tasso di nascita delle lingue dei segni è piuttosto alto, la loro aspettativa di vita è sempre stata bassa. L’ereditarietà della sordità congenita è troppo irregolare per creare comunità in grado di tramandare una lingua da una generazione all’altra. Possiamo entusiasmarci quando incontriamo qualche vecchio riferimento letterario a una lingua dei segni, come in Platone o in Cervantes, ma non potremo mai recuperare quei segni e quella sintassi, e men che mai le conoscenze che incarnavano o i sentimenti che esprimevano. Le lingue dei segni del passato fanno parte dei buchi neri della storia, e quelle del presente non sono riuscite a costruire quel catalogo di riferimento che, attraverso citazioni, richiami o allusioni ironiche, svolge un ruolo determinante nella vita delle lingue scritte. Il problema delle lingue dei segni è che non hanno mai avuto una tradizione. O almeno non ancora.
Né orale né scritto
La cosa che più gli ha impedito di diventare come le lingue parlate è che non hanno mai avuto un sistema di scrittura usato in modo diffuso. Nell’ottocento si creò una forma di notazione per i segni gestuali, ma senza successo. Si pensava che i segni potessero essere rappresentati graficamente da illustrazioni o da fotografie, senza dover ricorrere all’artificiosità della scrittura. Ma era un’argomentazione irrazionale. La scrittura non ha la funzione di riprodurre la variegata complessità delle espressioni individuali ma, al contrario, è un modo per fare astrazione dalla loro incalcolabile ricchezza sensoriale e concentrarsi sulle caratteristiche distintive che hanno in quanto segni.
Una forma di notazione dei segni è stata reinventata negli anni sessanta e da allora è stata modificata e migliorata, ma è usata ancora solo dai linguisti. Neanche tra i nazionalisti più appassionati c’è chi usa la notazione per integrare la sua lingua come fanno i parlanti con la scrittura. Prima di essere scritti, i discorsi fatti nella lingua dei segni devono ancora essere tradotti in una lingua parlata, come i barbarismi degli antichi galli o bretoni dovevano essere tradotti in latino. Le lingue parlate probabilmente non avrebbero potuto creare culture così grandi senza un sistema di scrittura di qualche tipo. I nazionalisti linguistici dell’Europa dell’ottocento si preoccuparono di affidare la loro cultura alle stampe, producendo dizionari e antologie di leggende popolari in gallese, scozzese, danese, bretone e decine di altre lingue. Chiunque abbia a cuore il futuro delle lingue dei segni deve sperare che i sordi seguano il loro esempio. Ma forse non ha senso che i sordi sperino di affermare una loro identità nazionale. Quello che contraddistingue una nazione, dopotutto, è il fatto che le sue tradizioni si trasmettono naturalmente da una generazione all’altra e i bambini possono riceverle dalla famiglia in cui crescono. La sordità è una cosa diversa. La maggior parte dei bambini sordi nasce da genitori che non lo sono e non imparerà la lingua dei segni in casa ma in una scuola specializzata. E molti figli di genitori sordi hanno un udito nella norma, perciò, anche se in casa impareranno automaticamente la lingua dei segni, faranno anche parte della comunità che usa la lingua parlata.
Il nazionalismo dei sordi è quindi minacciato non solo dai pregiudizi degli udenti, ma anche dalla brutale realtà biologica. Le comunità sorde non potranno mai aspirare al tipo di omogeneità culturale che ispira i nazionalisti. Dovranno sempre essere più permeabili e più aperte delle comunità nazionali nei confronti degli estranei. Mentre scende la sera e torno al teatro Eden Court, penso che forse la politica può imparare dai sordi più di quanto i sordi abbiano da imparare dalla politica.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito il 6 maggio 2005 nel numero 589 di Internazionale. Era stato pubblicato su Prospect con il titolo Deaf nationalism.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it