Questo articolo è uscito il 14 aprile 2000 nel numero 330 di Internazionale. L’originale era uscito sulla rivista The Atlantic Monthly.
Qualche volta, nelle belle serate estive, uno scrittore che conosco invitava me e mia moglie a bere un drink a casa sua a New York. Lì, nel suo appartamento vicino a Washington Square, metteva sullo stereo il suo ultimo cd con uno strano sguardo carico di aspettativa e d’orgoglio, come se anziché comprare il disco l’avesse inciso lui. Poi alzava il volume a tal punto che i vetri delle finestre si mettevano a tremare e i vicini si tuffavano per evitare che i vasi da fiori cadessero dai davanzali. “Non è magnifico?”, urlava per sovrastare il baccano. Noi facevamo segno di sì con la testa, sorridendo obbedienti. Poi scappavamo a nasconderci in bagno: ci accucciavamo come due cani durante un temporale e in quel relativo silenzio aspettavamo che l’incubo finisse.
La prima volta che qualcuno ha apertamente riconosciuto la funzione della musica come arma dev’essere stato nel 1989, durante l’invasione americana di Panama, quando le forze statunitensi scatenarono un bombardamento a base di rock’n’roll sulla casa del nunzio pontificio nel tentativo di snidare il dittatore Noriega che si era rifugiato lì. Ma ormai tutti gli americani sono vittime del terrorismo musicale.
Non parlo solo dei liceali che passeggiano per la strada con gli stereo portatili a mille, né degli universitari che passano il sabato pomeriggio a far baldoria, né del vicino insonne che alle tre del mattino va su e giù per l’appartamento ascoltando Beethoven. Penso piuttosto alla raffica spietata di motivi sempreverdi degli anni Sessanta che inonda gli shopping center delle periferie; al revival della disco music che ti martella Donna Summer nelle orecchie mentre sei in taxi diretto all’aeroporto; alla musichina da ascensore che filtra da altoparlanti incassati nel muro sopra i pisciatoi nella toilette degli uomini. L’America affoga nella musica: una musica elevata a legge, un’orchestrazione obbligatoria invade ogni millimetro dello spazio pubblico. Praticamente non esiste più un bar dove puoi berti un drink o un caffè in pace, né un ristorante dove per ordinare non devi sgolarti per sovrastare il baccano di qualche big band anni Quaranta.
Forse è stata Hollywood che ci ha insegnato a volere una vita corredata da un sottofondo, a pretendere un ininterrotto commento melodico al film della nostra esistenza. Ma oggi la colonna sonora che pervade l’America impone a tutti noi solo stati d’animo scontati e ufficialmente approvati. Stai andando a comprarti un nuovo paio di blue jeans? Devi essere allegro e giulivo come una canzoncina pop inglese. Vai a cena fuori? Devi adeguarti alla sofisticata ironia di Frank Sinatra. Nelle città americane esistono addirittura popolari catene di negozi dove sono in vendita cd con le melodie più adatte a fare da sottofondo mentre fai la spesa.
Dedichiamo piuttosto il nostro tempo alla conversazione, dice Socrate congedando il flautista
Naturalmente la colonna sonora non funziona mai a dovere, perché nella vita reale te la propinano un pezzetto alla volta, mentre passi da una zona stereo all’altra: accendi il motore e parte la radio; la porta del ristorante si chiude automaticamente e il juke-box tace di colpo. Siamo condannati a vivere in perpetuo la finale di quel quiz a premi dove ti fanno ascoltare un frammento sonoro e tu devi indovinare il titolo della canzone. E il fenomeno non si limita ai luoghi pubblici: anche la vita privata è costellata di segmenti musicali dissociati.
Sembriamo incapaci di stare senza musica. Armonie si riversano dalle finestre aperte del palazzo di fronte e dai finestrini dell’auto che ti si ferma accanto al semaforo. “Dedichiamo piuttosto il nostro tempo alla conversazione”, dice a Socrate il medico Erissimaco nel Simposio di Platone, congedando il flautista dopo cena.
Ma quand’è stata l’ultima volta che siete andati a una cena dove uno stereo non vi ha assordato per tutta la serata? Sommando le stazioni radio, le filarmoniche locali, i jazz club sotto i cavalcavia, i negozietti di dischi usati, il mercato da un miliardo e 300 milioni di dollari della musica rap, quello del revival country-western e tutto il resto, ci si fa un’idea di che enorme investimento culturale rappresenti la musica nell’America di oggi.
Nascita dell’emotivismo
Nel 1981 il filosofo Alasdair Mac Intyre ha pubblicato After Virtue, un attacco ai frammenti di pensiero illuminista che costituiscono gran parte del discorso morale contemporaneo. Parte dell’autorevole testo consiste in un resoconto impietoso della nascita dell’“emotivismo” nel Ventesimo secolo. L’unica cosa che MacIntyre non ha colto è il curioso parallelismo con la nascita della musica registrata: la gente ha cominciato a credere che la moralità fosse un insieme di stati d’animo, anziché un sistema d’idee, più o meno nello stesso momento in cui è bastato mettere sul piatto del fonografo un disco a 78 giri per suscitare emozioni a piacimento.
La portata di questo parallelismo è passata quasi inosservata. Uno dei pochi a lamentarsi è stato Allan Bloom, nel suo best seller del 1987 The Closing of the American Mind. Ricordando il monito sulla pericolosità dell’arte lanciato da Platone nella Repubblica, Bloom suggeriva che Nietzsche aveva perfettamente ragione a cercare nella musica un’arma antirazionale con cui fare a pezzi la cultura cristiana dell’Ottocento. Bloom sembrava dire: se vogliamo respingere l’appello di Nietzsche a un’irrazionalità estatica, se vogliamo preservare un ordine sociale di derivazione classica, ispirato da sentimenti religiosi e illuminato dalla ragione, dobbiamo trangugiare l’amaro calice di Platone e bandire la musica dalla nostra vita. Poi però si è capito che Bloom ce l’aveva soltanto con la musica rock, un’“incessante fantasia masturbatoria, preconfezionata come una merce”, che ha “né più né meno la stessa dignità morale del traffico di droga”. Tant’è vero che elogiava blandamente gli effetti della musica classica sui suoi studenti dell’università di Chicago.
Oggi questa fede nella potenza della musica sembra diventata universale. Ci siamo convinti che la musica abbia il potere di determinare non solo i nostri sentimenti ma il nostro stesso essere. Nel 1998 il governatore della Georgia, Zell Miller, ha chiesto allo Stato di sborsare 105mila dollari per finanziarie un programma grazie al quale ogni neonato sarebbe stato spedito a casa accompagnato da un cd di classica intitolato Potenziate la mente del vostro bambino grazie alla musica. L’idea nasceva da un grottesco errore nell’interpretazione di uno studio scientifico, secondo il quale ascoltare Mozart poteva migliorare i voti degli studenti universitari. Tuttavia, a modo suo, è un esempio straordinario di quello che molti – quanto pare fin troppi, sia conservatori che liberal – pensano che dovremmo fare: suscitare nelle persone i comportamenti giusti inducendo in loro i sentimenti giusti, anziché trasmettendo le conoscenze giuste. Dal momento che la musica è la più grande suscitatrice di emozioni che l’uomo abbia mai scoperto, perché non avviluppare ogni neonato in un’accorta selezione di melodie?
Da tempo le tecniche di registrazione ci risparmiano la fatica improba di eseguire noi stessi ciò che desideriamo ascoltare, la seccatura di recarci in una sala da concerto, e adesso persino il dovere di ascoltare. Nell’inesorabile sonorizzazione totale, in questa sequenza incessante di frammenti musicali che satura tutti i nostri spazi pubblici e privati, la musica ormai non è altro che sottofondo onnipresente, infallibile modulatrice degli umori, arbitra e al tempo stesso indice del comportamento giusto. Forse quei poveri bambini della Georgia non hanno mai vissuto un istante di vita che non fosse attentamente orchestrato.
Uno strumento povero
Quasi nessuno sembra ricordare che la musica occupa uno degli ultimi posti nel tradizionale elenco degli strumenti di cui disponiamo per comprendere l’esperienza umana. Chi ha mai imparato qualcosa dalla musica, se non che esercita un potere sulle emozioni? La musica è una forma d’arte con contenuti intellettuali limitati; un popolo che come sua massima espressione ha la musica si taglia fuori dalla narrazione, dall’epica, dall’allegoria: insomma, da tutte quelle arti esplicative che potrebbero utilizzare in qualche modo le emozioni espresse dalla musica.
Ci sarà pure stato qualche compositore serio che ha tentato di servirsi della musica per render conto delle emozioni umane in modo filosoficamente completo. Forse Beethoven ha persino perseguito questo fine consapevolmente, visto che ha scritto: “La musica è una rivelazione più alta di qualsiasi sapere e filosofia”. Oggi però non c’è in giro nessuno che persegua un disegno tanto grandioso. Anche soltanto per provarci occorrerebbe che il mondo del compositore contenesse proprio quel che manca a noi contemporanei, quell’idea che i nostri artisti e intellettuali hanno respinto sistematicamente negli ultimi cent’anni definendola antidemocratica ed esclusivista: cioè che l’esistenza umana abbia un fine ultimo e che questo fine sia comune a tutta una cultura. Con la sua trovata del 1952 – un pezzo in cui un pianista da concerto siede in silenzio davanti alla tastiera per quattro minuti e 33 secondi, poi s’inchina ed esce di scena – John Cage mirava ad abbattere, insieme agli altri compositori americani moderni, le ultime vestigia della coerenza filosofica che la musica rispecchiava ancora. Oggi compositori applauditi e premiati come Lowell Liebermann e Tan Dun si sono lasciati alle spalle la generazione di Cage. La subordinazione della musica a un discorso comprensibile sullo scopo dell’esistenza umana è irrimediabilmente perduta.
Una volta ogni nuova forma musicale si sostituiva alle precedenti. Oggi si sovrappone
Di solito gli avversari della cultura contemporanea immaginano che il problema stia nella musica. A muovere le critiche può essere uno snob innamorato della musica classica, un fanatico nostalgico del jazz o una femminista conservatrice, acerrima nemica della pornografia, che ha organizzato un gruppo di protesta contro le canzoni dei 2 Live Crew e Marilyn Manson: tutti costoro sembrano convinti che per far giustizia della nostra confusione culturale basti una musica diversa. È un impulso comprensibile. In un’epoca in cui la melodia di un normale motivetto pop dura meno di dodici battute, è comprensibile che qualcuno intraveda la soluzione dei nostri guai nelle 32 battute di una tipica canzone da musical anni Venti, o nelle duecento di una tipica sinfonia dell’Ottocento. Naturalmente le cose non stanno affatto così, altrimenti la musica non avrebbe fatto che progredire continuamente dai tempi dei mottetti medievali, e un motivo elaborato come Begin the Beguine di Cole Porter (108 battute) non sarebbe condannato a cercare di sovrastare il tintinnio delle posate nei ristoranti alla moda. All’origine del problema musicale che ci affligge oggi c’è proprio la pronta disponibilità, su cd e su cassetta, di musiche come quelle – coltissime – di Cole Porter.
Ribelli per forza
Il meccanismo che ha causato questa situazione è tutt’altro che complesso. Al pari di ogni altra arte, anche la musica diventa sempre più ricercata con il passare del tempo, e i suoi creatori e il suo pubblico si specializzano via via in questa o quella forma musicale. Dopodiché, naturalmente, la musica si ribella contro la sua stessa ricercatezza, i musicisti cominciano ad averne abbastanza di una certa musica e una nuova forma musicale si afferma sostituendosi a quelle che l’hanno preceduta. Il problema è che oggi ogni nuova forma si aggiunge alle precedenti anziché sostituirle, cosicché la nostra biblioteca musicale si espande incessantemente.
È quel che non capisce Adorno quando, in Sul carattere feticistico della musica e sulla regressione dell’ascolto (1938), scrive che le canzoni pop occidentali ci rendono per forza dei “ritardati” perché sono superficiali e perché noi siamo costretti a riascoltare gli stessi motivi di continuo. È quel che non vedono gli amanti della classica e i guerrieri della cultura; è quel che sfugge ai nostalgici che lamentano il declino della musica pop. La verità è che noi viviamo nell’epoca musicalmente più raffinata di tutta la storia del mondo. La nostra ricercatezza musicale è straordinaria e non la si può ripudiare senza produrre altra ricercatezza, più superficiale ma più di massa, e altre forme musicali che si aggiungono al nostro bagaglio di conoscenze. Così Paul Simon può passare impunemente dalla musica africana a quella cajun o a quella dei chicanos, e finire in cima alle classifiche per una tournée di concerti con Bob Dylan, dopo che in tutta la prima parte della sua carriera è stato liquidato dai fini intenditori di pop come “il Dylan dei poveri”.
Nella seconda metà del Ventesimo secolo quasi tutte le arti sono entrate in una fase di declino. Non è che manchino il talento, l’interesse o i soldi; è che a quanto pare non abbiamo motivi sufficienti per impiegarli. I salti mortali di cui sono capaci gli artisti perché qualcuno noti le loro ribellioni sono il metro migliore per misurare fino a che punto sia superata l’idea, in fin dei conti classica e giudaicocristiana, che l’esistenza umana abbia un fine universale. Basta vedere le opere “maledette” di questi ultimi anni – Piss Christ di Andrés Serrano o le foto di Mapplethorpe – per capire quanto gli artisti abbiano un disperato bisogno di sentirsi dei ribelli. E le reazioni relativamente tiepide che queste opere hanno suscitato sono un’ulteriore dimostrazione che il loro tentativo è disperato. Molta acqua è passata sotto i ponti dal 1849, quando New York reagì all’interpretazione del Macbeth da parte dell’attore inglese William Macready con una manifestazione di sciovinismo culturale che lasciò ventidue morti davanti all’Astor Place Theater.
Con tutto questo, se la musica è sopravvissuta al declino della metafisica pubblica – cioè della fede condivisa in un rapporto coerente fra Dio, natura e cultura umana – è perché, più di ogni altra arte, produce il suo effetto senza richiedere inquadramenti filosofici. Per piacere e per suscitare stati d’animo, un brano musicale non ha bisogno di compiere nessun gesto particolare nei confronti del suo scopo. A questo miravano i fautori dell’arte per l’arte quando alla fine dell’Ottocento proclamavano, per citare il vittoriano Walter Pater, che “ogni arte aspira incessantemente alle condizioni della musica”. A questo mirava Susanne Langer quando invocava “espressività, non espressione”, nel suo Philosophy in a New Key del 1942, che per qualche tempo è stato il testo filosofico più dibattuto d’America. Negli anni Venti, con il suo Filosofia delle forme simboliche, Ernst Cassirer tentò di definire l’estetica di un’era che mancava di fiducia nelle finalità metafisiche. Vent’anni più tardi la genialità della Langer è consistita nel capire che l’analisi di Cassirer si riferiva principalmente, e forse unicamente, alla musica. “Nella musica”, scriveva la studiosa dando per scontato che la situazione del suo tempo fosse la condizione universale dell’arte, “abbiamo un simbolo imperfetto, una forma significante che non ha un significato nel senso convenzionale del termine”. Questa forma, dice la Langer, si colloca “probabilmente al di qua della soglia di coscienza e certamente fuori dell’ambito del pensiero discorsivo”; pertanto “il fuggevole suono non si lascia dietro nessun significato permanente”.
In effetti una composizione musicale, per quanto seria ed elaborata, non può creare la propria cornice metafisica da sola. “Chi può esprimere con parole logiche l’effetto che la musica ha su di noi?”, scriveva lo storico scozzese dell’Ottocento Thomas Carlyle. La musica è “una sorta di linguaggio inarticolato e insondabile che ci conduce sulla soglia dell’Infinito”. Naturalmente è proprio questo il punto. Non ci sono parole per definirlo perché in realtà non esiste: la melodia non ha contenuti intellettuali, nella musica non ci sono idee. Persino nelle Quattro Stagioni di Vivaldi, cioè in un tentativo deliberato di far esprimere alla musica qualcosa di razionale, il compositore impiega 45 minuti a esprimere idee che si riducono a poco più di questo: l’inverno è freddo e l’estate è calda, in primavera sbocciano i fiori e in autunno cadono le foglie.
In ogni caso c’è qualcosa di artificioso e fuori luogo nel tentativo di leggere per forza delle idee nella musica. Il Messia di Händel – di gran lunga la composizione classica più eseguita in America – abbonda di piccoli esempi di questo sforzo d’infilare nella musica un po’ di razionalità: come se lo spartito servisse a fornire piccole illustrazioni esplicative del libretto. Dio “spianerà le asperità del terreno”, annuncia il tenore di Händel all’uditorio: e alla parola “asperità” corrisponde un trillo aspro, mentre la parola “spianerà” è cantata in modo piano. L’impatto è imponente, il suono sublime. Ma dal punto di vista delle idee è più o meno quel che si otterrebbe chiedendo a un bambino di illustrare con le matite colorate un testo edificante tratto da un sussidiario di seconda elementare.
Fai lo struzzo
In realtà nella musica le idee ci sono eccome: solo che non sono la stessa cosa di quello che definiamo “idea” in senso non musicale. Le idee della musica esprimono tecniche musicali e danno voce alla struttura matematica che sta alla sua base; ma nessuno ha mai dato una spiegazione soddisfacente di cosa abbiano a che fare esattamente con ciò che proviamo ascoltando. Queste idee, però, non hanno nulla a che vedere con quelle della matematica o degli scacchi. Le idee musicali non significano niente e sono in sé prive di scopo. Non è un caso che i bambini-prodigio, esseri dotati di un’abilità da adulti e di un’esperienza da bambini, vengano fuori nel campo della musica, degli scacchi e della matematica, ma mai della poesia o della filosofia.
Ho un cugino che fa il musicista. Suona le tastiere e ha fatto parte dei Faith No More, un complesso che nei primi anni Novanta ha avuto il suo momento di successo. Quando erano agli esordi, mentre “scaldavano” il pubblico per conto di una band più famosa, oppure si sforzavano di sovrastare il chiacchiericcio di una festa, a volte suonavano una versione della pubblicità del cioccolato Nestlé; e riuscivano anche a renderla bella e interessante. Ma a pensarci bene è troppo facile ironizzare su trucchi del genere: in fin dei conti che c’è di profondo in una canzone?
Il problema parte dal fallimento complessivo dei testi, cioè dalla constatazione che le parole cantate sono incapaci di introdurre e preservare in musica le idee di cui la musica stessa manca. “Nulla che stia bene in musica può avere un senso”, dichiarava beffardo Joseph Addison, un saggista del Settecento. La più famosa poesia mai messa in musica è indiscutibilmente l’Inno alla Gioia di Friedrich Schiller (1785) che Beethoven, nella sua Nona Sinfonia, ha musicato come se fosse Dio in persona a parlare (“Freude! Freude!”), ma che come valore poetico è un po’ scarsina. I suoi versi sono perfettamente adatti a essere declamati, ma non si possono certo definire “profondi”: “Colui che ha una nobile vita / Si unisca al nostro possente canto di gioia!”. E non è che diventino magicamente profondi se li intona un coro massiccio accompagnato dal rombo dei timpani e dal trillo dei violini: possono solo sembrare profondi. Insomma, in mano a Beethoven le parole di Schiller non diventano grande poesia, ma solo versi accettabili. Le ascolti e credi di avere un pensiero profondo solo perché lo senti profondamente.
Il senso di John Lennon
Un’altra dimostrazione del fallimento della poesia in musica è la breve durata dell’egemonia del rock. Il poeta canadese Leonard Cohen si è dato alla musica alla fine degli anni Sessanta, dopo avere ascoltato Bob Dylan e Sonny Bono ed essersi reso conto che per un cantante pop una voce imperfetta non era necessariamente un ostacolo al successo. Il prezzo pagato da Cohen per aver scritto testi di qualità superiore rispetto a quelli degli altri compositori dell’era del rock è stato quello di scrivere poesia di qualità inferiore. Lou Reed, fondatore dei Velvet Underground, ha studiato con Delmore Schwartz, un poeta serio e complesso. Ma questo non gli ha impedito di realizzare una delle sue prime registrazioni – come raccontò Andy Warhol – accordando tutte le corde di una chitarra elettrica sulla stessa nota e strapazzandole selvaggiamente urlando “Fai lo struzzo”, fino a quando un tecnico dello studio l’ha costretto a smettere.
Milioni di persone conoscono i testi delle canzoni. Sono la fonte principale di conoscenza comune
Dopo Schiller, Cohen e Reed la qualità dei versi in musica scade a vista d’occhio. I libretti d’opera per lo più sono mediocri, molti testi di musical sono peggio e quasi tutti i motivi pop sono peggio ancora. Edgar Allan Poe scriveva nel 1849: “Pochi sono i casi in cui la popolarità va considerata come l’unica, giusta misura del merito; uno di quei pochi, a mio parere, è rappresentato dai testi delle canzoni”. Non meno scettici sono i critici contemporanei. Il giornalista Dave Barry, per esempio, è riuscito a trasformare in un classico dell’umorismo americano la vacuità dei testi pop degli anni Settanta, e anche il revival della disco music negli anni Novanta è stato tenuto a galla con l’aiuto dell’ironia, soprattutto per l’impossibilità di ascoltare le parole senza sghignazzare.
La cosa interessante, quindi, non è che milioni di persone ridano dei pessimi testi delle canzoni, ma che milioni di persone li conoscano. Le canzoni sono la nostra principale fonte di conoscenza comune. Non tutti sanno qualcosa di letteratura o di politica, mentre tutti sanno cantare A Hard Day’s Night. Neppure i serial televisivi degli anni Cinquanta e Sessanta, i film, gli idoli sportivi dei baby boomer ormai attempati sono altrettanto riconoscibili da parte delle giovani generazioni. Gradualmente ci si è accumulato dentro qualcosa di comune, anche se non particolarmente ricco di significato: i testi delle canzoni popolari americane, da Yankee Doodle a Dixie, da White Christmas a Thriller, da Heartbreak Hotel al tema del film Titanic.
Sarebbe un errore affermare che i compositori e gli interpreti di quelle canzoni non pensino di veicolare un contenuto intellettuale. Come sarebbe un errore supporre che gli ascoltatori non prendano mai sul serio i testi delle canzoni pop. Al college un mio compagno di camera credeva di tramandare un sapere secolare quando, stonato com’era, punteggiava le sue conversazioni con citazioni più o meno azzeccate da Crosby, Stills, Nash & Young o John Lennon. Di solito, però, nessuno crede davvero che le parole delle canzoni debbano significare qualcosa in particolare. Sono semplicemente un bagaglio comune di conoscenza. Molto più di qualsiasi canzone dei Beatles, e persino dell’assassinio di John Lennon nel 1980, conta il fatto che tutte le persone di una certa generazione conoscono i grandi successi dei quattro di Liverpool. Molto più di qualsiasi canzone dei Nirvana, ma anche del suicidio di Kurt Cobain nel 1994, conta il fatto che tutte le persone di una certa generazione conoscono le registrazioni del complesso grunge di Seattle. Il declino del rock come filone dominante della musica popolare, sopraggiunto negli anni Novanta, ha messo molte altre forme a disposizione di tutti. Oggi disponiamo della conoscenza più vasta e più largamente condivisa mai esistita al mondo della varietà delle musiche possibili.
Ascolto regressivo
Adorno prese una cantonata spettacolare pronosticando, nel 1938, che la musica registrata ci avrebbe inesorabilmente trasformato in “ritardati”. Naturalmente era nel giusto quando osservava che l’“ascolto regressivo” – la sottomissione degli ascoltatori, dovunque si trovino, a un bombardamento di canzonette – è “legato alla produzione dal meccanismo della distribuzione delle merci e in particolare dalla pubblicità”. È il caso del complesso rock emergente di San Francisco che, strizzando l’occhio, suona un jingle pubblicitario davanti a un pubblico di adolescenti smaliziati.
Ma persino Adorno, che sul piano culturale è stato il marxista più osservante della metà del Novecento, era troppo tradizionalista per intuire che la stupidità della musica pop non ci avrebbe resi stupidi, ma ironici. Se è vero che, quando l’intelligenza si dedica esclusivamente alla banalità, il risultato è la decadenza, quando essa si china sulla stupidità il risultato è l’ironia. Tutti noi abbiamo in comune un enorme quantitativo d’informazioni, e sappiamo che non significa niente, e canticchiando ci scambiamo un sorriso beffardo.
L’anno scorso, in un saggio sul New York Times in cui racconta di aver assistito a una conferenza di George Martin – il produttore dei Beatles –, Richard Panek scriveva: “Poco dopo la conferenza, con mia grande sorpresa mi sono ritrovato ad assistere nell’intimità del soggiorno di casa a un’esecuzione a solo di una canzone dei Beatles. Il mio bambino, che ha otto anni, mi ha infatti annunciato che stava per cantarmi Ob-La-Di, Ob-La-Da, e ha aggiunto: ‘Nella versione di Anthology, con sovraincisioni di tre sassofoni e conga’, come spiegavano le note della copertina dell’album. Però, arrivato a metà, ha aggiunto uno ‘Ha-ha-ha’ che nella versione di Anthology non c’era. Io l’ho guardato perplesso. ‘Sono passato alla versione del Doppio bianco’, mi ha spiegato prima di riprendere a cantare. E io ho pensato: ‘Beato lui!’”.
A una certa età i ragazzini si divertono a sapere le cose tanto per saperle. La conversazione fra Panek e suo figlio avrebbe potuto riguardare indifferentemente il baseball, il cinema o le automobili. Invece avevano parlato di musica. Ma c’è qualcosa di sconcertante in questo aneddoto, il cui protagonista è un ragazzino di otto anni con un livello altissimo di conoscenza specializzata su un brano di musica pop registrato ventitré anni prima della sua nascita. In parte questo fenomeno è legato al “nozionismo di bassa lega”, per dirla con David Denby, cioè all’abitudine di inculcare nei bambini le complesse banalità della cultura popolare. Ma quel “beato lui” esprime la sincera ironia di un padre nei confronti di un figlio che ha imparato musiche della sua generazione. In ogni caso l’aspetto più inquietante dell’aneddoto di Panek è che la conoscenza comune a padre e figlio è completamente priva di significato, non ha nessuna collocazione, non serve a niente. Ed è inquietante perché tutto sommato dalla musica continuiamo ad aspettarci un po’ di più. Una volta Bob Dylan ha sostenuto che si potrebbe imparare a vivere ascoltando le canzoni di Woody Guthrie. Naturalmente non è vero: tutt’al più da Woody Guthrie si poteva imparare come il radicalismo politico degli anni Trenta potesse camuffarsi da antica sapienza dello spirito americano. Eppure, l’affermazione di Dylan conteneva una verità.
Musica per fantasmi
È la stessa verità che si sente nella Messa per l’Assunzione della Beata Vergine di Byrd, nella Passione secondo Matteo di Bach e nel Messia di Händel. Un’eco della stessa verità aleggia ancora nei vecchi blues e nei gospel di Mahalia Jackson. E la si sente anche nella fiducia illuministica che percorre tutta la musica da Mozart a Beethoven per poi affievolirsi in Brahms. Commentando le sue lunghe sedute di registrazione del 1967 con Bob Dylan, il chitarrista Robbie Robertson ha detto che le canzoni di Dylan sembravano ripescate da una raccolta di vecchi canti popolari. Prese riga per riga, le parole delle canzoni folk possono apparire non meno cretine di quelle dei motivi pop del Ventesimo secolo. Eppure, certe volte, nelle vere ballate folk si coglie una parvenza di autentica profondità: un mondo dove Dio, l’uomo e la natura significano ancora qualcosa e le emozioni suscitate da quella musica possono ancora avere un fine catartico. Il guaio è che tanta profondità non si può imitare in un mondo diverso.
Naturalmente oggi possiamo ascoltare le innumerevoli registrazioni in nostro possesso di antiche opere ricche di significati: dagli inni scritti da sant’Ambrogio nel Quarto secolo, agli ultimi quartetti di Beethoven e ai classici del folk americano. Ma il fatto di capire che sono ricche di significati non equivale a capirne il significato. Sono musiche dotate di un’utilità ma questo non è di per sé utile: sapere che un tempo avevano la loro collocazione non significa sapere dove collocarle adesso. Che cosa ci dice una ballata popolare imbevuta di tragedia, se non che non sappiamo più che cosa fare della tragedia?
Il fatto che la musica sia sentimento non significa che il sentimento sia musica. O forse è proprio questo l’errore che definisce l’esperienza moderna della musica. È come se la musica cercasse di convertirci alla convinzione di essere esecutori professionisti intenti a suonare lo strumento del nostro io emozionale, producendo la grande musica dei sentimenti. Il risultato può difficilmente essere diverso dall’emotivismo denunciato da MacIntyre. Noi abbiamo tradotto tutto – persino la moralità – da un sistema d’idee da giudicare vere o false in un insieme di stati d’animo da giudicare piacevoli o spiacevoli. E nel momento in cui l’intelletto viene escluso e consegnato al compito di catalogare la vasta gamma di suoni disponibili, la musica moderna promette che davanti a noi si schiuderà il libero gioco dell’immaginazione, la fantastica improvvisazione del sentimento: una tavolozza di stati d’animo mai neppure sognata dalla razionalità soffocante del passato.
Come l’intelligenza si fa decadente quando viene ridotta a ricercatezza e complessità prive di scopo, così al sentimento succede qualcosa di strano quando non ha altra finalità coerente se non quella di essere provato. Il senso della tragedia che proviamo ascoltando una ballata popolare, il senso della grazia che avvertiamo ascoltando un gospel, l’umorismo che percepiamo ascoltando uno degli scherzi sinfonici di Haydn, e tutti gli altri stati d’animo per suscitare i quali possiamo usare le nostre estensive conoscenze musicali, sono davvero emozioni vive o sono soltanto i loro fantasmi? Mentre galleggiamo su un mare di suoni, sospinti da ondate incalzanti – il pop inglese nel negozio di vestiti, Frank Sinatra al ristorante – faremmo bene a domandarci se per Wallace Stevens e Theodor Adorno non abbiano per caso invertito i termini del problema: la promessa della musica moderna – quella di trasformarci in esecutori della musica di noi stessi – lungi dall’esaltarci intellettualmente, ci ha arrestato la crescita emotiva.
La musica non è la cultura: è la nebbiolina sonora che aleggia sopra la cultura
Sono quasi cent’anni che la nostra società è sempre più impregnata di musica, ma le emozioni di noi americani sembrano essersi fatte più povere e più tristi, come se non fossimo più pienamente capaci di sentire quel che sentiamo. Come se per conquistare la vastità delle nostre conoscenze musicali avessimo dovuto sacrificare la profondità delle emozioni musicali. In The Closing of the American Mind, Allan Bloom poneva l’accento sugli espliciti riferimenti sessuali del rock e sul suo potere masturbatorio di eccitare gli adolescenti senza ragione, ma trascurava la tristezza che lo pervade. Oltre al sesso, la musica pop è percorsa da una nostalgia costante, dal senso che i tempi migliori siano ormai finiti, perduti. Il revival della beatlemania cominciò pochi giorni dopo lo scioglimento dei Beatles.
Cultura senza pensiero
La musica non è la cultura: è la nebbiolina sonora che aleggia sopra la cultura. Un popolo che vede nella sua musica l’arte fondamentale – come noi la vediamo nella musica, facendo dell’onnipresente accompagnamento di rumori registrati il dato più evidente della società americana – confonde il mare con la schiuma.
“Probabilmente”, osserva Hermann Hesse nel suo romanzo Demian, “amo la musica perché è amorale”. Sull’intrinseca amoralità della musica Hesse aveva ragione: in una cultura organizzata attorno al pensare bene la musica esprime gli umori che si adattano a quel pensiero, e fa altrettanto in una cultura organizzata attorno al pensare male.
Ma che succede in una cultura senza pensiero, una cultura che ha espressione ma nulla da esprimere? Il modo in cui ascoltiamo la musica è un rituale complesso e sofisticato, pieno di collegamenti sottili percepiti dai suoi adepti, ma che manca di qualsiasi significato e consuma l’energia intellettuale ed emotiva della cultura. Tutto quel che resta è un’ironica incongruenza e gli umori decadenti che possono sopravvivere all’ironia: memoria e desiderio, o piuttosto nostalgia e concupiscenza, sentimento della memoria senza nulla da ricordare, eccitamento del desiderio senza oggetto del desiderio: un utile crudelmente esiguo, a fronte del nostro colossale investimento, della nostra sconfinata ricercatezza, del nostro aver inondato di suoni un’intera nazione.
Tutti quelli che conosco adorano la musica, come me. Ma innalzare un’arte secondaria ha un prezzo. La musica non può costruire una cultura, e nell’America d’oggi la musica, diventata onnipresente, si frappone fra noi e quelle arti superiori che, forse, potrebbero tendere a un’idea unitaria, a una metafisica pubblica, a un senso, a un significato per tutto questo rumore che ci circonda.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è uscito il 14 aprile 2000 nel numero 330 di Internazionale. L’originale era uscito sulla rivista The Atlantic Monthly.
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