Se un paese affonda e scompare dalla faccia della Terra, può continuare a essere considerato tale? La questione esistenziale se la pone Tuvalu, nazione di nove atolli e 12mila abitanti nel sud del Pacifico diventata simbolo del cambiamento climatico. Sono trent’anni che Tuvalu lancia periodicamente un grido d’aiuto: alla conferenza sul clima Cop 26 nel 2021 il ministro degli esteri Simon Kofe aveva mandato un suo intervento video con i pantaloni arrotolati e l’acqua alle ginocchia. Se il livello del mare continua a salire a causa del riscaldamento globale, la popolazione di Tuvalu sarà costretta a emigrare in blocco, ma per andare dove? E soprattutto, quando l’acqua si mangerà anche l’ultima striscia di terra, Tuvalu continuerà a esistere come nazione?
Dal 1 ottobre la costituzione dell’arcipelago riporta una nuova frase: dice che il paese esisterà “in perpetuo”, anche quando fisicamente non ci sarà più. E che, ribadisce spesso il primo ministro Kausea Natano, manterrà il diritto sulle acque circostanti l’attuale Tuvalu. Su 26 chilometri quadrati di terra, l’arcipelago ne ha 800mila di territorio marittimo. Anche gli altri stati insulari del Pacifico stanno mappando i loro confini marittimi e le loro zone economiche esclusive (che dalle coste si estendono per 370 chilometri) affrettandosi a rimarcare che rimarranno tali indipendentemente dalle variazioni del livello dell’oceano.
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Secondo la Convenzione di Montevideo sui diritti e i doveri degli stati, però, un paese deve avere un territorio fisico, una popolazione permanente, un governo e la capacità di interagire con altri stati. Tutte caratteristiche che Tuvalu prima o poi perderà, e con lei anche altri paesi che stanno affondando come Vanuatu, Palau, Antingua e Barbuda, solo per citarne alcuni. “La nostra sovranità non è negoziabile”, ha ribadito Natano a settembre, a margine dell’ultima assemblea generale dell’Onu. Il diritto internazionale forse dovrà adeguarsi alle trasformazioni in atto.
Gli abitanti di Tuvalu dovranno lasciare l’arcipelago anche prima che s’inabissi. Già oggi, nella stagione in cui la marea raggiunge il picco, il 40 per cento dell’atollo di Funafuti, la capitale, finisce sott’acqua. L’eccessiva salinità del terreno rende colture di base come taro, pompelmi e banane inadatti al consumo per gli esseri umani. Per una popolazione che vive di pesca e agricoltura, oltre che degli aiuti internazionali, significa dover importare i prodotti essenziali. Il governo di Funafuti si sta preparando al futuro costruendo una “nazione digitale” e trasferendo sul cloud i servizi che gli permetteranno di continuare a lavorare. Si parla addirittura di usare la realtà virtuale e quella aumentata per permettere ai futuri profughi di mantenere un contatto con la terra ancestrale.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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