Nei giorni scorsi si è parlato molto di una nuova serie di Amazon Prime, Expats, prodotta da Nicole Kidman, che interpreta anche una delle protagoniste. La mini-serie, in sei puntate, è tratta dal romanzo The expatriates di Janice Y. K. Lee e ha al centro le vicende di tre donne statunitensi che vivono a Hong Kong e fanno parte di quella categoria privilegiata di immigrati benestanti – diplomatici, professionisti, dipendenti di multinazionali – che in genere vivono negli stessi quartieri e frequentano gli stessi posti.

Di Expats si è parlato in realtà più per il fatto che, pur essendo ambientata a Hong Kong, non è visibile nell’ex colonia britannica, ormai sempre più sotto il controllo asfissiante di Pechino. La causa sembra essere che il penultimo episodio è ambientato nel 2014, quando parti della città furono occupate dai sit-in e dalle manifestazioni del movimento degli ombrelli, che chiedeva un sistema elettorale più democratico.

La regista, Lulu Wang, è figlia di genitori cinesi emigrati negli Stati Uniti dopo i fatti di piazza Tiananmen e non si è fatta problemi a ritrarre una pagina recente e ancora molto sensibile della storia della città. Racconta che in fase di postproduzione si erano posti il problema ed era emersa l’ipotesi di cambiare il colore giallo degli ombrelli, simbolo di quelle proteste. E sì che le autorità hongkonghesi pare fossero entusiaste del progetto, tanto che nel 2021 era scoppiata una polemica perché Kidman aveva ottenuto il permesso di entrare in città a girare senza l’obbligo di quarantena in vigore all’epoca contro il covid.

Oltre alle proteste, nella serie “c’è un palpabile senso di nostalgia per una città che si sta trasformando in qualcosa di irriconoscibile”, scrive la giornalista Jireh Deng, di madre hongkonghese, che ha intervistato Wang per il Los Angeles Times.

C’è poi un altro elemento che la rende interessante, e lo spiega bene la critica televisiva di The Monthly: “Expats offre un’analisi di come classe e privilegio entrano in gioco nelle comunità di expat di Hong Kong, in particolare tra gli occidentali che godono dei benefit di uno stile di vita che non si potrebbero permettere a casa loro e cercano superficialmente di mantenere gli ideali di uguaglianza che fanno parte della loro cultura. Le madri si riferiscono alle loro tate come a parte della ‘famiglia’ ma si lamentano quando i figli cominciano a preferirle a loro. Gli uomini d’affari tentano di chiacchierare da uomo a uomo con i loro autisti e alzano le mani in segno di frustrazione quando si sentono rispondere un rozzo ‘Sì, signore’. In altre parole, vogliono vivere da padroni senza l’angoscia esistenziale che le rigide gerarchie economiche evocano”.

A proposito di Expats, qualche anno fa la giornalista Megan K. Stack, ex corrispondente del Los Angeles Times da Pechino e da diverse altre sedi in giro per il mondo, ha scritto un libro, Women’s work, partendo da una riflessione sulla sua condizione di privilegio, avendo avuto due figli mentre viveva da expat, prima in Cina e poi in India. Due paesi in cui, dato il basso costo della manodopera, si è potuta permettere di avere in casa ad aiutarla donne che per occuparsi dei suoi figli, così che lei potesse lavorare, avevano lasciato i loro. Stack ha fatto la cosa più sensata che potesse fare: da giornalista ha indagato le realtà da cui provenivano quelle donne, i loro mondi e le miserie da cui cercavano di emanciparsi attraverso il lavoro.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it