Gli immigrati necessari alla Corea del Sud e al Giappone
L’incendio scoppiato lunedì 24 giugno in una fabbrica della Aricell, azienda sudcoreana che produce batterie al litio, è stato uno dei peggiori disastri industriali nella storia della Corea del Sud. È costato la vita a 23 persone e ha svelato una verità drammatica. Nelle camere ardenti allestite a Hwaseong, la città a sud di Seoul dove ha sede l’Aricell, per accogliere le salme regnava un silenzio assordante, racconta Hankyoreh: nessun familiare a piangere le vittime, solo un forte odore di bruciato ogni volta che dal luogo dell’incidente arrivavano altri cadaveri.
Gli operai morti erano quasi tutti stranieri: 12 donne e cinque uomini tra i 23 e i 48 anni erano arrivati dalla Cina, la maggior parte discendenti dei coreani che all’inizio del novecento erano emigrati nel nordest del paese per sfuggire al regime coloniale giapponese. Per uno strano intreccio della storia, scrive il New York Times, molti di loro negli ultimi decenni sono andati a cercare lavoro in Corea del Sud, che nel frattempo è diventato uno dei paesi più ricchi al mondo, ma anche uno di quelli con il più alto tasso di vittime sul lavoro.
Secondo uno studio recente, i lavoratori stranieri rischiano tre volte più dei colleghi coreani. Per varie ragioni: le piccole aziende come la Aricell per risparmiare assumono manodopera straniera con contratti temporanei tramite subappaltatori e non offrono a questi lavoratori un’adeguata preparazione sulle misure di sicurezza, spesso usando come scusa le “barriere linguistiche”. Inoltre i contratti temporanei non permettono agli operai stranieri di familiarizzare con le caratteristiche strutturali delle fabbriche e memorizzare, per esempio, dove si trovano le uscite di sicurezza.
La Corea del Sud, come il vicino Giappone, è stata per molto tempo restia ad accogliere gli immigrati, nonostante il disperato bisogno d’importare manodopera avendo il più basso tasso di fecondità al mondo e una popolazione sempre più anziana. Negli ultimi anni la crisi demografica non ha lasciato scelta al governo, che ha più che raddoppiato la quota di operai non qualificati ammessi dai paesi del sudest asiatico e dalla Cina.
Entro la fine del 2024 la città di Seoul lancerà un programma pilota per l’impiego di stranieri nelle cure a domicilio, settore riservato finora ai cittadini coreani. Secondo i dati ufficiali, nel paese ci sono 900mila lavoratori stranieri, di cui 430mila rimasti illegalmente dopo lo scadere del visto. In teoria dal 2004 il governo importa manodopera non qualificata da 16 paesi tramite un programma di permessi di lavoro temporanei, senza l’intervento di intermediari. Il problema è che questo sistema dà ai datori di lavoro un potere enorme sugli stranieri che impiegano e spesso lo usano per sfruttarli.
Il Giappone, invece, continua nella sua resistenza all’ingresso di lavoratori immigrati, ammessi con il contagocce nonostante l’evidente necessità. Negli anni del boom economico il bisogno di manodopera a basso costo e l’ossessione per l’omogeneità etnica – un mito resistente anche se sfatato dalla presenza di minoranze come gli ainu, gli okinawani o i discendenti dei coreani tradotti nell’arcipelago durante il periodo coloniale – portò il governo a rilasciare visti di lavoro ai brasiliani e peruviani nikkei, i discendenti dei contadini giapponesi che all’inizio del novecento e dopo la seconda guerra mondiale erano partiti in massa per lavorare nelle piantagioni latinoamericane.
Dall’aspetto erano giapponesi ma, soprattutto quelli di terza e quarta generazione, spesso parlavano solo portoghese o spagnolo ed erano discriminati. L’importazione di manodopera nikkei è continuata per decenni e ha subìto una battuta d’arresto nei primi anni duemila, quando la disoccupazione in Giappone ha cominciato a crescere. Allora il governo di Tokyo prese a dare il benservito a chi aveva perso il lavoro, offrendogli un biglietto di sola andata per tornare a casa.
Un altro escamotage per sfruttare i lavoratori stranieri è stato per trent’anni il programma di training riservato ai cittadini dei paesi in via di sviluppo, soprattutto del sudest asiatico, a cui erano dati dei visti temporanei per andare in Giappone a imparare un mestiere. Fra tre anni questo piano sarà sostituito da un nuovo sistema, appena approvato dal parlamento, che permetterà ai talenti stranieri di rimanere nel paese e agli apprendisti di formarsi e intraprendere un percorso professionale.
Al contempo, però, il nuovo schema darà al governo più libertà nel revocare lo status di residenza permanente a chi non paga le tasse o si macchia di crimini gravi. Il fatto che la presenza di immigrati sia agli occhi di una buona fetta dell’opinione pubblica un elemento potenzialmente destabilizzante per la società giapponese continua a influenzare le scelte dei decisori, che pur di non aprire le porte agli stranieri hanno esplorato alternative improbabili come l’impiego di robot nell’assistenza agli anziani.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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