Fin dalla sua prima apparizione in tv nel 2001, Lee Sun-kyun ha affascinato il pubblico con il suo atteggiamento mite e il sorriso da zio. La sua filmografia spazia da drammi struggenti a thriller avvincenti. Aveva ottenuto fama e consenso internazionali per il suo ruolo in Parasite, una satira amara sulle disuguaglianze estreme in Corea del Sud che ha vinto il premio Oscar come miglior film nel 2020, il primo film non in lingua inglese ad aggiudicarselo. Più di recente, era stato candidato come miglior attore agli Emmy 2022 per la serie fantascientifica Dr. Brain. Perciò il mondo è rimasto sconvolto quando Lee è stato trovato morto il 27 dicembre in un’auto parcheggiata nel centro di Seoul, a quanto pare per suicidio, all’età di 48 anni. Lee era indagato dalla polizia per la presunta assunzione di sostanze illegali.

Della sua morte si continua a parlare in modo superficiale, soprattutto tra chi vive fuori della Corea del Sud. Tutti sono dispiaciuti per la tragica perdita di un grande talento. Chi va un po’ più a fondo scopre che Lee è solo l’ultima vittima della “guerra alla droga” promossa dal presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol. Ma c’è altro.

Secondo il sociologo francese Émile Durkheim, un suicidio non è mai un affare isolato e individuale, ma una manifestazione e una conseguenza delle “tendenze collettive” o delle “passioni collettive” di una società. Una persona fa parte di una società e allo stesso tempo è vittima dei suoi costumi e vincoli. In quello che Durkheim definiva il suicidio “fatalista” l’individuo è sottoposto a una pressione psicologica così insopportabile da non riuscire a immaginare un futuro migliore. Questo concetto può essere equiparato all’“omicidio sociale”, cioè alle morti provocate da sistemi che non lasciano a chi soffre altra scelta che togliersi la vita. Il suicidio di Lee rientra in questo schema.

La società sudcoreana nel suo complesso – l’opinione pubblica, i mezzi d’informazione e le istituzioni – hanno messo alla gogna e seppellito socialmente Lee. Prima, nell’ottobre 2023, la polizia ha fatto trapelare alla stampa la sua indagine su Lee. La legge del paese vieta la pubblicazione di informazioni su un presunto reato prima che sia formalizzata un’accusa. Questo per evitare la stigmatizzazione del sospettato, perché può capitare che l’indagine interna trovi prove insufficienti e che il caso sia archiviato. Spesso però questo principio non è rispettato.

Su Lee si sono scatenate voci e speculazioni infondate. Polizia e mezzi d’informazione hanno marciato a ranghi serrati e la folla li incitava. La gente ha cominciato a esprimere disappunto. Ha definito l’attore un ipocrita, un “criminale della droga” nascosto dietro la maschera di padre sorridente. Ha scoperchiato la sua vita privata e spiato la sua famiglia. Giornali di ogni tipo e social network l’hanno fatto a pezzi. Si sono accodate anche le tv nazionali. La regola secondo cui una persona è “innocente fino a prova contraria” è stata calpestata. I negozi hanno rimosso i poster di Lee dalle vetrine. Le aziende che l’avevano avuto come testimonial stavano già pensando di fargli causa per danni d’immagine. Gli studi cinematografici stavano discutendo se distribuire o meno i suoi nuovi film.

Non importava che Lee fosse risultato negativo a diversi test tossicologici né che fosse vittima di un ricatto (l’attore aveva detto alla polizia di aver consumato una volta una sostanza offerta da un conoscente e un altro conoscente l’aveva poi minacciato di rendere pubblico il fatto, chiedendogli soldi in cambio del silenzio). Il caso sarebbe stato molto probabilmente archiviato, invece Lee è stato preso di mira. L’opinione pubblica gli ha fatto un processo e l’ha condannato.

Senza possibilità di redenzione

I sudcoreani hanno una forte avversione per le droghe. Chi le usa è marchiato e messo al bando senza possibilità di redenzione. La stampa seguiva Lee ovunque, come se stesse raccontando la fine della sua carriera e della sua vita. L’antipatia dell’opinione pubblica nei confronti di chi abusa di sostanze va di pari passo con le politiche del governo e dei sistemi giudiziario e sanitario. La Commissione coreana per le comunicazioni (l’agenzia governativa che controlla i contenuti delle trasmissioni) ha dichiarato di voler “vietare ai criminali della droga di apparire in tv”. Al centro del problema ci sono le parole usate dal pubblico e dalle istituzioni: chi assume droghe è considerato e descritto come un criminale invece che come una persona che ha bisogno di un aiuto medico e sociale.

Nel 2022 il presidente Yoon ha creato una squadra speciale antidroga composta da 840 specialisti e ha più che raddoppiato il bilancio per combattere i crimini legati alla droga. Nel 2023 sono state arrestate più di ventimila persone, il doppio rispetto agli anni precedenti al mandato di Yoon. La maggior parte di loro, però, aveva problemi di dipendenza. Eppure, per esempio nel 2022, l’ufficio del procuratore ha richiesto le cure mediche solo in quattordici casi. Questo dimostra quanto le forze dell’ordine siano orientate a perseguire i consumatori di stupefacenti invece di offrirgli opportunità di cura e di riabilitazione. In un contesto sociale in cui la dipendenza è considerata un reato e non un problema di ordine sanitario, la logica è che più tossicodipendenti la polizia consegna alla “giustizia” meglio è. Più pesante è la punizione più si sentono nel giusto. Si perpetua così la falsa impressione che la società stia diventando più pulita quando in realtà negli ultimi cinque anni il 50 per cento circa dei tossicodipendenti è finito di nuovo in tribunale.

Nel frattempo, l’amministrazione ­Yoon ha tagliato l’85 per cento dei fondi destinati alle cure mediche per le dipendenze da sostanze. Gli ospedali hanno dovuto chiudere i loro servizi per mancanza di fondi governativi. E le poche risorse rimaste sono state destinate a consulenze, invece che a trattamenti professionali, e a campagne di sensibilizza­zione.

L’umiliazione pubblica ha distrutto in un giorno vent’anni di attività di Lee. La polizia l’ha torchiato per 19 ore, anche di notte. Ha subìto un ostracismo e uno stigma sociale totale. Nel suo biglietto d’addio l’attore ha scritto alla moglie: “Non ho altra scelta”. Se fosse stato tracciato un percorso che avesse permesso alla società di riaccoglierlo, offrirgli cure adeguate e favorire la ripresa della sua carriera, Lee sarebbe ancora qui. Chiunque abbia una dipendenza merita la possibilità che a lui è stata negata. ◆ gim

Dove chiedere aiuto
Se hai dei pensieri suicidi o conosci una persona che li ha, puoi chiamare il 112, il Telefono Amico al numero 02 2327 2327, o l’associazione Samaritans allo 06 7720 8977.

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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati