Più grande è la balena, migliore è la carne. Almeno così dice Ryo Minezoe, funzionario della città di Shimonoseki, nel sud del Giappone, dove la settimana scorsa la carne di balenottera comune (la coda, la parte più prelibata) è stata venduta all’asta per 200mila yen (circa 1.250 euro) al chilo. Erano cinquant’anni che la carne di questo cetaceo, il secondo animale più grande della Terra dopo la balenottera azzurra, mancava dai mercati dell’arcipelago.
Da poco, infatti, è tornata tra le specie che è consentito pescare, dato che il Pacifico settentrionale si è ripopolato. A maggio la Kyodo Senpaku Co., l’unico operatore con una flotta di baleniere di grandi dimensioni, ha varato la Kangei Maru, la più costosa nave per la caccia, la lavorazione e il confezionamento dei cetacei della storia, costata quasi 47 milioni di dollari. La nave ha lasciato il porto di Shimonoseki con un equipaggio di un centinaio di persone e per otto mesi ha navigato nelle acque al largo della costa nordorientale del paese. Ma il costo, le dimensioni e la capacità di fare operazioni a lungo raggio dell’imbarcazione fanno pensare che l’obiettivo reale vada ben al di là delle acque territoriali.
La Kangei Maru ha rimpiazzato la Nisshin Maru, la baleniera impiegata nelle missioni “scientifiche” (così per anni Tokyo ha giustificato la caccia alle balene in giro per il mondo) in Antartide, quella che più volte si è scontrata con le imbarcazioni della Sea Shepherd, l’ong fondata dall’attivista Paul Watson, che dal luglio scorso si trova in carcere in Danimarca. Watson – ambientalista dai metodi estremi da cui anche Greenpeace, di cui fu uno dei pionieri, ha preso le distanze – è stato arrestato su mandato internazionale spiccato da Tokyo nel 2012 con l’accusa di aver preso d’assalto la baleniera, averla danneggiata e aver ferito l’equipaggio. Watson era in attesa di sapere se sarebbe stato estradato in Giappone, dove rischiava 15 anni di carcere, e oggi il ministero danese della giustizia ha negato l’estradizione e ordinato la scarcerazione dell’attivista.
Il Giappone è rimasto uno dei pochi paesi che continuano a cacciare le balene e lo fa adducendo motivi di vario genere e sfidando le critiche. Nel 2019 Tokyo ha lasciato la Commissione internazionale per la caccia alle balene – l’organismo nato nel 1946 per regolare l’industria che ha visto nei decenni modificare il suo mandato in nome della protezione dei cetacei – e ha ripreso la pesca commerciale nella sua zona economica esclusiva. Ma perché tanta ostinazione nonostante il consumo di carne di balena nel paese sia irrisorio?
In un articolo su The Diplomat Maxime Polleri, antropologo dell’Università Laval, in Canada, spiega che, al di là delle argomentazioni che da sempre Tokyo usa per giustificare la sua fame di grandi cetacei, il vero motivo sarebbe legato all’affermazione della sovranità sulle zone economiche esclusive. Polleri analizza i vari elementi a cui il Giappone si appiglia evidenziandone l’inconsistenza. Secondo il ministero degli esteri di Tokyo la caccia alle balene nell’arcipelago è una tradizione che risale a duemila anni fa, ma la storia smentisce questa affermazione: la piccola industria baleniera nipponica risalirebbe all’inizio del diciassettesimo secolo e non ha mai raggiunto l’importanza economica che un’industria simile su larga scala ha avuto invece in altri paesi.
Solo durante l’occupazione statunitense dopo la fine della seconda guerra mondiale la caccia alle balene fu incoraggiata per far fronte alla carenza di prodotti alimentari nel paese. La rilevanza storico-culturale dell’attività, dunque, non esiste. Altro argomento usato dal Giappone è l’importanza dell’industria baleniera a livello socioeconomico, quando si tratta di un settore in perdita, che sopravvive solo grazie a generosi sussidi governativi. Se nel 1962, anno del picco del consumo di carne di balena, i giapponesi ne mangiarono 230mila tonnellate, oggi si parla di mille-duemila tonnellate all’anno.
Più plausibile, dice Polleri, è che dietro tanta insistenza ci sia la volontà di rimarcare che nessuno può limitare l’attività di Tokyo nelle sue acque territoriali. Un’idea comune un po’ a tutta l’élite politica giapponese e legata all’insularità del paese e all’idea che il Giappone, terra culturalmente unica, ha sempre dovuto lottare per la sopravvivenza affidandosi al mare per mancanza di terra coltivabile. Un territorio da difendere, oggi ancora di più visto l’emergere della Cina e le sue rivendicazioni sulle isole Senkaku (Diaoyu in cinese). Le tensioni dovute allo sversamento delle acque della centrale di Fukushima nell’oceano, e il conseguente boicottaggio del pescato giapponese in Cina e Corea del Sud hanno probabilmente rafforzato quest’idea. In questo contesto, rinunciare alla caccia alla balena suonerebbe come un atto di debolezza da parte di Tokyo, una cessione di sovranità sulle sue acque che pensa di non potersi permettere.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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