La notizia, anticipata da Nikkei Asia, è di un certo peso. La Apple avrebbe ceduto alle richieste del governo indonesiano e si preparerebbe a produrre l’iPhone nel paese. Più che una richiesta, quella posta da Jakarta era la condizione per permettere all’azienda di Cupertino di distribuire l’ultimo modello del suo smartphone nel quarto paese più popoloso del mondo, quasi 278 milioni di abitanti.
Ne avevamo già scritto tempo fa: le autorità di Jakarta hanno bloccato la vendita dell’iPhone 16, uscito a settembre, perché la Apple non “aveva soddisfatto i requisiti richiesti”. Secondo il regolamento, stabilito per costringere le aziende straniere a investire nel paese trasferendo tecnologia e creando posti di lavoro di alto livello, gli smartphone venduti in Indonesia devono contenere almeno il 35 per cento di componenti prodotti localmente.
La Apple, che dopo una prima timida offerta (rispedita al mittente) d’investire cento milioni nella costruzione di un impianto per la produzione di accessori e componenti aveva rilanciato con una proposta da un miliardo per una fabbrica sull’isola di Batam – che dovrebbe avviare la produzione di AirTag –, starebbe valutando con i suoi fornitori la possibilità di creare un impianto di assemblaggio di iPhone. Tutto questo anche se nel paese manca una solida catena di approvvigionamento per il dispositivo.
L’Indonesia, insomma, è riuscita a far leva sul fatto che è il quarto paese più popoloso del mondo e il quarto più grande mercato per i dispositivi mobili. Anche se in realtà la quota degli smartphone Apple nel paese è solo dell’1 per cento circa, scrive Nikkei Asia, “il potenziale di crescita è significativo, dato il rallentamento delle vendite globali e gli ostacoli nel mercato cinese alla luce delle tensioni con gli Stati Uniti”. Il rischio, per l’azienda statunitense, è lasciare campo libero alla concorrenza: la cinese Oppo, la coreana Samsung e la cinese Xiaomi – le tre marche più diffuse – hanno tutte aperto fabbriche in Indonesia, e la Huawei, che a marzo comincerà a distribuire nel paese i suoi smartphone, ha avviato una partnership con un produttore locale.
Economia in crescita
Questa vicenda è l’ennesimo esempio di come l’Indonesia usi l’accesso al suo mercato per cercare di ottenere migliori condizioni d’investimento. Come scrive James Guild, esperto di economia, commercio e sviluppo economico nel sudest asiatico, negli ultimi anni Jakarta “ha usato questo trucco ripetutamente, vietando TikTok, bloccando Netflix e rifiutando di esportare minerale di nichel fino a quando non ha ottenuto investimenti a condizioni considerate più vantaggiose per l’interesse nazionale. E ogni volta ha ottenuto più o meno quello che voleva. TikTok ha rilevato la piattaforma di e-commerce locale Tokopedia, senza la quale probabilmente GoTo, gigante tecnologico indonesiano, non sarebbe mai stato redditizio. Netflix ha cominciato a investire in e a proporre molti contenuti locali. E l’industrializzazione basata sulla grande disponibilità di nichel procede a pieno ritmo. È il riflesso”, continua Guild, “di un’economia politica internazionale in evoluzione, in cui le medie potenze con economie in rapida crescita come l’Indonesia sentono di avere più potere contrattuale di un tempo. Dieci anni fa sarebbe stato improbabile per Jakarta permettersi di essere così aggressiva con la Apple. Il mercato nazionale degli iPhone era più ristretto e un divieto del genere avrebbe comportato pressioni da parte di organismi preposti al libero scambio, come l’Organizzazione mondiale del commercio”.
Oggi, invece, non c’è più paura di incorrere in sanzioni adottando misure protezionistiche, e rispetto a dieci anni fa l’Indonesia ha un maggior potere d’acquisto e un’economia più grande.
L’Indonesia è una trend setter nel sudest asiatico di questo crescente nazionalismo economico, in cui attraverso un atteggiamento assertivo si sfrutta l’accesso ai propri mercati per far accelerare un certo tipo di industrializzazione. Un altro esempio di questa tendenza è la decisione di Jakarta di bloccare le esportazioni di minerale di nichel, metallo di cui possiede le più grandi riserve del pianeta e che è essenziale per produrre beni che vanno dagli utensili alle batterie, dai telefoni cellulari ai veicoli elettrici.
La misura, decisa nel 2014 ed entrata in vigore nel 2020, è volta alla creazione di un’industria del nichel – dall’estrazione alla lavorazione all’uso del materiale nella produzione di batterie e altri componenti. Entro il 2027 l’Indonesia punta a diventare uno dei produttori leader delle batterie per i veicoli elettrici. Un piano ambizioso che Jakarta sta mettendo in pratica e che, “grazie all’aiuto di tecnologie e investimenti cinesi e una dose di protezionismo”, sta facendo dell’Indonesia l’epicentro della produzione globale di nichel per gli anni a venire”, scrive il Financial Times.
Nel giro di dieci anni il paese è passato dal fornire il 6 per cento di nichel raffinato a livello globale al 61 per cento nel 2024. “Questo significa che ora l’Indonesia controlla della fornitura di nickel mondiale più di quel che l’Opec controllava della produzione di petrolio al suo apice negli anni settanta”, scrive ancora il quotidiano britannico.
L’operazione non è stata esente da critiche. L’Unione europea ha fatto causa presso l’Organizzazione mondiale del commercio contro l’eccessivo protezionismo di Jakarta e ha vinto, e l’industria Indonesiana del nichel è criticata per le conseguenze in termini di deforestazione e inquinamento. Il fatto, poi, che questa dipenda da Pechino fa molto discutere, mentre la concentrazione delle forniture di nichel preoccupano l’industria mineraria.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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