Rivolgendosi a una folla di immigrati suoi connazionali in uno stadio di un quartiere commerciale di Hong Kong il 9 marzo, l’ex presidente filippino Rodrigo Duterte ha commentato le voci su un possibile imminente mandato d’arresto spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi) contro di lui: “Qual è stato il mio peccato? Ho fatto tutto perché i filippini potessero avere un po’ di pace e tranquillità. Se questo è il mio destino nella vita, lo accetterò. Non posso fare nulla se mi arrestano e mi mettono in carcere”.
Duterte, 79 anni, era in città con la figlia Sara, attuale vice del presidente Ferdinand Marcos jr., per sostenere i candidati al senato del loro partito alle elezioni di medio termine in programma per il 12 maggio. Scherzando, ha chiesto alla folla di dare un piccolo contributo per un monumento in suo onore, che dovrebbe ritrarlo con una pistola in mano. Rientrato nel suo paese, all’aeroporto di Manila per Duterte sono scattate le manette.
Lo sceriffo di Davao, sindaco dell’omonima città dal 2013 al 2016 e poi presidente delle Filippine dal 2016 al 2022, è accusato di crimini contro l’umanità per la “guerra alla droga”da lui lanciata appena arrivato alla presidenza, una campagna di polizia che ha preso di mira in realtà tossicodipendenti e piccoli spacciatori e in cui si calcola siano morte trentamila persone. I crimini su cui la corte dell’Aja ha cominciato a indagare nel 2018 includono il periodo in cui Duterte era sindaco di Davao e in cui il suo “squadrone della morte” seminava il terrore in città.
L’ex presidente filippino non è il primo leader a essere incriminato dalla Cpi: prima di lui il sudanese Omar al-Bashir, il russo Vladimir Putin e l’israeliano Benjamin Netanyahu. Eppure tutti e tre sono scampati all’arresto pur avendo viaggiato in paese firmatari del trattato di Roma, il documento alla base della Cpi, dunque teoricamente tenuti a dar seguito a un mandato della corte. Come mai Duterte, invece, è stato arrestato dalla polizia del suo stesso paese, che pure nel 2019 lui stesso aveva ritirato dalle nazioni che riconoscono la Cpi?
Decisiva è stata la faida in corso tra le due famiglie che dominano la politica filippina, i Marcos e i Duterte, che dopo un accordo elettorale poco convincente in occasione delle presidenziali del 2022 – Sara Duterte, che inizialmente si pensava decisa a sfidare Marcos jr., alla fine si è candidata come sua vice – nel 2024 hanno gettato la maschera. Gli screzi sono cominciati tra la vicepresidente e lo speaker della camera dei rappresentanti Martin Romualdez, cugino di Ferdinand Marcos jr., e sono poi degenerate in uno scontro aperto.
Sara Duterte, degna figlia di suo padre, lo scorso novembre su Facebook ha minacciato di far uccidere il presidente, sua moglie e Romualdez. “Ho parlato con una persona e le ho chiesto, se dovessi essere assassinata, di uccidere Marcos jr., Liza Araneta (la first lady) e Martin Romualdez. Non è una battuta, non scherzo”. Un mese prima aveva definito “tossico” il rapporto con il presidente e aveva detto di sognare di tagliargli la testa. In un’altra occasione ancora aveva minacciato di riesumare la salma del padre di Marcos, il dittatore Ferdinand Marcos, dal cimitero degli eroi e di gettare le sue ceneri in mare.
Per queste dichiarazioni e per sospetto uso improprio dei fondi a sua disposizione, la vicepresidente ora rischia l’impeachment dopo che a febbraio la camera bassa ha votato a favore della sua messa in stato d’accusa. L’arresto del padre potrebbe nuocerle perché, se accenderà tra i filippini la voglia di giustizia, i senatori non ci penseranno due volte a incriminarla.
Insomma, il clima nel paese ha decisamente favorito il raro successo della Cpi nel far eseguire un suo mandato d’arresto. Ieri Duterte, che mentre era in volo per l’Aja aveva registrato un videomessaggio dicendo che si sarebbe “preso tutte le responsabilità, proteggendo i militari e i poliziotti, continuando a servire il mio paese”, ha partecipato all’udienza della corte, da remoto. Il suo avvocato ha spiegato che l’arrestato, accompagnato dalle figlie Veronica e Sara, non era in condizione di presentarsi in tribunale. La corte ha fissato l’udienza preliminare per il 23 settembre. Ora gli occhi sono puntati sulle elezioni del 12 maggio e su come la popolazione reagirà. Proprio per i suoi metodi duri e la schiettezza Duterte ha sempre goduto di grande popolarità.
Come scrive Lisandro Claudio, che insegna studi sul sudest asiatico a Berkley, su The Conversation, non bisognerebbe sottovalutare il carisma di Rodrigo Duterte. È una figura simile a Donald Trump in questo senso. Molti, tra chi lo critica, non capiscono appieno il potere del suo carisma, il suo umorismo e il calore che trasmette ai suoi sostenitori. Su Asia Times Phar Kim Beng, docente di studi sull’Asean e relazioni internazionali all’Università della Malaysia, mette in guardia dal potere destabilizzante che la faida tra le due dinastie potrebbe avere nel paese. Non una guerra politica ma una “faida di sangue”, che nelle Filippine contempla “vendette personali, tradimenti e mobilitazione di milizie private, clan politici e reti finanziarie illecite”. A meno che i Duterte e i Marcos non allentino le tensioni, cosa improbabile, per il paese il rischio di implosione è alto.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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