“Presenteremo il progetto Mediterranea, di cui fa parte la nave italiana Mare Jonio, che con altre sta monitorando e denunciando ciò che accade nel Mediterraneo centrale. L’evento si terrà nell’auditorium, con l’organizzazione di Lab80, nello stesso luogo in cui si tiene il Bergamo film meeting. Dopo vedremo il film I am not your negro di Peck”. Elena Ferrari mi ha raccontato di aver organizzato questo evento a Bergamo, il 30 novembre. Mi ha chiesto di realizzare un piccolo video per raccontare quello che accade ancora oggi, con la guardia costiera libica che intercetta le imbarcazioni dei migranti e li riporta nei centri di detenzione.

Mentre Ferrari condivideva con me la storia di una nave che stava per cominciare il suo viaggio dall’Italia, io volevo condividere con lei la storia di un’altra nave, il cui viaggio si è concluso in Libia.

Non sono riuscito però a caricare il video in tempo, la connessione a internet era troppo lenta e a Tripoli le interruzioni di corrente elettrica si sono fatte sempre più frequenti nelle ultime due settimane di novembre. Temo che dire al mondo cosa sta accadendo in Libia stia diventando sempre più difficile, non solo a causa delle interruzioni di energia elettrica, ma soprattutto a causa dei blackout dei mezzi di informazione.

Senza testimoni
Lo sfortunato viaggio della nave Nivin era cominciato il 7 novembre scorso. Il centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma aveva suggerito di modificare la rotta per poter salvare 95 persone a bordo di un’imbarcazione senza più benzina. Sebbene l’imbarcazione si trovasse nella zona internazionale di ricerca e soccorso (Sar), la Nivin era stata indirizzata verso la Libia, verso il porto di Misurata, dove sarebbe subentrata la guardia costiera libica. All’arrivo, circa quattordici persone sono sbarcate, le altri si sono rifiutate, preferendo morire piuttosto che tornare in Libia.

Le ong hanno avuto un accesso limitato alla nave, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) continuava a ripetere la sua dichiarazione preferita, ossia che sta “seguendo la situazione da vicino” e l’organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha detto di aver fornito cibo e acqua agli 81 migranti che rifiutavano di sbarcare. Medici senza frontiere (Msf) ha dichiarato: “A bordo abbiamo curato soprattutto ustioni provocate dalle perdite di carburante e abbiamo visto una grande disperazione”.

Quel giorno a Tripoli c’è stata una grande processione sufi, la prima dopo anni di divieto

Con il passare dei giorni le autorità libiche non sono riuscite a persuadere o intimidire i migranti per farli sbarcare e le cose hanno preso un’altra piega. Il rappresentante ufficiale della guardia costiera libica ha dichiarato che per loro i migranti erano paragonabili a pirati e terroristi, e che avrebbe passato il caso alle autorità antiterrorismo.

I giornalisti non hanno avuto il permesso di avvicinarsi al porto, le uniche riprese disponibili della nave erano quelle che i migranti avevano inviato alla reporter Francesca Mannocchi, arrivata il 13 novembre in Libia. Aveva già ricevuto il permesso di lavoro, ma il dipartimento per i media stranieri lo ha cancellato e ha limitato i suoi spostamenti. Questo solo perché insisteva nel voler raccontare la storia e rifiutava di rilassarsi e di godersi il tour che il dipartimento aveva organizzato per lei, che comprendeva anche i festeggiamenti per il compleanno del profeta in piazza dei Martiri il 20 novembre.

Quel giorno a Tripoli c’è stata una grande processione sufi, la prima dopo anni di divieto. Perfino Fayez al Sarraj ha indossato i suoi abiti tradizionali ed è andato in piazza dei Martiri. Il dipartimento per i media stranieri ha indirizzato sul posto tutti i giornalisti per dare risalto ai festeggiamenti. France24 ha intervistato Al Sarraj, che ha sintetizzato il messaggio che voleva lanciare: “La giornata di oggi è la prova del fatto che il popolo libico è al sicuro a Tripoli. Persone dalle origini più diverse sono riunite qui per assistere alla cerimonia e la situazione migliorerà di giorno in giorno”. L’agenzia di stampa Reuters ha scritto: “Due mesi fa Tripoli è stata sconvolta da dieci giorni di scontri pesanti, ma da allora la situazione si è stabilizzata”.

Il 20 novembre, mentre la gente stava ancora ballando e cantando, le forze armate si sono fatte strada fino alla Nivin. Si è parlato di violenza, di persone ferite portate in ospedale e di altre costrette a tornare nei centri di detenzione. Il comandante della guardia costiera della regione centrale, Tawfiq Esskair, ha dichiarato: “Una forza congiunta ha fatto irruzione sulla nave mercantile e ha utilizzato proiettili di gomma e gas lacrimogeni per costringere le persone a bordo a scendere”. L’Unhcr ha rilasciato la sua seconda dichiarazione preferita: “Apprendiamo con rammarico la notizia del ferimento di alcune delle persone a bordo nel corso dello sbarco forzato”.

Non c’è stata alcuna indagine, non ci sono né foto né video, e nessun organismo indipendente ha raccontato quello che è successo. Resta un mistero. Msf ha manifestato “un’estrema preoccupazione per l’assenza di informazioni ufficiali sulle condizioni di salute degli 81 migranti costretti dagli agenti libici a sbarcare dalla Nivin nel porto di Misurata. Tra loro c’erano venti minori, alcune vittime di traffico di esseri umani e persone sopravvissute alle torture, in alcuni casi già censite dall’Unhcr”.

Ciò che è successo sulla Nivin è stato possibile solo grazie alla rimozione di tutti i testimoni, realizzata con la criminalizzazione delle navi delle ong e con le restrizioni imposte ai cooperanti e ai giornalisti. Le “autorità” libiche e i loro alleati permettono di raccontare solo una versione della storia.

L’unico successo
Cara Elena, nonostante l’impegno di Ghassan Salame, inviato delle Nazioni Unite in Libia, e le dichiarazioni di Al Sarraj ai giornali italiani e a France24, la situazione qui non è affatto migliorata. Il governo di accordo nazionale continua ad avallare la presenza delle milizie, garantendogli una copertura legittima e addirittura ampliando le loro prerogative. Gli unici progressi sono quelli dei discorsi che diffondono dai loro account sui social network, pieni di bugie. Nelle loro dichiarazioni parlano di un’altra Tripoli, diversa da quella da cui scrivo e di cui percorro le strade.

È bizzarro constatare come il governo libico, fallimentare sotto ogni altro aspetto, in una cosa ha avuto successo: zittire i mezzi di informazione e i intimidire giornalisti, costringendoli a diventare strumenti della sua propaganda o suoi nemici. Ciò che mi spaventa più di ogni altra cosa è la complicità di molti attori internazionali, ben consapevoli dei fallimenti del governo di accordo nazionale, della sua profonda corruzione e della sua impotenza nei confronti delle milizie. L’unica cosa che sanno fare è rendere più accettabile la loro immagine grazie ai mezzi d’informazione. È inutile distruggere tutti gli specchi che si hanno in casa solo perché riflettono il nostro volto sporco. Sarebbe meglio osservare bene quegli specchi e magari trarne ispirazione per cominciare a lavare via lo sporco dal viso.

Cara Elena, nel film I am not your negro, che avete proiettato all’evento di Bergamo, James Baldwin dice una cosa che spiega dolorosamente cos’è successo sul ponte della Nivin:

Sai, quando gli israeliani prendono le armi, o i polacchi, o gli irlandesi, o qualsiasi altro bianco al mondo dice ‘Datemi la libertà o uccidetemi’, tutto il mondo bianco applaude. Quando è un uomo nero a dire esattamente la stessa cosa, parola per parola, viene giudicato come un criminale e trattato come tale, e si fa di tutto per farlo diventare un esempio, affinché non ci siano altri come lui.

I migranti a bordo della Nivin non avevano armi, eppure si sono alzati e hanno detto: “Dateci la libertà o uccideteci”. E loro cosa hanno fatto? Gli hanno dato qualcosa di peggiore della morte: li hanno costretti a restare in Libia.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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