È interesse dell’Arabia Saudita ottenere con la diplomazia quello che non è mai riuscita a conquistare con il suo debole esercito. Le immagini degli attacchi agli impianti di produzione petrolifera sauditi di Abqaiq e Khurais, circolate la scorsa settimana in tutto il mondo, sono sembrate un’apocalisse.
Non è ancora stato possibile stabilire l’entità reale dei danni, ma l’attacco ha messo in luce le vulnerabilità politiche e soprattutto militari dell’Arabia Saudita, risultato al tempo stesso di una politica estera regionale imprevedibile e di malgoverno.
Sono inoltre simbolo dell’inutilità delle elevate spese militari dell’Arabia Saudita, che ha spesso privilegiato l’acquisto di aerei da combattimento e altri mezzi tecnologicamente avanzati quando in realtà la vera minaccia può provenire da missili e droni di basso profilo prodotti con costi minimi rispetto a quello che l’Arabia Saudita spende per i suoi armamenti.
Gli attacchi segnano l’apice di cinque anni di mosse imprevedibili e poco diplomatiche che hanno messo in pericolo l’intera penisola araba, compresi i piccoli stati del Golfo.
Il più grave errore di calcolo commesso dal principe ereditario Mohammed bin Salman è stato pensare che i suoi nuovi aerei da combattimento di fabbricazione statunitense avrebbero potuto lanciare attacchi devastanti contro i ribelli houthi dello Yemen, impedendo così l’occupazione iraniana del suo vicino meridionale povero.
La motivazione dichiarata degli attacchi aerei sauditi sullo Yemen era impedire l’ascesa al potere di una milizia simile a Hezbollah sostenuta dall’Iran.
La seconda motivazione era il rafforzamento della subalternità dello Yemen a Riyadh in un momento in cui le sue fazioni politiche stanno combattendo una lotta intestina per il controllo del paese dopo il vuoto creatosi con la caduta del presidente yemenita Ali Abdullah Saleh e il nuovo governo di Abd Rabbuh Mansour Hadi.
La terza motivazione era la necessità di proteggere i confini meridionali dalla penetrazione houthi e da attacchi asimmetrici.
Per raggiungere questi obiettivi è stata formata una coalizione, ma gli attori principali nella saga yemenita sono rimasti l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
A ogni modo, a quasi cinque anni dall’inizio del massacro in Yemen, nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. Anzi, le vulnerabilità militari saudite hanno dimostrato di essere un gravissimo ostacolo al raggiungimento di questi obiettivi. Gli attacchi degli houthi yemeniti si sono ampliati e hanno raggiunto la capitale e altre importanti città.
Il recente attacco agli impianti petroliferi è stato l’apice di una guerra di logoramento condotta dagli houthi che è riuscita a mettere in ginocchio la produzione saudita di petrolio quasi senza provocare vittime, mentre l’aggressione saudita contro lo Yemen ha ucciso più di 50mila civili yemeniti.
I paesi del Golfo hanno commesso in Yemen atrocità tali da non poter essere giustificate da nessuna realpolitik
Il danno provocato da questa guerra allo Yemen è ormai ben documentato, ma il suo impatto sulle capacità militari e sulla reputazione dell’Arabia Saudita è irreparabile.
Se l’esercito saudita voleva mettere alla prova le sue capacità in Yemen facendo diventare questa guerra un campo di addestramento per i suoi soldati e piloti, oggi tutto il mondo può vedere quanto il paese sia poco addestrato e inadatto a condurre una guerra, nonostante la guida e gli equipaggiamenti forniti da Stati Uniti e Gran Bretagna.
I sostenitori dell’esercito saudita saranno di sicuro rimasti delusi se avevano previsto che un esercito e un’aeronautica sauditi disciplinati e ben addestrati sarebbero stati in grado di ottenere il risultato che si erano prefissati.
Molti collaboratori e alleati dell’Arabia Saudita sembrano semmai molto più soddisfatti della condotta degli Emirati Arabi Uniti in Yemen. I recenti contrasti tra i due paesi della coalizione indicano che persino il partner più vicino dell’Arabia Saudita sta avendo dei ripensamenti sulla guerra.
Probabilmente Abu Dhabi vorrà mitigare e porre rimedio prima possibile al danno subìto dalla reputazione degli Emirati Arabi a Washington. Tuttavia entrambi i paesi del Golfo hanno commesso in Yemen atrocità tali da non poter essere giustificate da nessuna realpolitik.
Nessun “guerriero del deserto”
All’interno del paese gli attacchi agli impianti petroliferi hanno ridimensionato il racconto di un’Arabia Saudita invincibile agli occhi dei suoi cittadini, sebbene le espressioni di dissenso siano state messe a tacere. Che a lanciare gli attacchi siano stati gli houthi o l’Iran, resta il fatto che gli impianti petroliferi sauditi sono vulnerabili a missili e droni.
Inoltre, Mohammed bin Salman non è assolutamente nella posizione di fregiarsi del titolo “Guerriero del deserto 2” come aveva fatto suo cugino Khalid bin Sultan negli anni novanta. Allora erano stati radunati mezzo milione di soldati stranieri per scacciare Saddam Hussein dall’Iraq e impedirgli di superare i confini sauditi.
Khalid bin Sultan assunse quel titolo e divenne una leggenda militare, nonostante il coraggio e il valore militare finti associati alla sua guida militare della forza internazionale. Tutti sapevano che senza i soldati americani sul campo gran parte della regione orientale dell’Arabia Saudita sarebbe stata inghiottita dall’esercito di Saddam Hussein.
Sebbene lo Yemen non sia paragonabile all’Iraq in termini di capacità militare, i sauditi non hanno ancora ottenuto nemmeno una piccola vittoria nella guerra in corso.
I messaggi ambigui di Trump
In una guerra aperta con l’Iran nell’interesse di Mohammed bin Salman, in cui la comunità internazionale potrebbe non essere pronta a imbarcarsi, è sicuro che i sauditi potrebbero ritrovarsi a combattere da soli. Non è ancora chiaro se la comunità internazionale vuole una guerra adesso, ma re Salman e suo figlio stanno facendo di tutto per includere Trump e altri in una coalizione dei volenterosi.
Stanno perfino proponendo di lanciare un’inchiesta per stabilire le origini dell’attacco, che vogliono assolutamente ricondurre all’Iran. Non dimentichiamo però come l’Arabia Saudita abbia bloccato qualsiasi iniziativa dell’Onu per indagare sui suoi crimini di guerra in Yemen dopo che il numero di morti tra la popolazione civile ha raggiunto livelli spaventosi.
I sauditi hanno inoltre opposto resistenza a qualsiasi inchiesta internazionale sul loro crimine del secolo, l’assassinio di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul lo scorso ottobre.
Finora Trump ha lanciato con la sua diplomazia via Twitter messaggi ambigui agli alleati del Golfo. Oscilla tra gli insulti ai sauditi e ai leader del Golfo, quando ricorda loro di continuo come i servizi mercenari degli Stati Uniti ai loro regimi hanno un prezzo elevato, e il pieno supporto alle loro imprevedibili politiche regionali.
Trump conduce una politica estera transnazionale che non prevede alleanze durevoli o relazioni speciali. Gli interessi nazionali degli Stati Uniti, nella concezione ristretta che ne hanno lui e i suoi consiglieri, sono il principale elemento propulsore. Di sicuro Trump è impegnato a proiettare la potenza statunitense all’estero, ma chi la riceve deve pagarla.
Paesi come l’Arabia Saudita possono anche credere che esista di fatto una relazione speciale con gli Stati Uniti, ma si illudono di avere per questi ultimi un’importanza e una rilevanza che in realtà non hanno.
Il Medio Oriente in generale e l’Arabia Saudita in particolare non sono rilevanti per questa amministrazione americana, che guarda oltre la regione e le sue vecchie rivalità e intrighi. Trump non rispetta i leader sauditi né ha a cuore il loro destino.
I leader sauditi scopriranno che presto o tardi gli Stati Uniti li faranno scivolare nell’oblio, come i tanti dittatori sostenuti e poi scaricati da Washington.
È interesse dell’Arabia Saudita ottenere con la diplomazia quello che non è mai riuscita a conquistare con il suo debole esercito. Per salvare se stessa, l’Arabia Saudita dovrebbe mettere fine alla guerra in Yemen il prima possibile, farsi carico della ricostruzione del paese e aprire il dialogo con l’Iran. Gli Stati Uniti non verranno in suo soccorso.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è stato pubblicato sul sito Middle East Eye.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it