È stata una giornata di follia, il culmine di diversi problemi che andavano covando e ribollendo da settimane nel corso delle proteste studentesche contro l’aumento delle tasse universitarie in Sudafrica. L’università voleva restare aperta, gli studenti la volevano chiusa, le emozioni erano alle stelle e la presenza della polizia era pesante.

Era la ricetta perfetta per un disastro, ed è esattamente quello che è successo.

Queste proteste non sono una novità. Nel 2015 c’era stato un vasto movimento che si era concluso con l’imposizione al governo di accantonare il progetto di aumentare le rette per il 2016. Le manifestazioni sono ricominciate quest’anno, quando le autorità hanno annunciato che ogni università avrebbe deciso autonomamente se aumentare o no la sua retta.

La partecipazione alle ultime proteste è stata molto più ridotta rispetto allo scorso anno. Questo non vuol dire che sia stata meno significativa o incalzante, ma è interessante osservare l’evoluzione della situazione.

La cultura della protesta è storicamente parte integrante della storia del Sudafrica a causa dell’apartheid, un contesto in cui le proteste studentesche hanno giocato un ruolo molto importante. Perciò è interessante capire come questa cultura della protesta si stia esprimendo ed evolvendo.

Le manifestazioni dello scorso anno erano state caratterizzate da una foto, diventata il volto stesso del movimento: quella di una delle leader degli studenti, una ragazza di nome Nompendula Mkhatswa, che marciava con le braccia sollevate sopra la testa. È stata usata e condivisa ampiamente sui social network ed è diventata un simbolo.

Durante le proteste degli studenti a Johannesburg, il 21 ottobre 2015. (Marco Longari, Afp)

Perciò, nel raccontare la storia di questi giorni, si cerca di farlo con lo stesso livello di intensità. E in questa giornata di follia, in particolare, abbiamo avuto più di un momento significativo.

Prima di tutto, inquadriamo un po’ meglio i fatti. Dopo settimane di proteste, l’università di Witwatersrand ha annunciato di voler aprire le porte. Le pressioni in tal senso erano parecchie. L’anno scolastico in Sudafrica va da gennaio a dicembre e proprio nel mese di dicembre c’è un importante esame. Perciò l’autunno è un momento decisivo, poiché gli studenti devono prepararsi per questo esame. Se non fanno l’esame, non si possono laureare, e questo sarebbe un disastro.

Perciò da un lato c’era l’università, che aveva stabilito di riaprire e invitava gli studenti a frequentare le lezioni e le attività. Dall’altro c’erano gli studenti. In base a un sondaggio interno all’università, solo una piccola minoranza degli studenti ha votato a favore della chiusura. La stragrande maggioranza voleva continuare ad andare a lezione. Ma la minoranza molto determinata lotta per qualcosa in cui crede con passione: secondo loro, l’aumento delle rette impedirà ai più poveri di accedere a un’istruzione superiore.

E naturalmente c’era la forte presenza della polizia. La ricetta per un disastro. La situazione è degenerata e la polizia è intervenuta. La polizia ha fatto quello che solitamente fa la polizia in queste situazioni e gli studenti hanno detto la loro, scontrandosi per tutto il giorno con gli agenti con pietre, mattoni e altri oggetti.

Momenti unici
Alla fine abbiamo colto tre momenti davvero unici in tutta la giornata.

Il primo, che inquadra un poliziotto inciampato sui gradini mentre un manifestante cerca di colpirlo alla testa con un calcio. Contemporaneamente, sulla sinistra della foto si vede un proiettile di gomma sparato a distanza incredibilmente ravvicinata da un fucile. Per completare le scena, sullo sfondo si vede una granata stordente che esplode conferendo alla foto una tonalità leggermente giallastra. Le tre cose nella stessa foto, nello stesso momento. È raro riuscire a cogliere tutti questi elementi in una sola foto.

Il poliziotto inciampato sui gradini dell’università di Witwatersrand a Johannesburg, il 4 ottobre 2016.
(Marco Longari, Afp)

Poi ci sono stati due momenti drammatici.

Uno, quando un manifestante ha offerto dei fiori a un poliziotto. Scattando una foto di questo tipo tutti quelli che, come noi, hanno una formazione fotografica non possono non avere in mente l’iconico scatto di Marc Riboud durante le proteste contro la guerra in Vietnam negli Stati Uniti, alla fine degli anni sessanta. Non si può sfuggire a quel paragone.

Un manifestante offre dei fiori a un poliziotto durante le proteste a Johannesburg, il 4 ottobre 2016. (Marco Longari, Afp)

Il secondo è stato quando alcune ragazze hanno deciso di togliersi la maglietta e il reggiseno e di andare incontro alla polizia a seno scoperto, chiedendo di non sparare più. Nella cultura africana questo è un gesto molto potente. Il corpo non si scopre, perciò quando le donne lo fanno si tratta di un vero atto di sfida.

Dal punto di vista del racconto, una foto del genere presenta molte complicazioni. Il desiderio è quello di preservare la potenza del momento senza che la nudità distragga dal messaggio.

L’importanza di restare concentrati
Quando si racconta una protesta di questo tipo, a Johannesburg come a Libreville o a Gaza, si seguono gli stessi rituali, le stesse abitudini. Bisogna osservare la situazione evolversi davanti ai proprio occhi, c’è un fattore rischio di cui è necessario tenere conto, ci sono pietre che volano dappertutto, proiettili di gomma, gas lacrimogeni. Perciò bisogna badare alla propria incolumità e a quella dei colleghi.

È inoltre necessario stare molto concentrati, perché altrimenti si possono perdere scatti importanti. Per esempio, la foto che ho scattato in cui si vede uno dei poliziotti che trattiene un manifestante dalla maglietta ma finisce per essere circondato da troppi studenti e mette mano alla pistola nella fondina.

È uno scatto sottile che dice tantissimo, e se non si è concentrati è facile perderselo.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato sul blog Making-of dell’Agence France-presse. Nel blog, giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.

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