Dal 2020 centinaia di bielorussi fuggiti all’estero hanno sviluppato una rete di aiuti in soccorso dei loro connazionali. Tutte queste iniziative già esistenti hanno permesso di usare questa esperienza per aiutare l’Ucraina.
Il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko è alleato della Russia nell’aggressione dell’Ucraina e la Bielorussia è a tutti gli effetti un paese sotto occupazione straniera, in cui qualsiasi espressione pubblica di protesta è punita con arresti, percosse e procedimenti penali. Alcune storie, però, aiutano a distinguere la maggioranza dei bielorussi, che appoggia gli ucraini, dalla minoranza dei sostenitori di Lukašenko, l’uomo che ha perso le elezioni nel 2020 e che si ostina ad aggrapparsi al potere con la forza.
Al fronte
Tra i bielorussi che vogliono aiutare l’Ucraina c’è chi decide di andare a combattere e lo racconta chiedendo di restare anonimo. “Sono Dub (quercia in bielorusso), un volontario bielorusso”, dice di sé un uomo che si trova a Kiev. Ha circa quarant’anni e vive in Ucraina da quattro mesi.
“In Bielorussia la società per cui lavoravo mi ha licenziato a causa delle mie idee politiche. Le autorità hanno cominciato a perseguitarmi e così sono stato costretto ad andare via e ho trovato rifugio in Ucraina. Mi sono innamorato di questo paese e del suo popolo, e ho deciso che è mio dovere difendere questa nazione meravigliosa e ospitale nello stesso modo in cui difenderei il popolo bielorusso, perché siamo uniti di fronte allo stesso grande male, abbiamo lo stesso nemico”.
Dub fa parte dell’organizzazione militare patriottica “Legione bianca”, che è stata incorporata nella Guardia nazionale ucraina e partecipa alla difesa di Kiev. Ne fa parte anche un battaglione bielorusso.
“Se l’Europa e il mondo intero avessero reagito più fermamente alla situazione del 2020 in Bielorussia, invece di limitarsi a esprimere a malapena la loro preoccupazione, questa situazione forse non si sarebbe verificata. Il male va fermato subito, prima che diventi più forte. Vivere nella ‘pacifica’ Bielorussia è più pericoloso che combattere qui”.
L’attivista Zmicer Zavadski raccoglie i volontari. Nel 2021 ha lasciato la Bielorussia perché minacciato di arresto ed è andato a Kiev. Successivamente si è trasferito in Germania e da lì coordina la fornitura delle attrezzature necessarie ai bielorussi in prima linea: giubbotti antiproiettile, elmetti, visori per la visione notturna, dispositivi di comunicazione.
Gli attivisti ritengono che al momento ci siano circa duecento volontari bielorussi in Ucraina. Eppure, solo nelle prime due settimane di guerra più di mille hanno presentato domanda al Centro di reclutamento di Varsavia e sono ora in attesa di essere mandati al fronte.
Incontriamo Kasia (il nome è stato modificato) nel centro di Varsavia, dove il palazzo della Cultura e della scienza è illuminato di giallo e blu. È una linguista poco più che trentenne e ha passato diciotto mesi come volontaria in un paese del Medio Oriente in cui era in corso una guerra. È lì che ha ricevuto una formazione medica.
“Quando hai ricevuto questa formazione, in un certo senso hai un obbligo, non puoi non fare niente”. I colleghi di Kasia, i suoi conoscenti, ma anche perfetti sconosciuti l’hanno aiutata a raccogliere tutto ciò di cui un medico ha bisogno al fronte: attrezzatura per l’intubazione, per la ventilazione artificiale, saturimetri, barelle, lacci emostatici, stecche, bende, fasciature, cerotti, soluzione salina, medicine. Quando abbiamo incontrato Kasia stava aspettando la consegna degli ultimi pacchi e si preparava a partire.
L’accoglienza
C’è poi chi aiuta al confine, chi raccoglie e distribuisce tonnellate di aiuti umanitari, chi trova un alloggio ai profughi o chi, ancora, si occupa dell’istruzione dei giovani ucraini.
Nel villaggio polacco di Dołhobyczów, non lontano dal confine con l’Ucraina, si trova uno dei centri di accoglienza per i rifugiati. Circa ogni quarto d’ora i minibus del servizio di frontiera arrivano portando donne e bambini.
Una delle volontarie è Oksana Bukina. Il primo giorno di guerra ha chiesto sulla chat “Donne bielorusse a Breslavia” se qualcuno era disponibile ad aiutare con alloggi, denaro o come volontario. Decine di persone hanno risposto. Contemporaneamente ha postato sui social network che avrebbe aiutato a organizzare il trasporto dei rifugiati fuori dall’Ucraina e a riceverli al confine polacco.
“Per giorni non abbiamo quasi dormito. Ricordo che andavamo a letto alle tre del mattino e alle sei o alle sette il telefono cominciava a suonare e dovevamo rispondere. Sarebbe stato bello staccare la spina e riposare, ma quando ci sono persone vere che vengono bombardate e ti scrivono, ti chiedono aiuto…”.
Oksana e alcuni bielorussi che conosceva hanno cominciato a fare volontariato nei centri di accoglienza. Molti hanno preso delle ferie. Vitalik veniva dalla Germania, altri venivano da Breslavia, a sette o otto ore di strada. Oksana dice che all’inizio i volontari civili non erano ammessi nei campi profughi.
“Vitalik ha vissuto i primi tre giorni nella sua auto vicino al campo, aiutando, dando indicazioni, trovando passaggi. In quel momento i rifugiati venivano fatti uscire dal campo: si riposavano, mangiavano qualcosa, si lavavano e andavano via, verso un nuovo paese di cui non conoscevano la lingua, le opportunità per loro erano ben poche. Vitalik era semplicemente un volontario che aiutava i rifugiati che non sapevano dove andare. I responsabili del campo hanno visto quello che stava facendo e lo hanno lasciato lavorare nei loro centri”.
Oksana ora non ha un impiego. In Bielorussia lavorava nel campo dell’istruzione. Nel 2020 è stata arrestata durante una manifestazione, contro di lei è stato avviato un procedimento penale, ma è riuscita a fuggire in Ucraina.
“Anch’io sono una rifugiata, ho chiesto la protezione internazionale. Ero fuggita dalla Bielorussia con mio figlio, non avevamo nulla. Siamo arrivati a Kiev e lì ci hanno accolto a braccia aperte. Hanno raccolto lenzuola e cuscini per noi, stoviglie e vestiti. Ci hanno dato tutto il supporto necessario e ci hanno portato tantissimo cibo! Alcuni l’hanno detto ai loro colleghi, altri ai loro vicini, e la gente ci ha scritto, ci ha telefonato e ci ha aiutato”.
Dopo essersi trasferita a Breslavia, Oksana ha iniziato a lavorare a una startup insieme ad alcuni sviluppatori ucraini, ma la guerra ha posto fine a tutto.
A un mese dall’inizio della guerra, Oksana continua a fare volontariato. Ora si sta occupando dei bambini alla stazione di Wrocław, dove è stata sistemata una stanza in modo che le madri possano lasciare i loro figli mentre si occupano di questioni organizzative.
Aiuti internazionali
Varsavia, distretto di Mokotów. Siamo nel magazzino FreeShop Partyzanka: stanze immense sono letteralmente sommerse da vestiti, calzature, pacchetti di pannolini e altri generi di prima necessità. Alcune decine di volontari stanno smistando le pile di indumenti: cappotti e gonne, vestiti per bambini, donne e uomini. Gli ucraini entrano continuamente nel deposito per prendere quello di cui hanno bisogno. C’è un gruppo di otto volontari che si occupa dell’intera operazione
La coordinatrice è Eleena Markevich. Parliamo nel suo “ufficio”, una minuscola stanza dove alcuni membri del team hanno dormito per la prima settimana in sacchi a pelo su materassi per terra.
“La sfortuna unisce le persone. Persone da Varsavia (ucraini, polacchi, bielorussi, turchi, russi) ci portano doni continuamente. Nei primi giorni la gente telefonava ogni minuto e io dicevo loro di cosa avevamo bisogno e cosa, invece, non ci serviva. Anche le comunità bielorusse all’estero si sono immediatamente unite a noi. Persone di altri paesi ci mandano pacchi, noleggiano minibus. Abbiamo appena ricevuto una consegna di articoli per l’igiene personale da sei furgoni. Abbiamo ricevuto telefonate da organizzazioni in Germania, Norvegia, Paesi Bassi e Georgia, che ci hanno offerto cooperazione e assistenza. Siamo in contatto con molti di loro già da tempo”.
I componenti del team di FreeShop Partyzanka non ricevono alcun salario, solo donazioni. Per Elena, tuttavia, negli ultimi diciotto mesi è stato un lavoro a tempo pieno, fin dalle proteste che hanno seguito le elezioni presidenziali in Bielorussia nel 2020. Lei viveva già da diversi anni in Polonia.
“Ricordo quanto eravamo sconvolti quando sono cominciate le persecuzioni a Minsk. Abbiamo organizzato raduni di protesta nel centro di Varsavia e non sapevamo cosa fare. L’unica cosa chiara per noi era che una marea di persone sarebbe arrivata e avrebbe avuto bisogno di aiuto. Abbiamo potuto vedere lo stato in cui erano i bielorussi quando sono arrivati qui. Soffrivano palesemente di stress post-traumatico. Ho ancora dei flashback ogni volta che incontro degli ucraini”.
Il centro di Varsavia
Due bandiere sventolano sull’edificio in cui nel 1989 si trovava la sede di Solidarność: il giallo-blu ucraino e il bianco-rosso-bianco bielorusso. Qui è stato da poco aperto un centro giovanile bielorusso. Offre uno spazio per attività culturali ed educative, una vera ventata di aria fresca per i bielorussi che sono stati costretti a lasciare la loro casa. Qui possono studiare in bielorusso, gruppi teatrali e cori possono fare le prove, si tengono anche concerti e giochi di società.
Il centro aiuta anche i bielorussi a trovare alloggio e a integrarsi nella società polacca. Attualmente è impegnato nel trasferimento e nella sistemazione delle persone fuggite dall’Ucraina. Il direttore del centro, Aliaksandr Lapko, mi riferisce che nella prima settimana i volontari hanno alloggiato sul posto.
“Tra i bielorussi si sono già create delle relazioni ben salde. Il 2020 è stato per noi l’anno in cui abbiamo cominciato a organizzarci. Più di venti organizzazioni bielorusse in varie città polacche si sono attivate. Ora lavoriamo tutti insieme” dice Aliaksandr.
Più di cinquanta volontari utilizzano le chat e i social network per cercare posti dove i rifugiati possano vivere, si accordano con gli hotel per un alloggio gratuito e si rivolgono alle chiese. Ai parrocchiani viene chiesto di lasciare i loro recapiti e la parrocchia poi li passa ai volontari.
“La prima ondata di solidarietà è estremamente intensa e deve essere sfruttata al massimo. I bielorussi sanno bene che l’argomento comincerà a sparire dai titoli dei giornali, ma il problema rimarrà e continuerà a crescere”.
Praticamente su ogni porta di via Oleandrów, a Varsavia, è appesa una bandiera ucraina. Il Centro di solidarietà bielorusso si trova qui, i contatti del centro sono nei volantini distribuiti nei punti di informazione per i rifugiati nelle stazioni ferroviarie
Un anno fa è stata aperta una scuola gratuita per i bambini bielorussi. Appena è iniziata la guerra la direttrice Helena Rodzina ha capito che sarebbero stati necessari gruppi simili per i bambini ucraini.
“I bambini sono qui dalle 9 alle 15, ogni gruppo ha la sua insegnante, tutte donne ucraine volontarie che hanno dovuto lasciare il loro paese a causa della guerra. Vengono anche insegnanti volontari di lingua polacca e inglese, di musica e di disegno. I bambini pranzano qui e fanno delle gite. Al momento ci sono tre gruppi di bambini nella scuola, 25 bambini in tutto. Il bambino ucraino più piccolo ha tre anni, il più grande dodici. Vorremmo iscrivere più bambini, quindi stiamo cercando dei locali adatti e un supporto finanziario”.
“I bambini ucraini hanno ricevuto un aiuto psicologico. Quelli arrivati dalla Bielorussia dopo il 2020 erano traumatizzati. Per la prima settimana hanno disegnato la polizia antisommossa nelle loro grandi uniformi nere, insieme a sangue, braccia e teste ferite… È stato orribile. Ora i bambini ucraini disegnano tutti bandiere gialle e blu, anche se nessuno ha detto loro di farlo, gli hanno solo dato carta e matite colorate”.
(Traduzione di Silvia Arseni)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale bielorusso Nasha Niva., in collaborazione con VoxEurop.
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