Il Sars-CoV-2, l’ultimissimo nemico dell’umanità, rischia di causare la morte prematura di milioni di persone. Nei laboratori di tutto il mondo si lavora senza tregua per imparare a conoscere questo nuovo coronavirus, sperando così di poterlo controllare.
Sono tre le domande fondamentali che impegnano i virologi. Cosa rende il nuovo virus capace d’infettare gli esseri umani? Come fa a riprodursi così in fretta una volta che è dentro di noi? Perché non provoca subito dei sintomi, riuscendo così a diffondersi indisturbato? Le risposte potranno indicare la strada per le terapie da usare e i vaccini da sviluppare. Gli indizi si annidano nella biologia del virus.
Come tutti i virus, anche il Sars-CoV-2 deve infettare le cellule viventi per potersi riprodurre. L’obiettivo dei virus, infatti, è quello di entrare in una cellula, prendere il controllo del meccanismo interno e riadattarlo per creare nuovi virus che, una volta espulsi, potranno infettare altre cellule sia dello stesso organismo sia di un nuovo ospite.
La struttura
Il Sars-CoV-2 appartiene a una famiglia di coronavirus piuttosto complessi. Ciascuno ha all’interno un filamento di Rna, una molecola simile al dna, che costituisce il genoma. Intorno c’è un involucro proteico circondato da due strati di molecole chiamate lipidi. Questa membrana esterna è cosparsa di proteine, alcune delle quali si presentano come gli aculei di un riccio di mare.
Secondo Michael Letko del National institute of allergy and infectious diseases del Montana, le proteine “spike” (a forma, appunto, di aculeo) sono fondamentali: sono come delle ancore che il virus usa per legarsi a una proteina presente sulla superficie di una cellula.
In uno studio pubblicato il 9 marzo, un gruppo di ricercatori coordinati da Alexandra Walls, della University of Washington di Seattle, ha determinato al microscopio elettronico la struttura atomica della proteina spike del nuovo coronavirus (Cell), informazione utile per poter sviluppare farmaci inibitori che gli impediscano di legarsi alle cellule umane.
Le proteine “spike” sono fondamentali: sono come delle ancore che il virus usa per legarsi a una proteina sulla superficie di una cellula
Un’altra strategia con cui possiamo difenderci consiste nel prendere di mira le proteine delle cellule umane a cui si legano le spike, ma per farlo bisogna prima sapere quali sono. Una candidata è quella usata dal virus affine che provoca la Sindrome respiratoria acuta grave (Sars), cioè l’enzima di conversione dell’angiotensina 2 (o Ace2). Alla fine di febbraio il gruppo di ricerca di Letko è stato uno dei tanti a confermare che la proteina spike del nuovo coronavirus si lega anche all’Ace2 (Nature Microbiology).
Per Letko l’ipotesi dell’Ace2 è plausibile: “È presente nei polmoni e nell’apparato gastrointestinale, quindi potrebbe in parte spiegare perché il virus riesce a infettare questi organi”.
Bloccare l’ingresso
Tuttavia il coronavirus non si limita a legarsi all’Ace2. Prima la proteina spike deve dividersi, e per farlo sfrutta le proteine delle cellule umane. Una di quelle cooptate a questo scopo è la serina proteasi transmembrana 2, individuata da due studi pubblicati a marzo (su Cell e su Pnas). Il team di Walls ha scoperto che anche la furina, una seconda proteina, è in grado di dividere la proteina spike.
“Possono essere bersagli anche loro”, dice Rolf Hilgenfeld dell’università tedesca di Lubecca. Se riuscissimo a bloccare queste proteine umane con i farmaci, il virus non sarebbe più in grado di entrare nella cellula ospite, ma ovviamente s’interromperebbero anche le normali funzioni delle proteine, con potenziali effetti collaterali.
L’ingresso del virus nelle cellule può essere bloccato anche da una proteina chiamata antigene linfocitario 6E, coinvolto nella nostra risposta immunitaria. In uno studio pubblicato il 7 marzo, Stephanie Pfänder e i suoi colleghi dell’università della Ruhr a Bochum, in Germania, hanno dimostrato che questa proteina impedisce l’ingresso nelle cellule a molti coronavirus, tra cui quello responsabile del Covid-19, e che i topi che non ce l’hanno sono più esposti all’infezione di quelli che la hanno (bioRxiv).
Per Pfänder, se scoprissimo il ruolo di questa proteina potremmo imitarla con un farmaco, che magari sarebbe in grado di combattere l’infezione di molti coronavirus. “Va da sé che avere un inibitore di coronavirus sarebbe importantissimo non solo per l’attuale pandemia, ma anche per le possibili epidemie future”, spiega.
Come curare una persona infetta
Impedire a un virus di entrare nelle cellule è un conto, curare una persona già infetta è un altro. In questo caso, infatti, bisogna contrastare la capacità del virus di riprodursi all’interno delle cellule.
A questo proposito le possibilità più ovvie sono due. Per proliferare, il virus deve costruire proteine e copiare il proprio genoma a Rna. Prima di tutto produce proteine. Quando l’Rna virale entra in una cellula infetta, l’ospite dà avvio alla lettura dell’informazione genetica del virus e unisce due grandi “poliproteine” che contengono svariate proteine virali tra cui le proteasi, enzimi che si scindono dalla poliproteina per poi “tagliare” altre proteine e liberarle affinché svolgano la loro funzione.
“Se il meccanismo s’interrompe il virus non può replicarsi”, dice Hilgenfeld. Dopo aver stabilito la struttura atomica della proteasi principale (bioRxiv) e individuato le sostanze che si legano a questa (bioRxiv), il suo gruppo di ricerca sta sviluppando un inibitore delle proteasi principali dei coronavirus, e del gruppo affine degli enterovirus, con la speranza che la diffusa applicabilità risulti appetibile per una casa farmaceutica. Ora i ricercatori l’hanno modificato affinché sia efficace anche contro il Sars-CoV-2, dimostrando che funziona su singole cellule, ma la sperimentazione è ancora lunga prima che il farmaco si possa usare in chi è affetto da Covid-19.
Impedire la replicazione
L’altra possibilità è impedire al virus di copiare il proprio genoma, processo che avviene con un’altra proteina virale, la Rna polimerasi Rna dipendente (RdRP). Poiché quando copiano il genoma non correggono gli errori di trascrizione, tantissimi virus Rna si possono bloccare introducendo Rna modificato che, “se il virus è abbastanza stupido”, come dice Hilgenfeld, sarà inglobato dalla RdRP.
Purtroppo i coronavirus come il Sars-CoV-2 sono dotati di esonucleasi, l’enzima “correttore” che rimuove l’Rna modificato e consente di proseguire la duplicazione. “Molti RdRP inibitori esistenti non funzionano contro i coronavirus”, spiega Hilgenfeld.
Al cuore della diffusione c’è proprio la capacità del coronavirus di riprodursi nel nostro corpo per giorni senza innescare la risposta immunitaria.
Tuttavia, i ricercatori coordinati da Tai Yang, del Chengdu medical college, in Cina, hanno individuato sette composti chimici che, secondo i loro calcoli preliminari, potrebbero forse legarsi alla RdRP (Preprints). Anche il Remdesivir, un farmaco sviluppato per l’ebola, si è dimostrato promettente come RdRP inibitore.
Propagazione nascosta
Sul lungo termine ci serve sapere perché questo virus è così contagioso. “È stata la propagazione non rilevata ad aggravare l’epidemia”, commenta Letko.
Al cuore della diffusione c’è proprio la capacità del coronavirus di riprodursi nel nostro corpo per diversi giorni senza innescare la risposta immunitaria. I sintomi più riconoscibili – febbre e tosse – sono infatti dovuti alla reazione del sistema immunitario, procrastinata dal virus grazie ad alcuni suoi geni, detti “non strutturali”. Questi geni codificano proteine che manomettono il nostro sistema immunitario. Di solito quando una cellula s’infetta scatta un segnale d’allarme. “Il virus ha delle proteine che interferiscono con quel segnale”, dice Letko.
Siccome alcuni geni non strutturali del Sars-CoV-2 sembrano simili a geni conosciuti, possiamo avanzare un’ipotesi realistica sulla loro funzione. “Di altri, però, sappiamo poco o niente”, conclude Letko.
Anche se nell’immediato conoscere queste proteine non ci aiuterà a rallentare l’epidemia, un domani potrebbe essere molto utile per creare farmaci antivirali.
(Traduzione di Stefania De Franco)
Questo articolo è uscito su New Scientist
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