“Condivido la rabbia e il dolore di tanti statunitensi di fronte ai recenti omicidi di uomini e donne neri non armati. Il razzismo e la violenza non devono esistere in America”, ha dichiarato nel giungo del 2020 Mike Wirth, amministratore delegato dell’azienda petrolifera statunitense Chevron. “Sono convinto che siamo più forti quando accettiamo le nostre differenze e questo è il momento di farlo”.
All’indomani dell’omicidio di George Floyd ucciso dalla polizia di Minneapolis il 25 maggio 2020, la Chevron si è affrettata a manifestare pubblicamente sui social network il suo sostegno al movimento Black lives matter. Poi l’azienda ha pubblicato le dichiarazioni dell’intero gruppo dirigente, del direttore delle risorse umane e del vicepresidente esecutivo per denunciare “il razzismo sistematico” e “l’ingiustizia razziale”.
In realtà si tratta di un’operazione di comunicazione terribilmente cinica. Negli Stati Uniti, un afroamericano (uomo o donna) ha 1,54 possibilità in più di essere esposto a forme d’inquinamento causate da energie fossili rispetto al totale degli abitanti del paese. La Chevron, per esempio, è responsabile di un grave inquinamento a Richmond, in California, una città a maggioranza nera dove si trova una delle sue più grandi raffinerie e dove l’impresa sovvenziona generosamente gli agenti della polizia locale. Infine diversi rapporti dell’organizzazione statunitense per la difesa dei diritti civili, la Naacp, hanno dimostrato nel 2019 che la Chevron finanziava in modo consistente alcuni deputati conservatori poco rispettosi dell’uguaglianza razziale.
Il wokewashing
Anche la francese Total (petrolio e gas) sembra preoccuparsi da qualche tempo della questione razziale. Da tre anni la multinazionale sostiene con un aiuto economico la Fondazione per la memoria della schiavitù per “capire l’eredità delle generazioni precedenti che sono alla base della nostra identità, valorizzare la diversità, lottare contro i pregiudizi e le discriminazioni razziali”.
Nel 2020 la Total si è vantata di aver aiutato in Francia 350 rifugiati favorendo il loro inserimento professionale, in particolare attraverso la formazione. “Un impegno che si spiega con il nostro attaccamento ai valori della diversità e dell’inclusione”, ha riferito l’azienda. La Total parla molto anche della “politica inclusiva” verso le persone vittime di razzismo nei paesi stranieri dove estrae e produce combustibili fossili. In Sudafrica, per esempio, l’azienda sostiene il Buskaid string ensemble, un gruppo di musica classica composto da giovani neri provenienti dalla township di Diepkloof, a Johannesburg. In realtà la regione è di fondamentale importanza per la Total, poiché il gruppo sta avviando lì una nuova campagna di estrazione di energie fossili in seguito alla scoperta di enormi giacimenti di gas nel 2019 e nel 2020 al largo delle coste meridionali del paese.
Le recenti ricerche scientifiche di Robert Brulle, sociologo dell’ambiente all’università Brown, di Rhode Island, o dell’economista William Lamb dell’istituto di ricerca Mercator sul cambiamento climatico di Berlino, si sono concentrate sulle spese e sui discorsi pubblicitari delle grandi aziende petrolifere.
Questi lavori dimostrano che tra le strategie di comunicazione destinate a ritardare l’azione contro la crisi climatica – come il greenwashing (ambientalismo di facciata) o l’ottimismo tecnologico per ritardare il riscaldamento globale – i messaggi incentrati sulla giustizia sociale sono sempre più frequenti. Da qualche tempo le multinazionali del petrolio affermano che le energie fossili hanno un impatto positivo sulle comunità più discriminate e addirittura contribuiscono all’emancipazione delle minoranze, in quanto lo sfruttamento del petrolio e del gas è sinonimo di sviluppo economico e quindi necessariamente di riduzione delle ingiustizie. Questa nuova pratica comunicativa delle imprese è stata battezzata dai ricercatori wokewashing (grosso modo, attivismo di facciata).
“I gruppi petroliferi seguono da vicino le evoluzioni della società, e le lotte contro le discriminazioni razziali e il femminismo fanno parte delle preoccupazioni attuali delle società occidentali”, spiega Edina Ifticene, responsabile del settore petrolio di Greenpeace. “In una strategia che consiste nel riciclare la loro immagine, attraverso il wokewashing aziende promuovono la loro credibilità sociale mantenendo inalterata la produzione di energie fossili e lo status quo climatico”.
Femminismo apparente
La Total afferma di far “progredire l’uguaglianza tra i sessi e di promuovere l’autonomia delle donne” attraverso il suo sostegno a organizzazioni sociali dei paesi del sud o attraverso il mecenatismo culturale, per esempio sponsorizzando la mostra Divas all’Institut du monde arabe a Parigi nel 2020. “Da Oum Kalthoum a Dalida, in questa mostra si scoprono alcune icone e pioniere che sono un modello di emancipazione per tutte le generazioni di donne”, ha affermato l’azienda francese.
Negli ultimi mesi la Total ha prodotto e trasmesso due podcast definiti “femministi” che promuovono l’associazione Rêv’Elles – finanziata dal gruppo petrolifero con un contributo di 300mila euro in tre anni. Questa struttura accompagna in Francia le ragazze provenienti da contesti impoveriti “colpite dal fardello del determinismo sociale e dalla discriminazione legata al genere”. In Uganda nel 2021 con il premio internazionale della Fondation la France s’engage (la Francia si impegna), l’azienda ha sostenuto le imprenditrici attraverso la creazione di microimprese locali di assorbenti ecologici. Nel frattempo, però, in questo stesso paese la Total vuole creare entro il 2025 quattrocento pozzi petroliferi sulle rive di uno dei più grandi laghi africani e un gigantesco oleodotto lungo più di 1.400 chilometri. Per questi progetti più di 30mila persone saranno trasferite per lasciare spazio alle trivellazioni.
“Tra il dicembre 2019 e l’aprile 2021 il 22 per cento delle pubblicità della Total era dedicato alle questioni sociali, compresi i temi della diversità e dell’integrazione”, osserva Ifticene. “Dicendo di sostenere i diritti delle donne l’azienda si rivela ipocrita, dato che il cambiamento climatico e l’attività estrattiva fossile hanno un grande impatto soprattutto sulle donne. È solo un diversivo per distogliere l’attenzione dalle attività della compagnia in Mozambico, in Uganda o in collaborazione con i regimi autoritari di paesi come la Birmania e l’Arabia Saudita”.
Sfruttare i popoli nativi
Prima produttrice mondiale di petrolio, la Saudi Aramco, azienda pubblica appartenente allo stato saudita, promuove con una grande campagna di comunicazione il suo impegno per l’uguaglianza dei generi. Anche se l’Arabia Saudita è tra i dieci paesi al mondo che più discriminano le donne, nel 2019 l’amministratore delegato dell’Aramco ha dichiarato l’8 marzo di quell’anno: “Oggi all’Aramco abbiamo delle ingegnere petrolifere che lavorano sul terreno e nelle fabbriche, fornendo soluzioni alle sfide di produzioni complesse […]. Il settore dell’energia nel suo insieme ha bisogno di un migliore equilibrio tra i sessi”.
All’Aramco piace mettere in evidenza le sue dipendenti “stimolanti, motivate e determinate”, come Haleema Alamri, scienziata nel settore della ricerca e sviluppo dell’impresa, al tempo stesso “madre di due figli e ricercatrice in stretti rapporti con il Mit”, o Abeer Aljabr, una delle prime donne del regno a ricevere un certificato mondiale nel campo della lotta agli incendi e dipendente dell’azienda.
Anche se una sola donna – una statunitense – fa parte delle undici persone del consiglio di amministrazione e nessuna figura tra gli otto componenti del gruppo direttivo, la Saudi Aramco afferma: “Diamo al nostro personale i mezzi per agire grazie a delle pratiche inclusive e forniamo opportunità alle donne per avere posizioni direttive a tutti i livelli”.
Anche la statunitense ExxonMobil, prima compagnia petrolifera privata al mondo, sostiene che l’estrazione dell’oro nero contribuisce al benessere dei popoli autoctoni e delle popolazioni locali. L’azienda si vanta del fatto che per un progetto di oleodotti nel nord dell’Alaska, insieme alle comunità autoctone locali che vivono di caccia e di pesca, “ha applicato un rivestimento metallico non brillante sulle condutture per ridurre gli effetti ottici sulla fauna”. O di aver versato nel 2019 253 milioni di dollari “alle comunità di tutto il mondo”, tra cui 400mila dollari di aiuti di primo soccorso al Mozambico dopo il passaggio del ciclone Idai nel marzo 2019. Il colmo dell’ironia è che dal 1965 la ExxonMobil è la prima azienda mondiale per emissioni di gas a effetto serra e Idai è stato definito da Amnesty international “una delle peggiori catastrofi legate al clima in Africa australe”.
La Shell è presente dal 1929 nel sultanato del Brunei, un paese con una legislazione molto dura nei confronti delle persone lgbt
Per quanto riguarda i 253 milioni di dollari stanziati nel 2019 dalla ExxonMobil per la sua “politica di giustizia sociale in favore delle comunità locali”, quei soldi rappresentano appena l’1,8 per cento del suo risultato netto quello stesso anno.
Con un discorso “sociale” simile a quello della ExxonMobil, l’azienda anglo-olandese Shell si è fatta notare nel marzo del 2021 per aver pubblicato su YouTube un video promozionale in onore di Yogita Raghuvanshi, la prima donna autista di camion in India. Allo scopo di ribadire al grande pubblico il suo impegno nei confronti delle popolazioni in condizioni precarie nei paesi del sud, il gruppo pensa di fornire fino al 2030 l’elettricità per i campi profughi in Africa orientale e in Asia. La Shell ha calcolato che il “mercato energetico per questi campi” potrebbe presto raggiungere i 5,3 miliardi di dollari all’anno.
“È incredibile vedere come la Shell e la Total cerchino di migliorare la loro immagine attraverso la questione dei profughi. In realtà queste aziende continuano consapevolmente a sfruttare le energie fossili aggravando il cambiamento climatico e spingendo di fatto la gente dei paesi del sud all’esilio”, afferma Anna-Lena Rebaud di Amici della Terra. “Il loro business, basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse del sud, è un’attività intrinsecamente razzista”.
Secondo l’Onu, 23 milioni di persone nel mondo nel 2020 sono state costrette a lasciare le loro case a causa di eventi climatici estremi.
Dal Gay pride alla cancel culture
La Shell e la compagnia petrolifera britannica Bp sono pioniere in materia di wokewashing. Nel 2017 la Shell ha finanziato il Gay pride negli Stati Uniti e in Australia. L’anno dopo ha finanziato quello di Amsterdam, durante il quale ha realizzato una grande operazione di comunicazione in favore delle persone lgbt, mettendo bandiere arcobaleno nelle stazioni di servizio e su un immenso serbatoio di petrolio dei Paesi Bassi.
Eppure la Shell è presente dal 1929 nel sultanato del Brunei, un paese con una legislazione molto dura nei confronti delle persone lgbt. In questa monarchia omofoba, dove gli idrocarburi rappresentano il 90 per cento delle entrate del governo, la Shell dirige insieme allo stato la Brunei Shell petroleum, un consorzio per l’estrazione di petrolio e gas che è la più grande compagnia del paese e uno dei primi datori di lavoro del sultanato.
A sua volta nel 2017 la Bp ha fondato Trans in the city, un’iniziativa “per far progredire l’inclusione della diversità transgender, non binaria e di genere nelle aziende sensibilizzando il pubblico”. Due anni dopo l’amministratore delegato, Bernard Looney, è stato intervistato dall’attivista e attore Jake Graf, nota figura queer del Regno Unito. La Bp ha inoltre sponsorizzato 28 atleti in occasione delle ultime Paralimpiadi e nell’ottobre 2021 ha lanciato una campagna sui social media per la giornata mondiale della salute mentale. Affermando di essere un datore di lavoro inclusivo, il vicepresidente Mark Crawford, responsabile per la diversità, l’equità e l’inclusione, ha detto: “Il 2020 (anno del movimento Black lives matter) è stato il segnale di cui il mondo aveva bisogno e il catalizzatore di quello che siamo oggi. L’ondata di energia che abbiamo osservato contro l’ingiustizia razziale ha portato alla creazione di modelli di azione”.
Questo discorso di wokewashing nasconde male la realtà salariale dell’azienda: nel 2020 gli uomini erano il 73 per cento dei dirigenti della Bp e nel Regno Unito appena il 2 per cento dei dipendenti era nero.
Il culmine della strategia con cui aziende petrolifere “puliscono” la loro immagine è stato raggiunto lo scorso novembre alla ventiseiesima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop26) a Glasgow, con la dichiarazione del Gas exporting countries forum (Gecf), un gruppo di diciotto paesi esportatori di gas, dove le grandi compagnie petrolifere estraggono attualmente il loro gas fossile. Protestando contro il fatto che l’accordo finale di Glasgow aveva sottolineato per la prima volta la necessità di ridurre il ricorso agli idrocarburi, la Gecf ha affermato nella sua dichiarazione finale di essere vittima della cancel culture contro le energie fossili.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Questo articolo è uscito sul sito d’informazione francese Mediapart.
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