A fine luglio la provincia di Oristano, in Sardegna, è stata devastata da più incendi. Il fronte del fuoco, lungo cinquanta chilometri, ha bruciato per più giorni, alimentato da scirocco e libeccio: ventimila ettari sono stati distrutti nelle zone storiche del Montiferru, Marghine e Planargia. Dallo spazio il satellite Nasa ha catturato le immagini dell’incendio. A terra – nel centro dell’isola – il sole era oscurato dal fumo.
Le fiamme hanno distrutto boschi di lecci e querce, uliveti secolari, greggi, mungitrici, strade, capannoni industriali, depositi di fieno, muretti a secco, ripetitori telefonici e automobili. Nelle campagne nere di fuliggine, sotto gli scheletri degli alberi, sono rimaste le carcasse degli animali selvatici: volpi, lepri, cinghiali. Circa 1.500 persone hanno dovuto lasciare le proprie case lambite o devastate dal fuoco in paesi come Cuglieri e Scano di Montiferro, Macomer e Tresnuraghes.
Nonostante i voli di sette canadair e undici elicotteri, e il lavoro dei vigili del fuoco, del corpo forestale, della protezione civile e dei volontari contenere le fiamme è stato impossibile. Così il governo nazionale ha chiesto l’aiuto dell’Europa, e dalla Francia e dalla Grecia sono arrivati altri quattro canadair. La giunta regionale ha subito promesso ristori, chiesto lo stato di emergenza a cui seguirà lo stato di calamità. Anche il presidente della repubblica, Sergio Mattarella, ha espresso solidarietà e sostegno all’isola, mentre alcuni comuni hanno aperto raccolte fondi e gli allevatori da tutta l’isola hanno inviato camion di foraggio e mangimi per pecore, capre e bovini sopravvissuti.
A pochi giorni dal disastro la procura di Oristano ha aperto un’inchiesta – a carico di ignoti – per incendio colposo aggravato. Le indagini del corpo forestale sono ancora in corso. L’unica certezza è che il primo innesco è partito dal rogo di un’auto tra Santu Lussurgiu e Bonarcardo. Domato e poi ripartito, il procuratore Ezio Domenico Basso l’ha definito: “Il peccato originale”. Da lì in dodici ore i focolai si sono moltiplicati, incontrollati.
Breve e lungo termine
Per la Sardegna gli incendi non sono una novità: ogni anno nella tarda primavera si lanciano campagne di prevenzione – quella del 2020 è costata trenta milioni di euro – ma a fine estate si fa invariabilmente la conta dei danni. È vero che negli ultimi due anni ce ne sono stati di meno (1.047 nel 2020, 1.265 nel 2019), ma è altrettanto vero che è aumentata la loro estensione (8.143 ettari interessati da roghi nel 2020, 6.805 nel 2019, secondo la ricostruzione della regione).
Trent’anni fa il fuoco portava anche la morte: alla fine del luglio 1983 in Gallura, nella collina di Curraggia, ci furono nove vittime, nel 1989 a Portisco – vicino Olbia – tredici. Stavolta nessuno è rimasto ferito in modo grave, ma le conseguenze ambientali, economiche e sociali sono incalcolabili.
“È uno degli incendi più importanti tra quelli censiti fin dagli anni novanta”, spiega Gianluigi Bacchetta, ordinario di botanica ambientale all’università di Cagliari e direttore del centro conservazione biodiversità. “Il danno non è solo paesaggistico ma economico. Nelle zone dei roghi ci sono aziende d’eccellenza, allevamenti di razze speciali come il bue rosso e uliveti secolari il cui olio vince premi internazionali”. Nella località di “Sa tanca manna” (il grande podere) è bruciato anche l’olivastro millenario: “In collaborazione con il corpo forestale e l’amministrazione stiamo tentando di salvare le sue radici”, dice Bacchetta.
Secondo il botanico, ci sono conseguenze a breve termine già visibili: “Gli allevamenti danneggiati sono molti e sarà difficile colmare le perdite con i soldi che arriveranno”. E poi ci sono gli effetti a medio e a lungo termine: “Mandrie e greggi potrebbero ricostituirsi tra cinque e dieci anni, invece gli uliveti sono persi. Perché, pur piantumando a ottobre, la produzione si avrà tra almeno venti anni. Un proprietario di cinquant’anni, nella sua vita, non vedrà più l’olio degli alberi ereditati dai padri e dai nonni”. E la vita nel bosco? “Lì la biodiversità selvatica è stata totalmente decimata in poche ore, colpendo un intero patrimonio di specie vegetali endemiche e animali”.
Prevenzione
Il Montiferru era stato già attraversato da un incendio nel 1994. Allora gli ettari distrutti furono 7.500: a dirigere le operazioni di spegnimento c’era il dirigente del corpo forestale Giuseppe Mariano Delogu (ora docente di tecniche di protezione civile dell’università di Sassari). “Il fuoco anche stavolta ha fatto lo stesso percorso. Non servono tagli ma bisogna diradare le piante (cioè sradicare quelle malate e alcune tra le più giovani per consentire uno sviluppo più armonioso, ndr) e dedicarsi a una cura costante del territorio. Gli alberi si devono tagliare solo a fine ciclo vitale, ma i boschi non vanno abbandonati a se stessi, per esempio la presenza dei pascoli è importante per raggiungere un buon equilibrio”, spiega. A denunciare lo stato di abbandono ci aveva pensato anche un comitato spontaneo del Montiferru con una lettera aperta pubblicata online il 7 giugno, in cui definiva quel bosco “un pericoloso deposito di combustibile”.
Quando non c’è programmazione e cura, il risultato è che in roghi come quelli di questi giorni le fiamme raggiungono altezze fino a dodici metri e velocità di propagazione di cento metri al minuto: “Sono i cosiddetti grandi incendi forestali, in alcune condizioni climatiche ci sono salti di fuoco anche di cinquecento metri”, spiega Delogu. “L’incendio va di collina in collina, si incanala e avanza velocemente. Ho visto la vallata di Bau e mela bruciare in mezz’ora”.
Il rischio c’è ed è ovunque: “Invece di lavorare come se fossimo sempre in emergenza, bisognerebbe pianificare e prevenire”, aggiunge Delogu. “Quando vedo certi resort turistici con i rami degli alberi che quasi entrano nelle camere da letto rabbrividisco. Praticamente è come dormire accanto a un bidone di benzina. Manca totalmente la consapevolezza che ciò che è bello, naturale, non è per forza sicuro. Ci siamo abituati e convinti che incendi su vasta scala come quelli che avvengono in Australia e in California non possono replicarsi in Italia, ma non è così. E i fatti ce lo stanno dimostrando”.
Crisi climatica
I bollettini della protezione civile regionale per il weekend del 23-25 luglio lanciavano l’allarme per una “saccatura Atlantica, che avvicinandosi al Mediterraneo occidentale, provoca la risalita di masse d’aria calda dal Nordafrica. Il fenomeno provocherà un aumento delle temperature massime localmente oltre i 40 gradi, specie sul Campidano e il Sulcis da venerdì, in estensione alla parte centrale dell’isola e in particolare nelle valli del Tirso e del Coghinas da sabato, sino ad arrivare sulla Gallura domenica 25”.
La crisi climatica ha avuto un suo ruolo: “Il caldo delle scorse settimane nell’Italia meridionale e in Sardegna non è stato normale”, spiega Matteo Tidili, meteorologo di Rai Meteo. “Le temperature sono state più alte rispetto alla media, specie nel fine settimana dei roghi”. Non solo: “Soffiava lo scirocco e nella notte prima del disastro nell’area ci sono state raffiche di vento scese dai cumulonembi (nubi dense e grandi, tipiche dei temporali, ndr) che, arrivate a terra, si sono aperte a ventaglio. Una condizione favorevole per il riattivarsi di focolai spenti”.
Gli allagamenti a Como e le grandinate a Milano sono il rovescio della stessa medaglia, sostiene Tidili. Una questione globale: “Anche le alluvioni in Germania e in Cina vanno messe nella cornice della crisi climatica. Mai in Cina erano stati registrati 202 millimetri d’acqua in un’ora”.
Spopolamento
Gli incendi in Sardegna vanno inquadrati anche guardando al costante abbandono del territorio. Lo spopolamento delle aree centrali è un problema così sentito che l’Anci regionale ha chiesto di affrontarlo usando i fondi europei del Next generation Ue.
In otto anni, dice l’Istat, sull’isola si contano 27mila abitanti in meno a causa delle poche nascite e dell’emigrazione. Trentuno piccoli paesi potrebbero non esistere più entro il 2031, dice uno studio dell’università di Cagliari. “Bisognerebbe rendere redditizio lavorare e vivere in questi posti, e soprattutto rendere l’entroterra, le campagne, luoghi produttivi”, dice Mario Nonne, del consiglio nazionale dei geologi.
“È un fenomeno che si osserva ovunque, non solo in Sardegna, ma anche nelle aree interne e montane dell’intero paese”, dice Nonne. “Negli Appennini i borghi si sono spopolati, così come le campagne, e boschi e terreni un tempo produttivi sono abbandonati da tempo. Mancano capre e pecore che pascolano, non si fa più il ritiro della legna sotto le fronde”. Tutte condizioni che impediscono quella cura del territorio che è fondamentale, tra le altre cose, a prevenire gli incendi.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it